mercoledì 26 febbraio 2025

L’apprendistato XIV parte L’alloggio nel collegio. L’incontro con i tre ottimi contubernali: ragazzi ottimi.

Quando ebbi ricevuto il posto del necessario ricovero per il mese seguente, cercai ansiosamente di inserirmi tra gli altri giovani del corso estivo. A cominciare dagli italiani maschi con i quali per lo meno riuscivo a parlare senza incepparmi. Del resto non feci nulla per nascondere la mia debolezza, non ne ero capace, né lo volevo, e mi manifestai non celando le paure che mi assillavano da quando, finito il liceo tre anni prima, avevo smarrito la mia identità di ragazzo molto bravo a scuola, ottimo pure nelle corse a piedi e in bicicletta, e non ne avevo trovata un’altra mia

 

Non era possibile, poiché un’ identità altra è quella di un altro o degli altri, non la propria. Avevo tentato di assumere  identità gregarie che mi mettevano a disagio e mi davano dolore più di una maschera o una scarpa stretta. Dovevo ritrovare quella più adatta alla mia natura, a me congeniale:  essere bravo in quanto facevo, ossia fare quello per cui ero dotato, lo studio e lo sport, ma renderla più bella, più nobile, e, soprattutto, proficua non solo per me.

Volevo imparare a piacere alle donne. Per  fare questo sarebbe stato necessario incontrare persone, soprattutto femmine umane che apprezzassero le qualità mie e mi motivassero a potenziarle. E’ bene, è necessario sviluppare e attuare il proprio genio per vivere bene. Chi  tradisce sé stesso va inevitabilmente in rovina. Quelle che mi hanno capito e amato di più, le più intelligenti e buone, mi hanno detto “tu  gianni sei  molto intelligente e sensibile”, provocandomi a dimostrarlo con tutti i mezzi, con tutte le forze a disposizione.

 

Entrato nella camera 4 del III piano del collegio numero due, scoprìi subito le mie carte bassissime che non volevo né potevo coprire con la mia mano tremante; del resto non sarebbe stato facile tenerle nascoste dietro l’aspetto devastato dall’infelicità  e con il mio comportamento drammaticamente insicuro. La depressione traspariva da tutti i miei atti “d’allegrezza spenti”[1].

Ma Dio che mi aveva guidato fin lì, mi aiutò: i miei contubernales [2] erano persone buone: mi diedero la mano di cui avevo bisogno per cominciare la risalita dall’abisso scosceso e dirupato della sventura. Tra questi c’era Fulvio di Parma che sarebbe diventato il mio amico migliore, poi Danilo, un ragazzo veneto, studioso eppure ebbro di incontenibile gioia, almeno così mi sembrò, e Luigino un dolce ragazzo di Roma, molto sensibile, intelligente, colto e capace di comprendere le difficoltà del prossimo suo, come le proprie. Fulvio mi piacque subito molto. Mi sembrò che osservasse le cose e le persone per meditarci sopra, invece di spiarle per impossessarsene, usarle o sottometterle, come fa la gente volgare.

Aveva due anni e mezzo più di noi altri e un’aria assai più matura. Lo scelsi come l’educatore, il padre, il  maestro e l’ amico di  cui avevo un grande, insoddisfatto bisogno.  Le sue parole non erano mai prive di idèe e sentimenti: Fulvio non era vago di ciance e ostile al pensiero, come tanti omuncoli e diverse donnicciole incontrati sia a Pesaro sia a Bologna. Anche Luigino e Danilo mi piacquero.  Erano tutti e tre degli studiosi capaci di apprezzare letture e cultura. Da loro capìi di averle colpevolmente sottovalutate per paura della mia diversità dalla gente usuale “ una gente-zotica, vil; cui nomi strani, e spesso-argomento di riso e di trastullo,- son dottrina e saper”[3]. 

