Voglio ricordarti, lettore, quell’approdo a Debrecen dove giunsi da un pelago in tempesta per farti vedere quanto possano una forte volontà e un poco di buona fortuna nel cambiare in meglio la vita di un essere umano, di un ventenne già quasi caduto nel fondo della disperazione, della disistima e del disprezzo di sé.
Era una sera del luglio del ’66; avevo 21 anni e otto mesi quando, al tramonto del sole, arrivai nell’ignota cittadina dopo un viaggio inquieto con un veicolo vetusto e scassato, una Fiat 600 che, attraversando la puszta, aveva schiacciato migliaia di insetti brulicanti nell’aria della grande pianura. Il parabrezza si era arrossato di sangue.
Negli ultimi venti chilometri, precisamente da Hajdúszoboszló, avevo forzato la vecchia automobile per arrivare nella remota Università estiva prima che il sole, la lucerna del mondo, sparisse dall’orizzonte, lasciandomi nel buio dell’immensa distesa, coltivata ma priva di alberi, popolata ma da poche persone distribuite in case isolate, in piccoli e radi borghi pressoché primitivi, dove oltretutto parlavano una lingua veramente straniera, uno strano idioma agglutinante di cui, attraversando la terra magiara tutto quel giorno, mi ero accorto di non capire una sola parola. L’esame di lingua e letteratura ungherese dato a Bologna mi aveva fruttato un trenta e la borsa di studio, ma non era bastato a mettermi in grado di dialogare nella lingua di quel paese. Qualche giorno più tardi, con l’automobile in panne, fui aiutato da un prete venuto in mio soccorso linguistico chiedendomi “loqueris latina lingua?”
“Loquor” risposi, quindi potei avere indicazioni utili nel nostro italiano antico che fra poco in questa prava terra italica[1] purtroppo quasi nessuno conoscerà più.
Correndo dunque, e facendo una strage di moscerini che avevano insanguinato il parabrezza della Seicento, ero riuscito a precedere il buio inqietante di pochi minuti. Quando arrivai alla periferia della città, il sole si era già immerso nella selvatica landa alle mie spalle, mentre dall’altra parte, la zona boscosa della Transilvania e dei selvosi Carpazi, vedevo arrivare le tenebre di una notte spaventosa, popolata di spettri che mi mettevano in cuore strane emozioni: miste di presentimenti quasi tutti cattivi e di speranze vaghe. Ero molto giovane allora: quanto a esperienza di uomini, per non dire di donne, di rapporti umani comunque, ero quasi un bambino. Ero partito da Pesaro la mattina del 14 luglio, da solo. Avevo costeggiato il mare Adriatico sulla strada Romea e attraversato un pezzo di pianura padana; poi erano apparse delle montagne: brutte però, spelacchiate, quasi informi; insomma molto diverse dai monti noti e cari, le Dolomiti antropomorfe che si ergevano sulla valle di Fassa nel puro azzurro dell’etere. Dialogavo con loro nei mesi di agosto degli anni Cinquanta quando la zia Giulia mi portava lassù dove non avevo nessun altro amico con cui scambiare qualche parola. Parlavo con quei monti che per loro umanità, mi rispondevano.
Mentre avanzavo tra catene montuose che stringevano l’orizzonte da tutte le parti, il cielo residuo prima si incoronava, poi si ingombrava di nuvole sempre più grosse, acquose, plumbee sui monti lividi, finché arrivarono a togliermi la compagnia confortevole della luce del sole.
Quindi cominciò a piovere sulle piante rade e scure di quelle montagne brulle, simili a cani dal pelo tarlato. Non si vedeva un’Oreade che fosse una.
Mi sembrava piuttosto di udire bestie immonde, canidi che latravano in branco, affamati, o ululavano solitari fissando il cielo ottenebrato.
