venerdì 28 febbraio 2025

Terza parte dell’apprendistato primo capitolo.


L’estate del 1967 sul Ponto Eusino. Helena di Praga

Tornai a Debecen nel luglio del ’68, l’anno della svolta dei costumi.

 Nel frattempo avevo dato tutti gli esami e mi ero liberato da diversi contagi contratti prima: non disprezzavo più me stesso e non temevo le donne dopo che alcune ragazze erano state carine con me. Stavo via via ritrovando le mete cui indirizzare le forze mentali e corporee liberate dalla corda attorcigliata attorno all’anima mia e tanto stretta che l’aveva quasi soffocata. Il nodo era quello dei pregiudizi, delle superstizioni, dei luoghi comuni ripetuti come dogmi da ogni ignorante.

Scioglierlo non era possibile: dall’Alessandro Magno di Curzio Rufo, Plutarco e Arriano avevo imparato che dovevo tagliarlo. “Nihil interest quomodo solvatur” mi dissi 1, e mi diedi a reciderlo.

Dopo l’estate benefica del 1966 mi ero rimesso a studiare con interesse personale, non solo a memoria dico, e non tanto per gli esami, quanto per la mia liberazione. Avevo ripreso sul serio anche gli altri due pilastri della mia identità: la bicicletta e la corsa, riducendo l’adipe e annullando i turbamenti cardiaci sentiti quando ero sprofondato nell’angoscia più cupa, quasi quella del cupio dissolvi. Avevo creduto, temuto e magari pure sperato che quegli spasmi fossero preannunzi di morte precoce, mentre erano i sintomi di una mente turbata. La mia Turbata mens di allora.

A mano a mano che i ceppi con i quali avevo bloccato la mia persona si allentavano,  ritrovavo le forze.

 Prima di tutte quella di evitare quanti non mi rispettavano compiutamente: avevo capito che se qualcuno cercava di infliggermi ingiustizia o anche soltanto scortesia, non io ero in difetto, ma quel tale individuo.

Un poco alla volta rivalutavo le deficienze di cui mi avevano incolpato. Mi convincevo che non fumare, per esempio, favoriva la vita quindi non era un difetto che mi veniva rinfacciato. All’epoca il fumo era di moda. Gli imbecilli le seguono tutte.  

 Dovevo evitare gli imbecilli malevoli. Mi aiutò Seneca: Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem, pergentes non quo eundum est sed quo itur 1 bis , niente allora dobbiamo fare con cura maggiore che evitare di seguire il gregge di coloro i quali ci stanno davanti, alla maniera delle bestie, dirigendoci non dove dobbiamo andare ma dove si va. 

 

 

Mi diedi a tagliare i rami secchi. Quindi non mi assoggettavo più ai giudizi sprezzanti, come negli anni della putredine e del disperato disgusto di tutto, compreso me stesso. Avevo cessato di considerare prossimo mio chi provava a offendermi: era feccia da lasciare nei bassi fondi dove si trovava .

Durante l’estate del ’67 amoreggiai con diverse ragazze nel corso di una vacanza sull’Adriatico, in Jugoslavia, poi sul mar Nero. Facevo il viaggio con due studenti di ingegneria miei vicini di tavola nel collegio Irnerio di Bologna dove eravamo alloggiati. Due  marchigiani, Mario Brodolini di Recanati e Andrea Gentili di Tolentino. Spero che siano vivi e stiano bene. Mi piacerebbe ritrovarli. Mario era nipote di un ministro galantuomo, persona onesta e buona lui stesso e pure Andrea era un caro ragazzo.

Ricordo le loro persone e i loro nomi con affetto siccome erano probi e autentici. 

Una autenticità che spesso anche nei meno artefatti di noi letterati viene incrostata, se non addirittura contraffatta, da un qualche sapere che spesso non diventa sapienza, non arriva a essere cultura umana, ad associarsi alla vita, a capirla, a potenziarla, e non aiuta a vivere umanamente, ma si ferma allo stipendio dell’impiegato, modesto oltretutto, o arriva soltanto all’esibizione, alla scena artificiosa, oppure perviene malignamente all’ironia denigratrice del prossimo, dei sentimenti veri, della infelicità umana. L’ironia non risolve difficoltà e angosce: tutt’ al più le nasconde. Il principe santamente e genialmente idiota di Dostoevskij non ne era capace.

