Avevo bisogno di tempo per rifarmi, dicevo. Infatti il 16 luglio del 1966 nessuna delle aulenti creature fiorite sul prato, nemmeno una, mi degnò di uno sguardo. Eppure sentivo il richiamo di quei capelli, dei seni, delle cosce. Un giorno sarei io a scegliere tra le pie donne che si offriranno a gara, mi augurai.
Non erano poi tutte così soavi, fresche e aulentissime né forosette belle le ragazze sul prato come mi era parso a un primo sguardo dalla miopia non del tutto corretta. Una zitella già un poco attempata inarcò le sopracciglia come due corna, estrasse dal rostro feroce una fila di denti aguzzi, mi indicò a un’altra con sdegno da attrice tragica e le versò nelle orecchie mordaci parole inaudite. Sicché non osai avvicinarmi. Temevo che quella Erinni, o Arpia o Megera che fosse, avrebbe risposto a qualsiasi approccio mio digrignando quei denti voraci, senza contare che avrebbe potuto azzannarmi, quindi colpirmi con pugni e piedi pesanti come massi scagliati da catapulte possenti. "Ci sono donne e antidonne" pensai.
Mi mossi dunque senza indugio in direzione della linea tranviaria nella ricerca e nell’attesa di qualche occasione. Mi appressai all’ingresso dell’Università Kossuth Lajos: una villa grande e bella di fine Ottocento, di stile che forse si può chiamare neoclassico asburgico o Kaiser Königlich, imperial regio, tipico della Kakania di Musil.
Davanti alla facciata c’è una fontana rettangolare che lancia al cielo zampilli vivaci. Questi di giorno riflettono rapidamente i raggi del sole immillandone i sorrisi, e di notte, accese le luci, fanno piovere gocce multicolori, consolatòrie sul manto della grande madre terra, mesta dal tramonto all’alba, per la sua condizione di vedova che la graziosa luna e tutte le vaghe stelle non bastano a consolare dell’assenza notturna del radioso marito, che porta chiara significazione di Dio.
Dopo avere osservato questi esterni, entrai nell’edificio che sarebbe diventato il tempio dove vidi l’inizio delle mie gioie. E pure la fine a dirla tutta siccome gli amori di Debrecen duravano un mese.
Come fui entrato, mi diedi a osservare cercando di cogliere segni non privi di significato per il seguito della mia vita.
Nel mezzo della grande villa, sotto l’ingresso, c’è un vasto cortile, così lo chiamano loro, in lingua ungherese díszudvar, precisamente “cortile d’onore”, una sala enorme che va dal pavimento all’altissimo soffitto dell’edificio occupandone la parte centrale. Le ali sono costituite da servizi vari situati in questo piano interrato, poi da una quarantina di aule disposte sui quattro piani ai quali si sale per grandi scale di pietra. Le robuste ringhiere della monumentala scalèa che adduce al piano terreno, i parapetti e le balaustre dei piani superiori, alcuni balconi e le tante lapidi incise con nomi di eroi e di poeti magiari, a partire dall’ eroe Petőfi, che tappezzano i muri, tutto questo forma il confine del grande vuoto centrale dove vaneggia l’immenso salone nel cui fondo ogni anno, all’inizio e alla fine del corso, si celebravano le due feste serali più importanti e solenni: Ismerkedési est, sera della conoscenza e Búcsú est, sera dell’addio.
Non erano denominazioni solo formali: la prima sera iniziavano le conoscenze amorose di Debrecen, l’ultima sera finivano con tanti saluti.
In Italia ho allungato queste tappe erotiche ma non di tanto.
Il megaron quella mattina era stato in parte già preparato per la serata iniziale. Ci avevano collocato decine di tavoli ai quali avrebbero aggiunto due centinaia di sedie, e, sotto la grande scalèa due tavolate: una con cibi dolci e salati, l’altra con bevande non alcoliche, alcoliche e superalcoliche.
Ero ancora quasi astemio ma quell’estate mi forzai di bere del vino cercando con il suo aiuto il coraggio che mi mancava, per affrontare il prossimo, massime le ragazze. Si beveva un po’ tutti a dire il vero siccome non ero soltanto io in difficoltà negli approcci, come potei osservare. Il punto di vista sui giovani di mezzo mondo offertomi da questa università estiva mi aiutò a superare i pregiudizi negativi e maligni fino alla fobìa assorbiti dal conformismo provinciale, perbenistico della gente frequentata nei precedenti due decenni della mia vita. Mi avevano ghettizzato perché ero troppo diverso e strano rispetto alla norma dei furfanti bigotti.
Negli anni seguenti mi sentirò via via sempre più libero, quindi meno insicuro e meno infelice. Il movimento del’ 68 darà le ali alla mia rinascita, ma sono state queste antiche borse di studio i primi grandi doni del cielo dai quali ho iniziato a rivivere dopo tre anni funerei.
Bologna 26 febbraio 2026 ore 16, 41
giovanni ghiselli
p. s
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