L’apprendistato XXIV parte. La mensa di Debrecen.
Il pasto doloroso e vergognoso. Il grugno ingordo dell’uomo e il ceffo dentato del cane a caccia di cibo.
Sollevai il corpo gonfio e mi mossi verso la mensa situata di fianco al collegio numero uno, l’alloggio dei Russi e dei Finlandesi, più femmine che maschi a dire il vero, dato che eravamo tutti letterati, ossia studenti di materie amate e studiate dalle donne più che dagli uomini, come si diceva allora, e forse ancora si dice. Io credo sia vero.
Le lettere sono preferite ai numeri dalle donne e dai donnaioli che sono tali in quanto attirati da creature simili a loro, siccome dotati di una sensibilità più fine e delicata più interessata alle parole espressive e amorose che ai numeri, e pure più forte rispetto a quella del maschio tipico il quale passa le serate a guardare le partite di calcio con i suoi eroi che sgambettano, oppure ammazza il tempo giocando a carte con altri uomini. Se no, vanno a bere e urlare nelle osterie. Dopo anni passati quali impiegati intontiti e svogliati funzionari della specie.
Costoro sono spesso degli omosessuali per lo meno latenti. Non pochi tra i pensionati scimuniti che riempiono le serate con il football e la briscola o il biliardo si sono ammogliati, a parer mio, per dissimulare la loro vera natura.
Perdonate questo mio strano pensiero. Ho voluto rispondere a chi dice di me che sono una donna poiché non mi interessa il calcio, come non piace alle femmine appunto, non ho mai fatto a cazzotti, detesto la guerra, aborro la prepotenza, non voglio comandare né essere comandato, e ho giocato a carte solo un paio di volte in vita mia, da giocatore trasognato1 sbagliando tutto e perdendo denaro, quindi ho capito che non faceva per me .
Pensavo troppo alla donna “mistero senza fine bello!”2, enigma simile a quello della vita, particolarmente questa vissuta da me, vissuta come pare va a me dopo la crisi superata.
Ma torniamo al giorno di quel luglio lontano. Entrai nella mensa.
I tavoli erano già tutti pieni. Mi aggirai tra i banchettanti lieti, ansiosamente, già quasi certo dell’esclusione, meritata del resto dal ritardo accumulato per l’empio aperitivo, nel tempo che ora chiamano happy hour ed è invero qualche cosa di turpe se tale antefatto è un misfatto seguìto da un pranzo o da una cena pomposa, magari non senza una copiosa merenda nel mezzo. L’obesità non viene per caso, né senza colpa. Una colpa dannosa e volgare
La snellezza è una forma di pulizia oltre che di bellezza.
I porci ingrassano, i levrieri no.
Dopo qualche minuto di ispezione angosciosa, mentre già deprecavo l’imminente fato, mi accorsi con dolore che i miei tre contubernali non mi avevano tenuto un posto al tavolo dove erano seduti allegri e incuranti della parola data. Il loro quarto commensale era uno sconosciuto più attempato di noi.
Forse un professore di Debrecen. “Maledetti!”, pensai, provando delusione e paura dell’isolamento per tutto il mese seguente.
Citai un paio di versi delle Troiane portate alla maturità tre anni prima: “le mie sciagure non hanno misura né numero e i mali gareggiano con i mali”. Volevo annientarmi.
Quindi ricordai Pavese: “più il dolore è determinato e preciso, più cade l’dea del suicidio”.
Fui tentato di ripartire tosto per Pesaro.
Se non avessi avuto il vizio del cibo eccessivo, avrei colto questo segnale per saltare il pranzo e non peggiorare il mio aspetto e il mio umore; invece, ricevuta questa piccola frustrazione che la mia anima vuota e malata ingrandì a tragedia o quanto meno a infausto annunzio di futuri danni, la fame nervosa aumentò. Mangiare in quella maniera disumana era un tentativo, il peggiore possibile, di riempire il vuoto di affetti e di interessi nel quale precipitavo sempre più in basso da anni, come i mostri del Caos primogenio.