Del viaggio di quell’estate remota voglio ricordare un episodio bello.

Una mattina di sole mi svegliai nella spiaggia di Varna dove eravamo attendati. Non era presto e gli amici contubernali erano già usciti dalla tenda - dormitorio. Sicché andai da solo in un bar per bere il primo caffè.

Non lontano da me era seduta una ragazza bionda,  giovane molto, dagli occhi azzurri, bellina. La guardai direttamente e le rivolsi un sorriso che mi contraccambiò apertamente. “Il mare ospitale - pensai - non è un eufemismo 2. Ecco l’eterno richiamo dei sessi”. Stavo imparando a darlo e a riceverlo. Quella fanciulla non solo contribuì alla mia emancipazione dal male infondendomi ulteriore ottimismo nel bar sul Ponto Eusino dove ero stato, temevo, abbandonato dai due amici con i quali avevo questionato la sera prima, non senza mia colpa, ma seppe anche darmi un esempio di comportamento chiaro e onesto: lì sul mar Nero, dopo un paio di baci, disse apertamente che se desideravo una donna, dovevo cercarmi un’adulta, siccome lei non si sentiva iam matura viro 3, disse proprio così. "Ho ancora 17 anni", aggiunse. Bellina!

Per giunta era già sulla via del ritorno a Praga dove studiava al liceo, anche il latino.

Un fatto che accrebbe il mio interesse per lei.

Del resto anche noi tre stavamo per tornare in Italia, nelle nostre Marche amate dopo tutto, poi a Bologna amata anche questa. Ci piaceva la vita che facevamo. L'estate era quasi finita. Helena dunque mi congedò senza umiliarmi né umiliare se stessa: mi diede una carezza dicendo che comunque le ero piaciuto e mi aveva stimato per la mia sensibilità delicata, disse.

“Anche io ho amato la tua gentilezza generosa - risposi - e spero di rivederti più avanti da qualche parte. I hope to see you later, somewhere”.

 Parole che si dicono quasi sempre dopo un approccio gradevole e possono sembrare formulari, oppure l’espressione di un desiderio irrealizzabile; invece in dicembre mi scrisse pauca sed bona dicta 4: stava preparando l'esame di maturità e si sentiva maturare in tanti sensi. Mi invitò a Praga: aveva tante cose belle da raccontarmi e voleva sentire le mie. Bellina, bellina!

Ci andai in aprile, per le vacanze di Pasqua. Era la Primavera di Praga.

 

 Note

1 Cfr. Curzio Rufo Historia Alexandri Magni, III, 1, 18

I bis Seneca, De vita beata, I, 3.

2 Il Mar Nero veniva chiamato il Mare Ospitale (per esempio da Erodoto in I, 6:" ej" to;n Eu[xeinon kaleovmenon povnton"), con un eufemismo, come ne fu constatata l'inospitalità a causa delle tribù selvagge della costa. Seneca nella Fedra (vv. 715 - 716) menziona la palude Meotide (ora si chiama Mar d'Azov) che incombe con onde barbare sul Mar Nero (barbaris...undis Pontico incumbens mari

3 Virgilio Eneide, VII, 53.

 4 Cfr. Catullo 11, 15 e 16

 

Bologna 28 febbraio 2025 ore 20, 19 giovanni ghiselli

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L’apprendistato XXXI Il ritorno in italia. La ricostruzione dell’identità frantumata.