Non sembrava nemmeno più estate. Novembre sembrava. Ero tentato di tornare a Pesaro dove almeno la spiaggia coperta di ombrelloni variopinti, capanni colorati e l’acqua marina ricca di raggi e di flutti, di chiarori e di guizzi che moltiplicavano la luce del sole, mi assicurava che la stagione meno dolente non era finita. Ma a Debrecen avevo un appuntamento con il destino. Un destino buono col senno di oggi. Mi avrebbe fatto incontrare l’amico Fulvio e diversi amori tra i più belli della mia vita.
Allora però aleggiavano solo speranze incerte sopra di me e mi turbavano diverse paure nemmeno determinate.
Arrivai sul Tarvisio che Zeus pioveva, tuonava e fulminava.
Avevo dato gli esami di greco: tutta l’Odissea e sette tragedie di Euripide. Ne avevo la testa infarcita.
Attirato da quei segni divini, decisi di proseguire. Prima però scesi dall’automobile e andai a cambiare denaro per mangiare e dormire in Austria: a Graz, se ci fossi arrivato a un’ora possibile, poiché c’erano altri duecento chilometri ignoti da percorrere, probabilmente sotto la pioggia. Avevo un forte male di gola e molti timori imprecisati. Volevo capirli, definirli, domarli.
Per questo dovevo procedere. Fata viam invenient[2], pensai. Avevo dato anche latino con tutta l’Eneide. La via era quella che portava alla mia identità, al diventare quello che sono, non dico chissà chi, ma almeno me stesso. Allora ero fuori di me.
Quando fui rientrato nell’automobile, vidi un lampo che illuminava l’Oriente, la parte di Graz e “di quella terra che il Danubio riga-poi che le ripe tedesche abbandona”[3].
Quindi sentìi tre volte il suono di un tuono strano: aveva qualche cosa di musicale. Aderitque vocatus deus[4], completai l’emistichio latino precedente. Traevo auspici. Sperare che la mia vita sarebbe cambiata in meglio non era difficile: in peggio non poteva. Guardai le creste dei monti che apparvero cosmetizzati, lisciati e imbelliti dalla pioggia intermittente, seguita da qualche sprazzo di sole , e mi parve di vedere, mentre saltava di vetta in vetta, una donna o una dea luminosa, vestita di bianco. Presagio di un incontro felice?
Un vento libertino le sollevava le gonne fino alla metà delle cosce tornite.
Poteva preannunciare la creatura bella e fine che un giorno avrei incontrato e mi avrebbe amato se non mi fossi perduto d’animo e avessi ricominciato a progredire, cercandola. Avrei voluto unirmi a lei in un tripudio frenetico e pure benedetto da Dio. Sentivo che prefigurava qualche cosa della mia esistenza.
Allora era una figura eterea, una promessa quasi ultraterrena, ora che ho raggiunto gli ottanta, iam senior, sed cruda viridisque senectus "[5], posso chiamarla per nome, anzi grazie al cielo generoso con molti nomi, pollw`n ojnomavtwn morfh; miva[6], e ringraziare Zeus, o Apollo, o Priapo, o pure Gesù il Cristo e sua madre, la ragazza Maria, di avere mantenuto quella grande promessa lontana: di avermi fatto incontrare quella creatura celeste, incarnata in Helena , in Kaisa , in Päivi, le finlandesi di Debrecen, e nelle italiane incontrate qua e là, in Ifigenia, in Olga, in Magda, in Daniela e in diverse altre. Tutte dileguate, ma non senza avere prima svolto la loro funzione storica e benefica .
Un poco confortato dunque, scesi dal passo Tarvisio tra i villaggi lindi dell’Austria: Villach e altri, in direzione di Klagenfurt. C’era qualche cosa di simpatico, pulito, ordinato in quei paesini, mentre le nuvole sembravano diradarsi.
Invece, quando ebbi traversato Klagenfurt e ripresi a salire tra i monti, il cielo si annerò tutto di nuovo, poi ricominciò a piovere, infine la luce scomparve in un vapore esalato dagli stessi monti bagnati. Un dio mi inceppava il cammino. Avevo paura di non arrivare alla meta. Tra quelle montagne ignote non si vedeva più niente, tranne una decina di metri davanti all’automobile che procedeva con i fari abbaglianti accesi. Ma sì, potevo anche morire. “Tanto della mia vita-pensavo- non importa niente a nessuno”.
