Passiamo ad occuparci di alcuni aspetti della nostra tragedia. Aristotele (Poetica 1452a) la considera esemplare in quanto presenta una favola complessa con peripezia e riconoscimento che si producono insieme, in modo verosimile e necessario.
Il dramma viene chiamato solo Edipo (ejn tw/' Oijdivpodi...hJ ejn tw/' Oijdivpodi, 1452a). Probabilmente il tuvranno" fu aggiunto più tardi per distinguere questo dall'Edipo a Colono; del resto l'epiteto è ripetuto con discreta frequenza dai versi di Sofocle e non senza sottolineature caratterizzanti, come indicheremo nel commento.
Il titolo insomma è la sintesi estrema del testo.
Per la datazione, secondo le nostre osservazioni in nota, i versi contengono echi della spedizione in Sicilia, quindi fissiamo un terminus non post quem nel 414. Qui nell'introduzione voglio autorizzare questa data bassa con gli studi di G. Perrotta e C. Diano. Il primo (Sofocle , p.261) pone quale termine "ante quem sicuro...la rappresentazione delle Fenicie euripidee (410-409) per le reminiscenze e i riscontri anche verbali tra le due tragedie". Un altro indizio che la composizione dell'Edipo re vada attribuita alla vecchiaia avanzata del poeta, è l'uso dei tetrametri trocaici nell'ultima scena (vv.1515-1530). Tale metro, del resto arcaico, compare, oltre che in questi 16 versi, negli ultimi drammi: nel Filottete (vv.1402-1408) e nell'Edipo a Colono (vv.887-890)"
La conclusione del Perrotta è che"restano confermati per l'Edipo il 414 e il 411 come limiti cronologici insuperabili"(p.267).
A mio parere più che questi aspetti tecnici, concreti ma discutibili, è il senso generale di decadenza e disfatta umana che fa preferire il tempo della catastrofe ateniese, contro la maggior parte dei critici che colloca l'Edipo re prima del 425, sulla base di una presunta parodia contenuta negli Acarnesi (v.27) di Aristofane.
Su questo torneremo più avanti.
Ora riferisco la seconda opinione che utilizzo come supporto alla mia: quella di C. Diano, il quale stabilisce la data del 411.
Egli (Edipo figlio della Tyche, in "Dioniso" XV,1952, p.82) trova nei vv.890-891("se non si escluderà dai fatti empi/ o stringerà come un matto le cose intoccabili") "un'aperta allusione alla mutilazione delle erme e alla profanazione dei misteri". Inoltre, nei vv.56-57("infatti nulla vale, né una torre né una nave/vuota di uomini che non abitano dentro") ci sono parole che echeggiano quelle di Nicia stratego in Sicilia cui Tucidide (VII,77) fa dire:"a[ndre" ga;r povli", kai; ouj teivch oujde; nh'e" ajndrw'n kenaiv, infatti la città è costituita dagli uomini, non da mura e navi vuote di uomini.
Poi c'è il canto contro il dispotismo, con la preghiera:"la gara benefica per la città,/ chiedo a dio di non/ interromperla mai".(vv.879-881). Ebbene Sofocle, pur essendo uno dei dieci Probuli eletti nel 413 per modificare la costituzione in senso oligarchico, nel 411 rivolse questo appello in favore della democrazia troppo duramente minacciata dai maneggi dei nemici del popolo. Diano conclude (pp.83-84) affermando che quella preghiera non avrebbe senso se non si riportasse a un pericolo reale: il terrore scatenato dalle eterie oligarchiche nell'anno della tirannide dei Quattrocento. Se Sofocle"soggiacque al ricatto, non fece lega coi vili...Il secondo stasimo fu scritto tra il gennaio e il febbraio del 411".
Il genere letterario cui appartiene l' Edipo re è quello drammatico, fiorito durante il regime democratico che gli consentiva la necessaria parrhsiva, libertà di parola.
Gli autori avevano una prospettiva sicura: quella di un popolo che li ascoltava e osservava con attenzione per approvarli o rifiutarli. Sappiamo che il Nostro fu il più premiato, dunque il più amato dei tre tragediografi: probabilmente interpretava meglio degli altri i sentimenti e i gusti degli Ateniesi.
A Eschilo nocque la magniloquenza, soprattutto delle estese parti corali, a Euripide l'eccessiva modernità: le sue innovazioni e le critiche alla tradizione forse sapevano di sacrilegio all'uomo comune. Euripide anticipava i tempi: avrà maggior successo da morto che da vivo. Gli autori della commedia nuova –Filemone in primis- lo considereranno il loro maestro.
