Uscito dall’orto botanico, proseguìi verso occidente, camminando sempre tra gli alberi finché sbucai nella luminosa piana dove si trovano i campi da tennis, il casotto del tennis e lo stadio con la pista di 400 metri che mi avrebbe restituito il gianni che ero stato prima di deformarmi nella orribile caricatura del ragazzo che ero stato al liceo.
Dopo l’esama di Maturità con la perdita dell’ambiente dove avevo funzionato bene per anni, mi ero imbestiato malamente.
Quando raggiunsi la piena coscienza e il sommo disgusto di tanto male e di tale malvagità verso me stesso, ripetei le parole dette da Nerone in fuga come seppe che il Senato l’aveva dichiarato nemico pubblico: “vivo turpiter, deformiter”. Quindi aggiunsi: “ouj prevpei jIwavnnh/, ouj prevpei”1, non si addice a Giovanni, non si addice.
Presa questa coscienza, però, invece di suicidarmi come fece il matricida augusto, tornai a correre in qualunque pista trovassi a disposizione, a pedalare la bicicletta in pianura e nelle salite, e a mangiare in modo umano, cioè solo il necessario.
Non esse voracem bona valetudo est, et formae dignitas.
Per quanto riguarda la difformità dalla fine dell’imperatore romano, la mia sopravvivenza dipese anche dalla mancanza nelle mie vicinanze di uno come il liberto segretario alle suppliche che aiutò Nerone a morire: “iuvante Epaphrodito a libellis”.
Fulvio viceversa mi aiutò a vivere. Il nuovo amico mi infonderà prima forza e coraggio, poi il sentimento che il compito mio era quello di primeggiare nel fare del bene: lo dovevo a me stesso, date le mie qualità. Amico prezioso. Ancora oggi il ricordo indelebile dell’aiuto che mi ha dato mi spinge a procedere, spesso non senza fatica, su per i duri tornanti di questa gara davvero olimpica per non tornare indietro con passi retrogradi verso lo stato miserando nel quale ero caduto sui venti anni.
Ora c’è la vecchiaia che incalza e cerca di infliggere umiliazioni, ma sono certo che gli dèi premiano le donne e gli uomini buoni mantendoli sani, forti e felici fino alla morte che mi coglierà, d’un tratto, assai dolcemente spero, mentre corro, o pedalo, o scrivo, o tengo una conferenza o, meglio di tutto, mentre faccio l’amore.
Comunque il più tardi possibile .
Quanto ai corpi delle persone qui già ricordate, e di altre che ricorderò, sono già quasi tutti defunti –defunctaque corpora vita- e le reliquie si trovano in terre diverse, anche lontane, ma le loro vite avranno stanza eterna in questo mio lavoro oltre che nelle tombe dove riposano i resti mortali. E voi, santi Penati, proteggete i miei amici che proteggono me, ne sono sicuro.
Sulla pista dello stadio di Debrecen dunque avrei corso proteso verso le mie donne, per rendermi sempre meno indegno di loro, per le studentesse borsiste all’università Debrecen, le finniche già ricordate, poi per diverse altre, fino alla supplente Ifigenia che era rimasta nel carnaio di Rimini e non mi scriveva nell’agosto del 1979 quando correvo i 5000 metri in meno di 19 minuti per sfuggire alle punture dolorose dell’assillo odiosissimo che mi tormentava siccome quella non si curava di me e non mi dava dei compiti.
Sicché me li assegnavo da solo.
Le mie pretendenti erano state fiumi dallo scorrimento veloce, come Acheloo mnhsthvr, di Deianira 2, ed erano rimaste tutte poco tempo con me, e mi andava bene proprio così: siffatte le cercavo perché sapevo che immergersi due volte nello stesso corso d’acqua è impossibile 3, ed era stata pure un sole al tramonto ciascuna delle donne mie, quel sole che torna rinnovato ogni giorno4.
Comunque le ricordo constanti, haud immemore mente da allora. Sempre e per sempre. Alle due Elene, a Kaisa a Päivi e ad altre di cui forse racconterò, sono stato il più fedele di tutti gli amanti.
Tutto questo e anche altro avrebbe significato quello spiazzo. Sarebbe diventato un luogo epifanico: rivelatore di verità occultate da uomini avvezzi più al male che al bene, e il sole sempre osservato a lungo mentre scendeva a posarsi la terra, era messaggero di segni celesti che facevano antivedere il futuro.
Eppure nel 1966, chiuso com’ero nel mio straziante egoismo, quel tevmeno", il terreno sacro degli anni successivi, mi lasciò indifferente.
Note
1 Cfr. Svetonio, Neronis vita, 49. Anche Augusto disse le parole estreme in greco.
2:"Mnhsth;r ga;r h\n moi potamov", jAcelw'/on levgw" (Sofocle, Trachinie, v. 9), il mio pretendente era un fiume, dico l'Acheloo
3Cfr. Platone Cratilo 402a: “ di;" ej" to;n aujto;n potamo;n ouk a]n ejmbaivh", non potresti entrare due volte nello stesso fiume. Parla Socrate rivolgendosi a Ermogene e ricordando Eraclito (cfr. frammemto 52 Diano).
4Cfr. Eraclito fr. 43 Diano
Bologna 27 febbraio 2025 ore 18, 38 giovanni ghiselli
p. s
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