Tranne a mia madre, la nonna e tre zie, donne prepotenti e infelici che mi amavano non senza oppressione.
Cercavo di reagire a tanta desolazione. Sentivo che era eccessiva e pure un poco affettata. Quindi cambiavo registro.
“Sollevati dal suolo, infelice-mi dicevo- alza da terra la testa china e drizza la schiena curva: stai cambiando aria e devi smettere di essere l’arcidisgraziato ragazzo che sei diventato dopo il liceo cedendo frequentando gente cattiva a Pesaro e a Bologna. Dai Gianni coraggio, devi farcela. Devi arrivare a Debrecen presto e incontrare persone buone. Questo viaggio è il simbolo della tua stessa esistennza: sei solo, sei coperto di nebbia, sei infelice e gravido di lacrime, ma ce la farai, poiché non sei stupido, né falso, né ostile alla vita. Ricordati come eri bravo e primeggiavi al liceo Mamiani di Pesaro. Allora non hai trovato amicizia né amore perché impiegavi tutte le tue forze per essere il primo nell’agonismo scolastico e ciclistico. In salita a dieci anni battevi i ventenni. In seconda liceo hai vinto un viaggio premio assegnato ai trenta studenti migliori d’Italia. O grandi vanti umiliati! Presto però ti rifarai! Nessuno deve ripetere per me il lamento di Ofelia per Amleto: “ O, what a noble mind is here o’erthrown !”[7] A Bologna finora hai dovuto cercare di adattarti a un mondo esterno sconosciuto e inimmaginabile finché vivevi in quel mortorio di Pesaro[8] e in un ambiente domestico pieno di pregiudizi, frustrazioni e risentimenti. La fortuna è mutevole: cambierà ancora! Soffrire in questi ultimi anni è stato destino, ma vedrai che splendore avrà la vittoria!”
Sceso dai monti, a un tratto, sulla sinistra, vidi una luce.
Per un momento credetti e sperai che fosse il sole sbucato di nuovo dalle nuvole occidentali. Invece era un lampione giallognolo, acceso contro il buio precoce. Saranno state sì e no le sette: in quel tempo l’ora legale non c’era. Certamente dal sole, che ho sempre adorato come l’immagine visibile della mente divina e del Bene, avrei tratto maggiore conforto. Quella luce artificiale non era un segno propizio. Nemmeno del tutto male ominoso però. Era una luce fioca e triste, ma pur sempre una luce.
“Avanti-mi dissi-avanti, ché ce la puoi fare. Non volgere il tuo corso contro il destino! Procedi con lui! Devi comprenderlo e assecondarlo! Nulla ti accadrà che non sia in armonia con l’ordine dell’universo!”.
Verso le otto arrivai a Graz sotto un’acquazzone violento e il cielo già buio del tutto.
Le lampade elettriche illuminavano l’asfalto bagnato della circonvallazione dove scura dai campi colava la terra disciolta e trascinata dalla forza dell’acqua.
“Tutta la vita così”, pensai mentre assumevo un’espressione tragica. La tragedia greca mi è sempre piaciuta assai. Mi ci immergevo, ne traevo modelli e contromodelli.
“Sarà dura arrivare alla fine. Allora dirò ‘non doveva finire così’ ”.
Giocavo anche un poco con la sfortuna e con il dolore.
Ero di nuovo stanco e scoraggiato. Volevo trovare una camera dove passare la notte già cominciata.
Immerso nel buio e nella solitudine profonda, guardavo le case lungo la strada, ma l’oscurità e la grande miopia mal corretta dagli occhiali appannati mi rendevano difficile la ricerca dell’ asilo notturno.
Finalmente potei scorgere un cartello con la scritta Zimmer frei attaccato alla porta di una casa a tre piani.