 

Il beneficio più grande di queste prima esperienza nell’università estiva di Debrecen fu che, tornato a Pesaro poi a Bologna, mi sentìi meno insicuro e infelice di quando ero partito in cerca di riscatto. Il viaggio di ritorno lo feci con Fulvio e Luigi nella Seicento; veramente questa arrivò soltanto a Lova di Campagna Luppia, e di lì dovemmo proseguire in corriera fino alla stazione di Bologna, quindi prendemmo strade diverse per tornare alle case materne, ciascuno alla sua. L’automobile  decrepita, dopo averci preannunciato la popria morte ansimando sfinita sulle rampe del Tarvisio, aveva fatto altri duecento chilometri aiutata dalla strada più pervia, poi verso sera era spirata, lì, al confine tra la laguna veneta e la grande pianura padana, dove vedemmo tramontare un sole esausto, offuscato dai moscerini e dalle brume dell’estate morente anche lei.

Avevamo viaggiato da oriente a occidente, vice Solis, come il Sole, la nostra guida.

Non potevamo chiedere aiuto perché il “maledetto e abominoso ordigno” oggi sempre nelle mani di tutti, ossia il cellulare, ancora non esisteva, sicchè passammo la notte in una locanda campagnola scambiandoci impressioni e riflessioni sul mese passato insieme, educandoci a vicenda e volendoci bene. Se ci fosse stato il telefonino e uno di noi tre, letterati ipotecnologici lo avesse avuto, avremmo perduto un simposio e uno scambio proficuo di pensieri non volgari né banali, anzi ricchi di pathos e di logos. Contento di ciò, saltai la cena. Mi ero già avviato sulla strada della resurrezione.  

La fine della vecchia automobile ebbe una conseguenza positiva siccome il male viene per giovare quando il destino prende il verso giusto, quello che favorisce la vita.

Poco tempo dopo infatti la zia Rina, badessa del convento di Pesaro, mi regalò la Mini Minor da cui trassi altra libertà e altro coraggio.

Salutati gli amici che non avrei più perduto e, terminato il viaggio sapendo più cose, mi ritrovai in Italia già piuttosto cambiato, e non in peggio: non ero più certo che la mia vita sarebbe trascorsa tutta tra le umiliazioni, l’odio e il dolore come era caduta di degradazione in degradazione da quando avevo terminato il liceo: fino alla bassa età  del ferro, quando aveva trionfato la brutalità calpestandomi il cuore e il cervello,  l’anima insomma .

A Debrecen avevo incontrato ragazzi buoni che mi chiamavano per nome, non con epiteti carichi di ludibrio, mi parlavano senza riempirmi di insulti e mi ascoltavano con attenzione; poi avevo trovato giovani donne che mi avevano sorriso e si erano lasciate avvicinare da me in vari modi ; avevo conosciuto persone che avevano riso e scherzato con me, non di me, e mi ero convinto che quel rispetto era giusto siccome io non ero stupido, né ignorante né cattivo del tutto: lo erano piuttosto  quanti mi avevano maltrattato dopo il liceo per risentimento del mio essere stato egregio nel Terenzio Mamiani di Pesaro e per  la soddisfazione di vedermi smarrito, disorientato, abbattuto. A costoro tale nemesi non bastò: volevano darmi il colpo di grazia.  Avevo del resto capito che quel rancore era stato scatenato non solo dal mio essere bravo ma anche dal narcisismo egoista con cui mi presentavo. Dovevo dunque tornare a primeggiare non per vantarmene bensì per fare del bene: il mio bene e quello degli altri, insomma volevo diventare benefico con l’aiuto di persone intelligenti, benevole, e ancor più di una donna del mio stampo, della mia levatura, della mia razza spirituale. Ma questa dovevo incontrarla. Un grande aiuto mi verrà dal movimento studentesco degli anni seguenti.

 

Bologna 28 febbraio 2025 ore 19, 11 giovanni ghiselli.

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Debrecen estate 1966. XXX parte. La lezione di Fulvio amico carissimo e bravo maestro.


 

 Fulvio mi fu di aiuto non piccolo: mi incoraggiò a pensare con la testa mia, ad abbattere le lunghe mura dei luoghi comuni, l’erta, scivolosa, restrittiva barriera dei pregiudizi inculcati dall’ambiente chiuso da dove provenivo. L’amico parlava esprimendo idee, non preconcetti.

Allora erano vere e proprie scoperte per me.

