venerdì 21 febbraio 2025

Edipo re di Sofocle. Sesta parte.


 

Nel primo stasimo (vv.463-510) troviamo il motivo dell'animale del sacrificio necessario e imminente, il toro delle rupi (petrai`o~ oJ tau`ro~, v.478), il re stesso: il medesimo uomo-toro predestinato al sacrificio  nell'Agamennone   di Eschilo: "a[pece th'" boo;"-to;n tau'ron: ejn pevploisin-melagkevrw/ labou'sa mhcanhvmati-tuvptei", tieni il toro lontano dalla vacca: presolo nella rete lo colpisce con il congegno delle nere corna (vv.1125-1128).

Ci sono pure echi di riti antichissimi, di lotte tra i sessi e conflitti di culture che passano attraverso l'assassinio del maschio ma si concludono con l'assoggettamento della donna nella tragedia di Eschilo; in questo contesto compare la Sfinge, una creatura ibrida: "la ragazza con le ali" (pterovess j h\lqe kovra, v.508) che può rappresentare una femminilità affascinante, inquietante e  pure distruttiva; Euripide nelle Fenicie  la chiama:" Oh alata, parto della terra e dell'infernale Echidna, rapace dei Cadmei, assassina, causa di molto pianto"(vv.1018 e sgg.), e così via.

Si tenga conto che la Sfinge nasce da un incesto: Echidna la vipera l’aveva generata accoppiandosi con il proprio figliolo, il cane Orto.

Ebbene Edipo ha vinto lo scontro con il mostro micidiale, e per questo il coro spera che il re non abbia torto nella contesa con il vate. I vecchi Tebani non sanno che il giovane vincitore della ragazza cattiva, oltre giacere con la madre soggiace alla madre ed è subornato da lei quando lancia bestemmie contro i sacerdoti e gli oracoli santi.

 

Nel secondo episodio (vv.512-862) Edipo accusa il cognato Creonte di volere usurpare il suo posto in combutta con Tiresia.

Quindi nega loro ogni possibilità di successo esponendo la propria teoria sul fondamento del potere che dovrebbe essere costituito dal consenso popolare e dal denaro, mezzi dei quali i due congiurati sono sprovvisti.

Creonte ribatte da cortigiano, dicendo di avere tutti i vantaggi  senza gli inconvenienti del capo, per cui non è suo interesse passare dal ruolo di secondo della città a quello di primo ; come si vede, parla in maniera logica, con qualche sfumatura di ipocrisia e di malevolenza che è difficile non attribuirgli dopo conoscendo la precedente Antigone .

Con il verso 634 debutta Giocasta, la magna mater et magistra , che cerca di mettere pace tra i due uomini, il marito, che è pure suo figlio, e il fratello, e di porre fine all'angosciosa ricerca di Edipo. Per ottenere questo scopo dettato dall'istinto di sopravvivenza, la sciagurata non si perita di negare valore all'arte profetica (v.709); ma, mentre racconta la morte di Laio, al fine di coonestare la propria empietà, dà notizie che fanno rabbrividire Edipo.

Giocasta precisa quale fu il luogo dell’assassinio del vecchio re seguito dalla strage del seguito:

"Focide si chiama la regione, e una via spezzata in due-scisth; d j oJdov~-conduce nel medesimo luogo da Delfi e da Daulia”.

Edipo, che proprio lì aveva ucciso un vecchio con il suo seguito, leva il grido: “O Zeus, che cosa vuoi fare di me? (738).

Il figlio di Laio ha già ricevuto un forte indizio.

Quindi domanda alla madre qual era l’aspetto del sovrano ammazzato, e Giocasta risponde:

“alto, incanutito da poco sul capo

e non era molto lontano dalle fattezze tue” (742-743)

 Edipo  teme sempre più di essere proprio lui l'uccisore di Laio, e racconta a Giocasta il  proprio ricordo  della strage compiuta.

Ha terrore di essere l'assassino del re precedente, e perciò il mivasma della città. Ma ha ancora una via di scampo.

 Perché il massacro compiuto da Edipo e quello subìto da Laio con il seguito siano due cose diverse, bisogna che l'unico sopravvissuto della scorta tebana confermi quanto si dice: che i predoni uccisori erano più di uno. Probabilmente una voce fatta mettere in giro dall'ambiente della corte, forse dalla stessa Giocasta per scagionare il secondo marito il quale   le aveva raccontato di avere ammazzato da solo uno sconosciuto con il suo seguito. Di fatto la regina è riluttante a fare venire il testimone, ma Edipo impone che sia convocato. E' davvero fuori dal comune questo re-tiranno inteso a dissipare la "nebbia folta" e ad abbattere il "muro sì grosso" interposto tra il palazzo e la piazza.

 

Nel secondo stasimo (vv.862-910) il coro raccomanda la purezza sia delle parole sia delle azioni, e l'ossequio a quelle leggi divine che, nate nel cielo, gli uomini non possono cancellare poichè, come si legge nell'Antigone (v.454) non sono  scritte e non sono vacillanti.

Piuttosto traballa il tiranno generato dalla prepotenza che lo fa salire sui fastigi del potere, ma siccome questo non ha una base morale, non può evitargli la caduta precipitosa negli abissi scoscesi della necessaria  rovina dove non si avvale di valido piede- e[nq j  ouj podi; crhsivmw/ -crh`tai (878-879).

Non bisogna dimenticare che Edipo aveva avuto le caviglie forate e quindi doveva zoppicare, con i piedi gonfi (oijdevw e oijdavw-pouv").

La tirannide è infatti una monarchia claudicante. Si può pensare anche a Riccardo che nel dramma di Shakespeare  si presenta come deform’d , unfinish’d- (Riccardo III, I, 1, 20) deforme, incompiuto, and so lamely and unfashionable that dogs bark at me, as I halt-  (I, 1, 20-23) e così claudicante e goffo che I cani mi abbaiano quando arranco vicino a loro

.