Mi mancava il rispetto che ogni figlio della luce deve a se stesso. Insisto su questo poiché, passati tanti decenni, da quella lugubre mattina, ho visto l’obesità diffondersi tra uomini, donne e bambini che mangiano ossessivamente a senza praticare alcuna ascesi somatica, né, tanto meno, spirituale. Condannerei a multe pesanti i genitori grassi che spingono i figli già infarciti a mangiare ancora. Se la multa non bastasse, toglierei la dignità genitoriale a tali corruttori.
Certe madri mi fanno pensare a Circe che dà agli uomini forma di porci- hJ suw`n morfwvtria-Kivrke[1] . L’obesità è contrassegno di infelicità, di caos, di vuoto dell’anima.
Ma torniamo al tragico pranzo autodistruttivodel 16 luglio del 1966.
Il mio vuoto spirituale agognava l’ingozzamento, sicché continuai ad aggirarmi tra i tavoli con l’anima in pena e l’aria implorante, sperando di sentirmi chiamare o almeno di trovare una seggiola vuota. Fulvio, da gentiluomo qual è, si accorse della mia difficoltà, mi raggiunse e si scusò dicendo che non era stato possibile tenere occupata la quarta seggiola, siccome una cameriera imperiosa aveva imposto a un romano appena arrivato, Ulderico, di sedersi al loro tavolo. Comunque dopo mangiato ci saremmo trovati tutti in piscina. Non dovevo mancare. Gentile, gentiluomo di Parma. Nell’età tragica della mia vita, Fulvio mi ha aiutato come nessun altro. Basta poco per dare una mano a un infelice, eppure quel poco i più non me lo hanno dato. Se ci sono state delle mani, hanno cercato di spingermi sempre più in basso. Dal dolore comunque ho imparato assai. Devo parte della mia intelligenza a tanta sofferenza. Anche le pagine belle che scrivo le devo al dolore non meno che alla gioia.
.
Fulvio non c’è più come altre persone care e benefiche e ne sento la mancanza-povqo~- ma conserverò gratitudine fino all’ultimo giorno di questa mia vita altrettanto mortale e finché sarò vivo, pregherò Dio, chiunque egli sia, difficile da conoscere, se sia necessità del cosmo oppure intelligenza dell’uomo, dicendo: “proteggi i miei cari che mi hanno salvato e protetto”.
Più avanti Fulvio mi aiutò ancora quando disse che non capiva perché mi lamentassi tanto, dato che non mancavo di niente: se avessi avuto un male incurabile, o fossi stato deforme, mi avrebbe compatito, ma poiché apparivo normale, almeno finché non mi lagnavo, perciò se avessi continuato a lagnarmi, mi avrebbe preso prima a bastonate, poi a calci per darmi una lezione. Sacrosanta, meritata minaccia. Funzionò da elettroshock, la cura appropriata.
Immeritato invece era il mio pranzo che avrei dovuto saltare. Ecco perché non avevo trovato il posto che speravo.
Mi era stato mandato un segno da Dio: diceva che non dovevo mangiare, che ingozzarmi era il maximum scelus per me, ma io non colsi l’avvertimento, siccome avevo ancora Satana con tutto l’inferno dentro la mia disgraziata persona.
Ringraziai Fulvio, gli dissi che sarei andato in piscina verso le due e mi allontanai un po’ rinfrancato.
Quindi trovai una seggiola libera a un tavolo di gente straniera dall’incomprensibile idioma. Uzbeki forse. o Circassi, o Ciuvassi o Kirghisi. Sedetti e, senza nemmeno abbozzare un saluto, chinai il grugno inverecondo sul piatto, mi ingozzai in gran fretta di enormi patate unte, di carne con sugo grasso dove inzuppai pure non piccoli tozzi di pane lasciati lì da qualcuno, e non ancora non afferrati da un cane che si aggirava con ceffo famelico. Gli avrei strappato quei bocconi residui dai forti, aguzzi canini se avesse provato a saltare per involarli ai miei denti cariati ma ancora più frenetici e ingordi dei suoi. Con i Circassi e i Kirghisi vari non ci fu bellezza di parole- morfh; ejpevwn, né altra bellezza. Ci fu solo l’orrore di quel pranzo contro natura.
Bologna 27 febbraio 2025 ore 19, 25
giovanni ghiselli
p. s.
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