Una volta disse, ricordo, che la bellezza fisica è un valore reale, una forza potente poco riconosciuta, a parole, dai più, perché solo pochi possono attribuirsela plausibilmente, mentre il valore dell’intelligenza che molti ardiscono ascriversi senza suscitare risate, almeno finché stanno zitti, viene celebrato quasi da tutti, perfetti imbecilli compresi.

Decisi allora di migliorare il mio aspetto e iniziai presto a farlo.

Fulvio mi induceva a riflettere e mi insegnò a influenzare le donne belle e fini. Infatti la rara capacità del pensiero autonomo, una volta coltivata con esperienze vissute e altre letture, mi fu indispensabile per interessare e commuovere le migliori femmine umane cui già in quel tempo aspiravo, sebbene sprovveduto ancora di mezzi adeguati. Quelle cui agognavo con tutte le brame infatti non si sarebbero accontentate di filastrocche costituite da stupidi e nauseanti luoghi comuni, né di sciocchezze infantilmente insensate, in quanto esigevano a buon diritto un uomo dotato della capacità di pensare, parlare, comportarsi con autonomia, intelligenza, sicurezza. Oltre che di un aspetto attraente, beninteso. Tale tipo di donna in grado di individuare e scegliere il meglio sarebbe stata due anni più tardi  Helena di Praga, poi dopo altri tre anni l’Helena finlandese e l’anno seguente Kaisa e altri due anni dopo Päivi delle quali racconterò le storie grandi e meravigliose; tra loro ci furono persone insignificanti,  quindi dopo altri quattro anni di paccottiglia scarsa di significati, conobbi meravigliosamente  Ifigenia, e, in seguito,  altre creature di valore vario.

 

Contro i razzisti che vogliono dare il potere alle donne comunque esse siano, purchè  biologicamente femmine, ribadisco che le donne, come gli uomini, non sono tutte uguali. Ne ho conosciute di colte e di ignoranti, di buone e di cattive, di generose e di egoiste, e così via. Non so se siano disoneste o solo cretine quelle che esultano perché una tale ancora del tutto sconosciuta, è salita al potere.  Mi intendo un poco di ministri e ministre della pubblica istruzione e li valuto uno per uno. Non credo che quella mai neppure  maturata alle medie superiori, non ne ricordo il nome, o la Azzolina, pur non antipatica e pure belloccia, siano state più brava di Tullio De Mauro.  Né che la Pivetti sia stata all’altezza della Iotti come presidente della Camera. Né ritengo che Cicciolina valesse quanto Tina Anselmi quale parlamentare. Così le mie amanti si trovano in una scala che va dalle ottime qui ricordate alle mediocri innominate, alle pessime innominabili.

Lo stesso dico degli uomini che ho conosciuto e perfino dei miei parenti.

Chi vuole negare l’individualità di ogni persona è il mediocre, il quale  assume il conformismo dogmatico del gregge dove si imbranca, un mucchio uniforme dove la persona dotata di spirito critico non entra, quindi  non può smascherarlo né confutarlo.

Costui, il conformista, Si sente tutelato e protetto dall’identità gregaria che ha preso dal branco.

Sia chiaro che sono contento se una persona capace e onesta arriva al potere. Donna o uomo che sia. Molto bene ha detto Antonella Polimeni Magnifica Rettrice dell’università la Sapienza di Roma: “Il mio motto sulla questione di genere è ‘pari opportunità per pari capacità’ ”.

giovanni ghiselli

Bologna 28 febbraio 2025 ore 18, 47  

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Debrecen estate 1966 XXIX parte. L’infelicità sessuale dei ventenni della mia generazione. L’infame libro di Elefantide.


 La secessione dalla compagnia che “in due si scema”.


 

Sorseggiata la palinka, conclusi la mia lezione di pedagogia erotica dicendo con aria professorale: “ le ragazze non amano il chiasso e le scene infantili, ma parole precise, corrispondenti a fatti concreti. Cercano  sicurezza non priva di tenerezza e ciascuna vuole sentirsi prescelta, anche se di fatto scelgono loro, quando ne hanno la possibilità”.