Mi fermai, scesi dalla Seicento, suonai. Una finestra si schiuse: ne sbucò una testa bianca che richiuse subito i vetri senza dire parola. Aspettai un poco con la voglia di cercare più avanti, ma l’anziana venne presto ad aprire . “Zimmer frei?” chiesi. Quella disse solo: “Passport” e tese la mano. Glielo diedi. La vecchia lo prese e guardò la fotografia confrontandola, sospettosa, con la mia faccia. Poi disse “Moment , bitte!”. Quindi si mosse verso una piccola porta situata a metà del corridoio quasi buio che dall’ingresso menava a una scala. Aprì quell’uscio, disse qualcosa a qualcuno, e tornò. Camminava piuttosto in fretta per la sua età. Subito dopo, dall’andito scuro arrivò un’altra donna anziana, somigliante alla prima, meno arcigna nel volto però. Al punto che mi sorrise. Me ne rincuorai. Parlarono un poco tra loro, mentre guardandomi di sbieco mi esaminavano. Infine si resero conto che non avevo intenzioni cattive. “ Forse hanno capito che non sono Raskol’nikov”[9], pensai.
La meno aspra mi diede due chiavi: una della porta esterna che mi fece aprire e chiudere diverse volte per la paura tipica dei vecchi di non avere la casa serrata bene, l’altra della mia stanza, che mi indicò con un dito, al piano di sopra.
La più diffidente e dura, non condividendo, forse, l’atto, ritenuto affrettato della sorella, si mise ad agitare entrambe le mani: con la sinistra, più arretrata, accennava a restituirmi il passaporto, ma con la destra, tesa quasi fino al mio volto, manifestava il desiderio di essere pagata in anticipo, e senza indugio, sfregando rapidamente, rapacemente, l’indice con il pollice e dicendo: “Schilling, schilling, sofort!”, più volte. Poi scrisse un numero. Un prezzo non esoso invero, e colazione compresa. Pagai, riebbi il passaporto, e salii nella camera. Era spaziosa, poco illuminata e fredda. Mentre sistemavo la roba, pensai cosa potessero significare quelle due donne che mi avevano dato ospitalità nella notte, ma con diffidenza. “Sono allegoriche queste due vecchie!”, pensai
Significavano qualcosa, la parte peggiore delle mie zie, le sorelle più attempate di mia madre, Rina e Giulia già sessantenni.
Io dovevo fruire della loro ospitalità a Pesaro d’estate, e a Bologna nella casa che mi avrebbero comprato dopo la laurea, e dovevo ripagarle, ossia ricompensarle facendo un poco di carriera nella scuola: se fossi diventato professore di greco e latino nel miglior liceo di Bologna, loro due, ex maestre elementari, all’estero, tra l’altro a Budapest, quando c’era il fascismo, poi caduto Mussolini, tornate in Italia, ne avrebbero avuto sufficiente soddisfazione. Se avessi insegnato all’Università, sarebbero state strafelici. Dovevo rispettarle ed essere grato per l’aiuto che già allora ricevevo, però non dovevo permettere alle due zie anziane, più o meno ancora fasciste e pretificate, di interferire nella scelta delle mie donne, del mio destino. Volevano che mi sposassi con “una brava collega”. Ossia una ragazza di famiglia borghese, vergine, che insegnasse, mi preparasse piatti sostanziosi, e tenesse ordinata la casa. Io invece non volevo una moglie tratta dalla sesquiplebe[10] che piaceva loro, una moglie domestica; io volevo un’amante bella, intelligente, sensibile, colta, sportiva. Un’artista, una della mia levatura potenziale. Diverse amanti anzi, se possibile, magari una alla volta, però una più speciale dell’altra. I luoghi comuni, la gente ordinaria, la turba dei chiacchieroni insignificanti mi davano solo fastidio. La vita dell’eterno marito di una serva non faceva per me. Le zie mi aiutavano e facevano bene ma io non dovevo asservirmi. La mamma le chiamava “sorelle Materassi” per la loro attenzione nei miei confronti.
“Pegaso, il potenziale Petaso che sono, se viene messo a girare la ruota del mulino, si ammala e muore”, pensavo.
Mi mancava la compagnia di gente del mio stampo.