 

 

La teoria opposta viene formulata nel Gorgia  di Platone da Callicle il quale sostiene (483a-d) che legge  naturale è il predominio del più forte e che la giustizia perequativa è una falsificazione architettata  dai deboli, confederati insieme per contraffare la natura e non lasciarsi schiacciare da chi ne ha le capacità e il diritto.

 

Il coro di vecchi tebani prega affinché la tirannide non prevalga. Il despota non giova a nessuno, tanto meno a se stesso.

 

 Già Esiodo nelle Opere  (vv.265-266) aveva scritto che prepara i mali per sé chi li apparecchia ad un altro, e che il pensiero cattivo è pessimo per chi l'ha pensato.

 

Del resto, si domanda Sofocle attraverso il coro che gli dà voce, se le azioni malvagie sono onorate, che senso ha questo mio canto?- eij ga;r toiaivde pravxei" tivmiai,-tiv dei' me coreuvein; (vv. 895-896)

 Se gli improbi non vengono confutati, perdono ragione di essere l'arte, la religione, e gli dei vanno in malora.

 

 

 

Terzo episodio (vv.911-1086). Giocasta rivolge una preghiera ad Apollo, ma quando arriva da Corinto un messo per annunziare che Polibo è morto di morte naturale, la regina maledice gli oracoli ripetutamente e spinge Edipo a imitarla. Il fatidico altare di Delfi dunque ha sbagliato indicando nel figlio di Polibo l'assassino del padre, e i vaticini pitici giacciono nella tomba con il re morto per conto suo. A Edipo rimane l'angoscia delle nozze con la madre, preannunciate anch'esse dall'ombelico del mondo, ma questa paura, obietta Giocasta, è  vana, siccome fatta della  materia di cui sono fatti i sogni.

Interviene però il messaggero corinzio a disilludere la coppia reale: Edipo non è figlio di Polibo, poiché fu portato sulla città dell'Istmo da lui stesso che lo aveva ricevuto da un pastore tebano. Il corifeo anzi suppone che questo sia il servo già mandato a chiamare per riferire sull'assassinio di Laio (vv.1051-1052). La madre non ha più dubbi  e fugge via inorridita.

 Edipo crede di essere un trovatello, e pensa che la  donna si sia allontanata perché si vergogna della sua umile origine, ma egli si proclama pai'da th'" Tuvch" figlio della Fortuna (v.1080), con un'espressione divenuta tovpo" letterario e utilizzata dal classicista Petronio nella chiacchierata dei liberti: "plane Fortunae filius" (Satyricon 43).

 

Il terzo stasimo (vv.1086-1109) è un inno al Citerone che ha nutrito Edipo; contiene note di esultanza che devono stridere acutamente con l'esplosione di dolore dei versi successivi. E' questo un elemento tipico della tecnica sofoclea: il canto trionfale poco prima della catastrofe si trova anche nell'Antigone, nell'Aiace  e nelle Trachinie. Mette in rilievo la fragilità delle ipotesi fatte dalle menti umane.

 

Quarto episodio (vv.1120-1185).

Arriva il servo che vide la strage, e  per giunta viene riconosciuto dal messo corinzio quale il pastore che gli affidò il bambino ricevuto da Laio e Giocasta. All’epoca entrambi era  pastori che portava il bestiame a pascolare sul Citerone

Il vecchio tebano, pur riluttante, non può negare la certezza del riconoscimento. Così non c'è più posto per l'ambiguità: l'infante dai piedi gonfi, gettato via dai genitori e sopravvissuto per la compassione di due pecorai, è diventato Edipo, ha ucciso suo padre e  sposato sua madre. Gli oracoli non hanno mai torto. Come volevasi dimostrare.

 

Nel quarto stasimo (vv.1186-1122) il coro compiange la peripezia del re considerandone la  vita, emblematica di quella umana, identica al nulla quando le vicende  che appaiono come successi alla vista miope dei mortali, sono invece orrori e miserie  svelate dal "tempo che tutto vede""( oj pavnq j oJrw'n crovno" (v.1213) e fa giustizia.

 

Nell'esodo (vv.1221-1530) un secondo messo racconta il suicidio di Giocasta e l'acciecamento di Edipo eJauto;n  timwrouvmeno".

Quindi appare il re sconciato che attribuisce ad Apollo la causa delle sue sofferenze, ma rivendica a sé il coraggio  di essersele inflitte con le proprie mani. Nessun altro mortale avrebbe avuto la forza di sopportare mali tanto grandi. Poi chiede a Creonte che lo faccia tornare sul suo Citerone e che si prenda cura delle figlie, Antigone e Ismene, per le quali soltanto si accora, trascurando i maschi,  Eteocle e Polinice. Con tali parole manifesta ancora un legame di simpatia esclusiva con il mondo femminile, di avversione o indifferenza  con quello maschile. Creonte gli fa toccare per l'ultima volta le bambine, poi gliele toglie e lo congeda.

 

Il coro chiude la tragedia con i tetrametri trocaici dai quali Perrotta inferisce la datazione bassa, ma che il Pearson considera spuri. Se anche sono aggiunti, i versi contengono un monito plausibile e coerente con questa favola triste; un avvertimento simile a quello che Solone dà a Creso nel primo libro delle Storie  di Erodoto: nessuno ritenga felice un mortale prima che abbia passato il termine della vita senza avere sofferto qualche dolore.

Bologna 21 febbraio 2025 ore 17, 35

giovanni ghiselli

 

p. s.

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Tramonta ora il sole osservato  dal mio studio. Amorevolmente, religiosamente.

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