 

Non avevo ancora esperienza di femmine umane amanti, ma le donne ero già predisposto a capirle: mi avevano fatto scuola quelle di casa: maestre imperiose, dure che non perdonavano l’insuccesso del maschio.

Davanti a loro ero stato uno scolaro che deve trovare e difendere la propria identità con una  lotta continua e strenua. Tale palestra era un luogo non soltanto di fatica e dolore ma anche di addestramento e ammaestramento prezioso. Avevo detto parole non prive di senso riguardo ai gusti delle femmine umane.

 

Danilo però se ne risentì, e, perduta la pacatezza acquisita durante il breve simposio, gridò: “Tu sei proprio malato mio caro pesarese, caro da Dio. Hai studiato troppo. Oppure non hai bevuto abbastanza. Non vedi che bea che xe?”. Queste parole mi parvero ebbre e non seppi cosa rispondere.

Fulvio, che aveva ascoltato con attenzione le mie parole sobrie e le aveva capite,  disse: “ Hai ragione, Gianni. Anzi, facciamo una cosa: andiamo a cercarne due da un’altra parte. La piscina è grande e pullula di belle ragazze. Noi qui perdiamo tempo “curando”1 in quattro una che nemmeno ci degna”.

“E’ ovvio-replicai- sempre più incoraggiato- non può rispondere a tutti. Vieni Fulvio: andiamo in giro a “puntare” come si deve”.

Veramente non sapevo come si fa, ma oramai avevo preso la posa del logico, dell’intenditore, e dovevo sostenere la parte. Intanto improvvisavo bluffando, poi avrei imparato sul campo. Così Fulvio e io  cominciammo a muoverci, mentre Danilo, rivolto a Ulderico gridava: “Cosa hanno quei due da bravare? Dimmi tu se con una toseta tanto bea, e una bocia di graspa a disposision, si deve criticare facendo i fighetti saccenti! Borghesi  dell’università di Bologna! Non sanno cosa significhi vivere un’esistenza marxista leninista! Io bevo palinka magiara, vodka russa, tutt’al più polacca, e fumo solo roba albanese!”

Poi si placò un’altra volta e con labbia rabbonita di nuovo, ripresa in mano la bottiglia diletta, concluse: “Be’, d’altra parte facciano pure come credono, cari da Dio, benedeti putei. Adesso qui c’è più spasio e meno concorrensa”. Non so se si riferisse alla fresca ragazza o alla palinka all’albicocca. “Beviamoci sopra!”. Quindi s’attaccò alla bottiglia e  tacque.

 

Mentre ci allontanavamo da lì, Fulvio mi domandò se avessi già avuto esperienza di sesso. Non l’avevo, e non volevo simulare con lui né dissimulare, anzi aggravai il peso che mi opprimeva rispondendogli: “No, mi fanno troppa paura”. Poi, con aria desolata, gli chiesi: è grave?”.

 Fulvio, per sua umanità, mi rispose senza irrisione né biasimo: “No, non avrai ancora incontrato una congeniale. Ma qui ti rifai. Guarda che mare di passera c’è in questa piscina”.

Così cominciammo a scrutarle, ad avvicinarle, ad abbordarle, per invitarle a uscire con noi, magari di sera.

Eravamo goffi però e, per avere successo, contavamo, tristissimamente, sul fascino dello straniero, occidentale per giunta e dotato di un’automobile: la scassata Seicento che nell’Ungheria di quegli anni era comunque cosa rara. Del resto tra noi e le ragazzette di Debrecen, non c’era dialogo per la diversità degli idiomi.

Compresi subito che per il “puntaggio” era terreno più adatto quello delle studentesse, le compagne di scuola dell’università estiva.

In quel mese lontano capii  molte cose sulle donne e pure sugli uomini. Volevo imparare a qualsiasi costo: anche pagando con grandi dolori e con l’espormi al ridicolo suscitato dall’ostensione dei miei grossi difetti, la conoscenza delle creature senza le quali sentivo di non poter vivere umanamente e felicemente qui sulla terra.