Uscii per mangiare in fretta e tornare presto in camera. Volevo alzarmi la mattina di buonora. Fuori pioveva sempre e faceva freddo. Mentre mangiavo, pensai che dovevo orientarmi cercando di capire il destino: cogliere e interpretare i segni del cielo e di Dio che, con la sua mente ordinata e magnanima, nulla lascia procedere a caso. E avverte con premonizioni chi sa leggerle. Queste non sono sempre chiarissime, ci vuole un animo attento e allenato per comprenderle. Facevo caso fin da bambino ai segni premonitori.
Ricordai che Ammiano Marcellino commenta positivamente l’ attenzione del suo eroe, l’imperatore Giuliano Augusto per gli auspici che si traggono dagli uccelli: non che i volatili conoscano il futuro, sed volatus avium dirigit deus[11]
Alla follia metodica di Amleto non sfugge che c’è una provvidenza speciale anche nella morte di un passero[12].
Pensando ai segni ricevuti quel giorno, mi addormentai.
All’una, fui svegliato da un campanello. Prima credetti di sognare quel suono, poi mi svegliai. Qualcuno suonava davvero e con insistenza. Nessuno andava ad aprire. Vecchie sorde o paurose. Ancella infingarda, se c’era. Io? Non c’entravo, non mi sembrava il caso, poi avevo paura. Continuò per alcuni minuti.
Chi è alla porta, chi è alla porta, chi?[13]
Guardiani, ladri, assassini, scomposte menadi ubriache, spettri di orrori, o “in congreghe- diavoli goffi con bizzarre streghe”[14], o che altro?
Squillo maledetto? .
Ma no, forse era un altro segno benedetto, un segno sonoro di cambiamento in meglio. Rimasi sveglio una mezz’ora per interpretarlo.
Lo feci in questo modo: “Non addormentarti, non rimanere assopito e stordito nella casa di Pesaro. Non è l’ambiente dove puoi svilupparti. Svegliati, alzati, cerca nuove dimore, esperienze nuove, archi da tendere non ancora provati pure a costo di ferirti, di smarrirti nel mondo.
Devi imparare a stare ritto senza stampelle.
Se resti dove stai imputridendo, sei perduto per sempre. A Debrecen cerca di conoscere delle persone, donne soprattutto, le donne belle e fini che devi meritarti, prova a iniziare una vita degna di te!”
Arrivai alla frontiera ungherese che c’era il sole. Mi chiesero se avessi una fotografia per il visto. Non l’avevo. Me ne fecero quattro dopo avermi messo seduto davanti a un muro. Me ne lasciarono una. La conservo. Ci vedo la faccia ombrosa di un ragazzo occhialuto, grasso, foruncoloso. Brutto, anzi imbruttito assai.
Con l’anima piena di piaghe.
Con un aspetto tanto malconcio, da Giobbe, tutto ulcere, pustole e verruche, non sarebbe stato facile risalire la china. Dovevo modificarlo. Rimpastarmi, come diceva la madre mia che era molto più bella di me. Liberarsi da quel laido groviglio di tormenti. Dovevo dislegarmi[15] da quella nube di angoscia che mi toglieva la visione della luce.
Ci voleva l’ abbronzatura, l’ornamento del sole, e la cosmesi dello sport: corse, bicicletta, nuoto, e digiuni da asceta. Poi le lenti a contatto. Dovevo ritrovare il compiacimento e l’orgoglio di me stesso, quelli che avevo quando studiavo al Mariani e vincevo tutte le gare. Riprendere a primeggiare dovevo. Nello studio e nello sport. Dopo il liceo infatti mi ero degradato con il cibo, con la pigrizia e con le lamentele, querimonie plebee, anzi servili.
Poi lo schifo degli altri, genitivo soggettivo e oggettivo, e le solitudini da anacoreta sordido, non santo. Tanto meno satiro.
Ripartii consolandomi con il pensiero che in fondo avevo già dato parecchi esami e quasi tutti con ottimi voti. Questo non bastava: anche tanti imbecilli e ignoranti li prendevano da professori che a loro volta, nella maggior parte dei casi, erano impiegati della scuola piuttosto che educatori e stimolatori di energie.