Quei ragazzi, se citavo un verso di Virgilio o di Euripide o di Leopardi, non mi deridevano, anzi mi approvavano e incoraggiavano a continuare. Capìi che questa mia sensibilità alle parole e la mia memoria ottima, rara, erano qualità, non difetti come sostenevano i più nel borgo selvaggio da dove ero partito così desolato.

Fui subito bendisposto verso queste persone tanto differenti da quelle che avevo preso la cattiva abitudine di frequentare: queste non mi avrebbero umiliato né deriso, né ferito: infatti non erano di tutt’altro stampo rispetto al mio. Fulvio era di destra, gli altri due di sinistra e avremmo fatto anche discussioni accese, ma eravamo tutti e quattro tendenzialmente, anzi sostanzialmente diversi dal borghese che trae identità dai miseri quattrini. A loro tre, come  a me, interessavano l’amore, la bellezza, le idèe,  più delle cose materiali: vestiti, automobili, mobili, magliette o altre minuzie trascurabili[4]. Avevamo bisogni spirituali innanzitutto, e nessuno di noi è diventato un filisteo un  a[mouso" ajnhvr",  un uomo estraneo alle muse”[5], uno di quegli individui “continuamente affaccendati nel modo più serio attorno a una realtà che non è tale (…) Di conseguenza le ostriche e lo champagne sono il punto culminante della sua esistenza”[6]. O  le partite di calcio.

Spero che questi amici,  e alcuni altri incontrati più avanti,  non me ne vorranno se ricordando  i nostri  vizi e le nostre virtù non ho cambiato i loro nomi a me cari come le loro persone. Un abbraccio forte a tutti e tre.

Fulvio intanto è diventato un amico celeste. Danilo è ancora vivo e ci sentiamo. Luigino invece si è sparito dietro il volo delle sue chimere.

 Cari amici di quella che sarebbe stata l’età più bella, vi chiedo scusa se più avanti, dopo queste parole di affetto, non vi risparmierò canzonature e motteggi. Del resto non li ho mai risparmiati nemmeno a me stesso. 

Bologna 26 febbraio 2025 ore 11, 53giovanni ghiselli

p. s

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[1] Cfr. F. Petrarca, XXXV, sonetto XXVIII.

[2] Compagni di camerata . Cfr. Seneca Ep. 47, quella su gli schiavi.

[3] G. Leopardi, Le ricordanze, 30-33

[4] Plutarco, nella Vita di Solone, racconta che il saggio legislatore ateniese disprezzava la ajpeirokaliva, l'ignoranza del bello e la mikroprevpeia (27, 20), la meschinità di Creso che si era presentato coperto di gioielli e d'oro. Luciano in Come si deve scrivere la storia (scritto tra il 163 e il 165) fa questa osservazione: “Vi sono alcuni che trascurano completamente, o appena sfiorano, fatti grandi (ta; megavla) e invece, per rozzezza (uJpo; de; ijdiwteiva"), mancanza di gusto (ajpeirokaliva"), e ignoranza (kai; ajgnoiva") di quello che va detto o quello che va taciuto, si attardano a descrivere nei minimi dettagli le cose più trascurabili (ta; mikrovtata, 27)”. L’ajpeirokaliva è lo stesso difetto che il filosofo Nigrino di Luciano attribuisce ai ricchi Romani, i quali si rendono ridicoli sfoggiando ricchezze e rivelando il loro cattivo gusto: pw'" ga;r ouj geloi'oi me;n oiJ ploutou'nte" aujtoi; ta;" porfurivda" profaivnonte" kai; tou;" daktuvlou" proteivnonte" kai; pollh;n kathgorou'nte" ajpeirokalivan; “Come fanno a non essere ridicoli i ricchi con le loro stesse persone dal momento che mentre mettono in mostra le vesti di porpora e protendono le dita delle mani, denunciano il loro cattivo gusto?” (Nigrino, 21).

[5] A. Schopenhauer Parerga e Paralipomena , Tomo I, p. 462.

 

[6] Schopehauer Op. cit., p. 463

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