 Tra i ventenni della mia generazione sessualmente infelice, molti non avevano avuto esperienze erotiche; i maschi però vantavano gran copia di amori e di femmine.  Si gloriavano perfino delle prostitute. Le ragazze viceversa ostentavano pudicizia e illibatezza.

Io invece capivo che la miseria e l’infelicità sessuale ci riguardava tutti più o meno, maschi e femmine, perciò, mentre mi esponevo al ludibrio degli altri pitocchi del sesso con l’epifania e l’apocalisse della mia infelicità estrema, li compativo siccome avevo capito che loro, negando le debolezze e le angosce comuni, dovevano averle ancora più grosse delle mie: immense dovevano essere, ossia non più misurabili né attraversabili, pervie fino giungere a rive e porti di salvezza. Io invece volevo varcare quell’oceano di tempestoso dolore, anche se avevo a disposizione soltanto un canotto bucato, o una zattera dal legno infradiciato e rischiavo non uno ma cento naufragi. Per l’esame di “greco uno” avevo dovuto leggere tutta l’Odissea e avevo imparato dal “poeta sovrano (…) che sovra li altri com’aquila vola”[1] non solo i tecnicismi linguistici richiesti dai professori dell’epoca. 

 Insomma volevo percorrere, a qualsiasi costo, qualunque tragitto mi avrebbe portato prima dentro il corpo, poi nella mente e nel cuore delle femmine umane belle e fini.

 La mia Itaca era un’isola con tante donne amorevoli nei miei confronti.

Come la mamma, la nonna e le zie dopotutto.

Non escludevo già allora che avrei raccontato questo mio percorso da ragazzo  frustrato depresso a uomo cosciente in un libro che sarebbe stato educativo pur privo di  ogni censura al punto che i furfanti bigotti l’avrebbero esecrato quale opera più scandalosa e peggiore dell’infame libro di Elefantide[2].   

 

 

Note

1 Un vocabolo rivelatore della parmensitas mai dissimulata da Fulvio.

In questo contesto significa “corteggiare” che però è meno espressivo.

Fa parte del carattere sano la fedeltà alla propria nascita linguistica. Vivo a Bologna da più di 55 anni ma conservo la mia pisaurensitas nel parlare. La riconoscono dal fatto che allunghiamo le vocali, tipo : “cosa diiici, cosa faai,  sei maatto?”.

Sono i plebei mentali quelli che dopo un paio di mesi di trasferimento in età adulta scimmiottano penosamente e ridicolmente la pronuncia della nuova città per sentirsi integrati e “arrivati”. E’ un segno di miseria.

 

2 Cfr. Oscar Wilde, Il ritratto di dorian Gray, capitolo IX.

 

Bologna 28 febbraio 2025, ore 11, 58  giovanni ghiselli

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[1] Cfr. Dante Inferno, IV, 88 e 96. Ho fatto queste due citazioni come pure altre, non per misero sfoggio delle mie modestissime conoscenze, ma per significare che gli autori accrescitori della nostra umanità,  devono ancora e sempre venire letti e ricordati se vogliamo evitare l’imbestiamento. Con buona pace degli animalisti. Ogni specie ha una sua funzione nel mondo creato dall’ottimo Demiurgo.

[2] Cfr. Oscar Wilde, Il ritratto di dorian Gray, capitolo IX.

XXVIII Il corteggiamento inopportuno. Il tuono del primo risveglio.


Dopo avere girato in lungo e in largo osservando il curioso acquario frequentato da tante e varie persone comprese diverse donne giovani e belle, nel centro di una vasca circolare dall’acqua caldissima, sopra un’isoletta di pietra, vidi raggruppati Fulvio, Danilo, Ulderico, il  Romano nuovo arrivato, più un paio di sconosciuti, tutti intorno a una ragazza sola, bellina quanto si vuole, ma che non li  degnava  di uno sguardo.

“Bella e sdegnosa!” pensai ricordando con ironia un luogo comune dell’epoca quando i maschi corteggiavano accanitamente le ragazze che,  ritrosette, mostravano, o simulavano, riluttanza come le femmine di molti altri animali. Quelle dei piccioni, per esempio.