Per farmi coraggio, pensai che il mio sovrappeso era di una decina di chili, non di trenta: non ero ridicolo, non indicavano a dito la mia pancia. Quand’ero vestito quasi non si vedeva. Bastava non spogliarsi. Dunque potevo rifarmi. Il fondo oramai, il mio punto più basso l’avevo toccato. Se non risalivo, potevo morire laggiù.
Arrivai a Budapest verso le due del pomeriggio. Mi fermai un’ora per mangiare. Non avrei dovuto. Più avanti sarei riuscito a saltare il desinare o la cena. Ancora non avevo assimilato il divieto, quel vetitum che sarebbe diventato il primo tabù del mondo occidentale, una volta caduta la proibizione del sesso. Poi sarebbe arrivata la diffusione del virus dell’AIDS a ripristinarla per suscitare sessofobia.
La città danubiana mi sembrò enorme e dispersiva, mentre di fatto è bella e magica non meno di Praga. Ma avevo gli occhi offuscati da tante paure. Non trovavo la strada per Debrecen.
Dovetti chiederla una decina di volte. Finalmente riuscii a infilarla. Era, è, la Üllői út, la numero 4. Seguendola per 220 chilometri si arriva a Debrecen. La terra del mio riscatto, speravo non senza ragione. Erano passate le quattro. In quel momento prevaleva l’angoscia di non arrivare prima del buio. Il sole non era più tanto alto da rassicurarmi. Calcolai che il tramonto da quelle parti cadeva mezz’ora prima che da noi: entro le otto il dio[16] sarebbe sparito alle mie spalle, entro le nove sarebbe stato buio pesto. Calcolare, conteggiare, riflettere mi è sempre servito a minimizzare l’angoscia, a difendermi dai colpi bassi della fortuna e dalle fregature dei farabutti.
Bologna 23 febbraio 2025 ore 10, 40
p. s.
Sto rivedendo e ritoccando il mio romanzo Tre amori a Debrecen uscito nell’ottobre del 2023. Si trova nella biblioteca Ginzburg di Bologna. Non compratelo, prendetelo in prestito!
[1] Cfr. Dante, Paradiso IX, 25-26.
[2] Virgilio, Eneide III, 395, i fati troveranno la via.
[3] Dante, Paradiso VIII, 66-67. Ovviamente designa l’Ungheria.
[4] Eneide, III, 395, e sarà presente, invocato, un dio.
[5] Eneide, VI, 304, già piuttosto vecchio, ma cruda e vigorosa è la vecchiaia
[6] Eschilo, Prometeo incatenato, 210, una sola forma di molti nomi.
[7] Shakespeare, Amleto, III, 1, o quale nobile spirito è qui distrutto!
[8] Cfr. Catullo, Carmina 81, 3 moribunda ab sede Pisauri
[9] Il protagonista di Delitto e castigo di Dostoevskiy. Ammazza due vecchie appunto.
[10] Cfr. Vittorio Alfieri, satira IV, La sesquiplebe
D'ogni Città voi la più prava parte,
Rei disertor delle paterne glebe,
Vi appello io dunque in mie veraci carte,
Non Medio-ceto, no, ma Sesqui-plebe. (vv. 31-34)
[11] Ammiano Marcellino, Historiae, XXI, 1, ma il volo degli uccelli lo dirige dio.
[12] Cfr. Shakespeare, Hamlet V, 2 there’s a special providence in the fall of a sparrow.
[13] Cfr. Euripide, Baccanti: “tiv~ ojdw` ; tiv~ oJdw/` ;tiv~ ;” (v. 68), chi è per strada?, chi è per strada? Chi?
[14] Carducci, Il comune rustico, 10-11.
[15] Cfr. Dante, Paradiso, XXXIII, 31.
[16] Lo ministro maggior della natura-che del valor del ciel lo mondo imprenta-e col suo lume il tempo ne misura” (Dante, Paradiso, X, 18-20)
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