La cornice narrativa è Tebe, fondata dal fenicio Cadmo e abitata dai suoi discendenti. Edipo apre il dramma chiamando i sudditi:"O figli, nuova stirpe dell'antico Cadmo". La povli" è flagellata da peste e sterilità siccome c'è un misteriosa lordura che la inquina; il re dà subito inizio a una ricerca che lo porterà a scoprire di essere egli stesso la fonte della contaminazione, il mivasma che ha scatenato la malattia e paralizzato la vita. Durante questa indagine, egli cerca la testimonianza e la collaborazione del popolo, mentre il cognato Creonte e il sacerdote Tiresia entrano nei suoi sospetti e passano dal posto di collaboratori a quello di presunti rivali e congiurati per carpirgli il potere. Intanto il coro, che esprime dolore e inquietudine nell'attesa trepida di sempre nuove sciagure, mantiene a lungo un atteggiamento protettivo nei confronti di Edipo, sebbene nel frattempo crescano i dubbi sull’ identità del re. La moglie-madre Giocasta ancor più tenta di proteggerlo e usa ogni mezzo a disposizione per tenerlo lontano dalla verità intuita da lei per tempo. D'altra parte anche il vate che sa come stanno le cose, quando viene chiamato in scena appare presto reticente mentre cerca di dissuadere il capo della città dal procedere nella investigazione.
Ma nessuno può distogliere Edipo dal proposito ferreo di conoscenza di se stesso e del mondo esterno che costituisce il contorno della sua persona e del suo destino. Non lo ferma nemmeno un messo giunto da Corinto ad annunciare la morte del re Polibo. La notizia dovrebbe essere risolutiva e togliere l'angoscia al protagonista che si crede figlio di Polibo e teme di essere predestinato a uccidere il padre suo, secondo quanto gli ha predetto l'oracolo delfico. Egli però non si accontenta dell'annuncio e procede implacabilmente, fino a interrogare il servo che non solo aveva assistito alla strage di Laio e del suo seguito, restandone l'unico sopravvissuto, ma, tanti anni prima, aveva pure ricevuto l'ordine spietato di esporre sul Citerone il figlio del re e di Giocasta, un infante dai piedi forati.
Insomma aveva disobbedito all’ordine Laio di uccidere il figlio poi aveva assistito all’assassinio di Laio da parte del giovane viandante poi diventato re di Tebe e marito della regina vedova del precedente re ucciso.
Il pastore cui Laio aveva dato l’incarico di esporre l’infante sul Cicerone dunque non aveva eseguito tale compito per compassione, e aveva consegnato la creatura proprio al sopraggiunto messo corinzio che all'epoca faceva pure lui il pastore lassù. Il corinzio lo aveva portato a Polibo e Merope che regnavano sulla città dai due mari e avevano adottato il bambino.
Da un confronto fra i due ex pastori, nonostante la riluttanza del tebano, Edipo scopre la verità: quel bambino era lui stesso che ha ammazzato il re suo padre e ha sposato la regina sua madre.
Egli è come una farfalla che gira intorno alla fiamma finché questa la brucia e dà luce. Giocasta si impicca; Edipo si accieca e chiede di tornare sul suo Citerone ( oujmo;~ Kiqairwvn-v.1452) che il padre e la madre gli avevano imposto quale tomba stabilita kuvrion tavfon, 1453).
La montagna di Tebe è una specie di personaggio muto che assume vari ruoli a seconda dello stato d'animo di chi la nomina: da località madre nutrice di vita (kai; trofo;n kai; matevr j v.1092) e luogo di danze dionisiache (v.1093), portatore di gioia (v.1094), a sepolcro prestabilito (v.1453) per il bambino reietto e per il vecchio mendicante.
Edipo tuttavia scomparirà a Colono, nel boschetto delle Eumenidi
“L’uscita di Edipo dalla città degli uomini per penetrare in un mondo misterioso, posto tra segni naturali (una grotta, una pietra, un pero selvatico), sembra così chiudere un cerchio: quello del destino di Edipo, che termina i suoi giorni in un bosco sacro, come in un altro bosco, sul Citerone, li aveva iniziati molti anni prima, quando vi era stato esposto dopo la nascita. Così la storia si chiude. La storia di Edipo, ma-l’autore ne era consapevole-anche quella di Sofocle come essere umano e come tragediografo. Edipo esce di scena e diventa un eroe: singolare destino che lo accomuna al poeta, Sofocle, anch’egli divinizzato dopo la morte con un culto eroico”[1].
Bologna 21 febbraio 2025 ore 11, 43 giovanni ghiselli
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