 Dopo che ci fummo ambientati a Debrecen, denominammo la vasca in questione “piscina dei sifilitici”, poiché  la sua acqua termale, caldissima, quasi bollete, faceva bene a diversi malanni, e molti dei coricati là dentro erano un po’ malandati, smozzicati 1 perfino. Vincendo dunque l’ardore dell’acqua e zigzagando tra i mutilati distesi in quella bolgia rovente, resistendo anche allo spavento dovuto al trascolorare dei piedi e dei polpacci lessati2 e delle cosce dolenti  che comunque mettevo in mostra sollevando gli stracci e stirandone i muscoli, l’unica cosa bella del mio corpo devastato, mi avvicinai ai miei contubernali e salii sull’isoletta del corteggiamento inopportuno.

Volevo osservare da vicino la scena che da lontano mi era sembrata folle.

Danilo, inebriato e rubicondo, gridava: “Bea tosetta, cara da Dio, perché non rispondi, Dio caro? Rispondi, ugheresina bella!”

Quella non solo non rispondeva ma non gli rivolgeva nemmeno una rapida occhiata. Fulvio provava a interessarla con cenni del capo e ammiccamenti vari; Ulderico, le agitava davanti al volto le mani con alcune dita dritte, forse per suggerirle un appuntamento appartato a una certa ora.  

Gli sconosciuti della seconda fila parlavano tra loro e ridevano: dovevano essere garzoncelli autoctoni  divertiti dalla vis comica della scena. I mezzi impiegati dai miei connazionali non erano adeguati al fine.

Io,  ragazzo disgraziato assai, non avevo esperienza di corteggiamento, ma desideravo talmente tanto le femmine umane, da capirle ancora prima di conoscerle, e da comprendere che quel modo di procedere non aveva alcuna possibilità di successo.

Conoscevo la psicologia femminile per essere stato allevato dalla mamma tre zie e la nonna, cinque nutrici tutte intorno a me per molte ore di ogni giornata. I maschi in casa mia non contavano niente. Le donne li canzonavano quando non li trattavano anche peggio. Avevo imparato a difendermi dalle femmine assimilandomi a loro.

Sapevo come funzionava la testa di molte donne e, per quanto avevo visto in casa, avevo capito che tanti uomini sono più ingenui e sprovveduti di tali astute e consumate volpi, se non pure tigri e leonesse. Bipedi ben inteso.

Quindi, spinto dai ricordi delle donne  di casa e dalla inadeguatezza di quei  contubernali, diventati tre con Ulderico, osai intromettermi con forza, e atteggiandomi a intenditore, dissi: “Salve, ragazzi, è un piacere grande incontrarvi, però, se permettete, state facendo un grosso errore: non si corteggia una sola donna  così raggruppati e in tale maniera goliardica, per non dire infantile o addirittura ferina”.

Danilo mi guardò bieco, e disse: “Cossa vu to? Stai poco bene? Se vuoi, vieni avanti a darci una mano, se no, tirati indietro, o tirati su con una graspa. Cosa c’è che non va? Non vedi che bea che xe? Non sarai mica finocio anca ti? Non vedi che bea, cara da Dio? Non è il tuo tipo?”

“Sì-risposi- è bellina assai, è cara da Dio, piace molto anche a me, è quasi il mio tipo, però io sto dicendo un’altra cosa”.

“Cossa vu to dire” gridò il veneto, sempre più rosseggiante e sfavillante tra i vapori dell’acqua rovente e i fumi interni dell’alcol. Se poi no ci sta, mi son rassegnà e so come consolarmi. Ora ti faccio vedere”

Temevo una sua invettiva; invece la voce emessa dalla faccia trascolorata3,  si contrasse in un singhiozzo, poi tacque. Quindi con miglior labbia4,  il giovane infatuato  prese una grossa borsa messa al riparo sul vertice dell’isoletta lapidea, l’aprì, tirò fuori una bottiglia di palinka, ne bevve un paio sorsi, poi me l’allungò, dicendo quietamente:

“ Manco mae che non sei finocchio. Me saria dispiaso!  Non fare storie, bevici sopra anca ti, pesarese caro da Dio!”.

Pensai che la piscina calda nel pomeriggio offuscato eruttasse una oscurità capace di ottenebrare le menti dei miei compagni di stanza, ma non lo dissi. Anzi, assaggiai la palinka all’albicocca offerta da quel ragazzo di Bassano del Grappa che  trovavo simpatico: il liquore ungherese mi sembrò più caldo dell’acqua rovente che mi aveva scottato le gambe. Più avanti purtroppo tale brace liquida arrivò a non dispiacermi. Però per fortuna, mi emancipai presto da quella strana consolazione. Grazie alle donne mie benedette.

Dopo avere letto questo capitolo potreste domandami: come è possibile che tu attraversando il bosco di Debrecen per andare in piscina ti sia trasformato in quel modo?.

Si vede che era arrivato il momento,  che il demone mio mi aveva dato la sveglia dopo tre anni di sonno.  Forse mentre camminavo nella “grande foresta” avevo sentito un tuono  o mi era apparsa una visione. Ero stato scosso come Edipo a Colono di Sofocle e come Hans Castorp alla fine del capolavoro di Thomas Mann.   

Stavo entrando nel dormiveglia. Quando tornerò a Debrecen nell’estate del ’68, oramai sveglio quasi del tutto, una studentessa di Padova che avevo conosciuto nel 1966 mi disse: “come hai fatto gianni a trasformarti così? Ti ricordi com’eri? Ci facevi pena”.

“Il dolore-risposi-mi è stato maestro”.

 Note

1Cfr. Dante, Inferno, XXIX, 6.

2Cfr. Dante, Inferno, XXI, 135.

3 Cfr. Dante, Paradiso, XXVII, 21.

4Cfr. Dante, Inferno, XIV, 67.

Bologna 28 febbraio 2025 ore 11, 32. giovanni ghiselli,

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L’apprendistato XXVII parte. La piscina bella, poi deformata.


Mi guardai in uno specchio per acconciarmi alla meno peggio. In effetti ero malconcio. Avevo nel volto e nel corpo le piaghe di chi ha fatto della propria vita un nodo atroce di doveri prima, e  di colpe poi.

Solo i polpacci conservavano i muscoli belli dell’antico agonismo.

La natura non mi aveva tolto tutto e io dovevo tentare il recupero con volontà e con arte. Dovevo trovare il modo di rendere aureum il mio corpus  così brutalmente violentato da me stesso e sconciati.

Se fossi riuscito a restituirmi a me stesso -reddere me mihi ipsi- avrei reso felice anche altre persone.  

Sopra il costume dunque indossai dei calzoni che  lasciavano vedere i muscoli delle gambe, mentre alzai  la cintola fino sopra la vita larga per nascondere almeno in parte il ventre obbrobrioso del nemico di me stesso: ne avevo vergogna e rimorso. Ma l’occultamento del ventre non ne cancellava l’infamia, nemmeno la nascondeva. Ci voleva una ricostruzione ben fatta come si opera con una città devastata.

Dopo questo proposito mi avviai in direzione della piscina. Attraversai di nuovo il bosco pieno di ombre, di enigmi non ancora risolti, e varcai il laghetto camminando adagio sul ponticello che, invece era assolato e cominciava a essermi familiare.

Un chiaro punto di riferimento in quell'intrico boschivo insomma.

 La piscina di Debrecen allora era bella, grande, ricca di alberi, prati, cespugli, fiori, chioschi e, naturalmente, di vasche. Queste avevano l’acqua fredda, o tiepida, o calda e curativa. Erano rettangolari, o circolari; grandi, piccole e medie; alcune avevano un trampolino per i tuffi, altre le onde artificiali per il gioco dei bambini, in altre ancora si poteva nuotare.

Insomma era un bel luogo, attrezzato bene, pulito, confortevole, quasi gratuito e frequentato da persone rispettose le une delle altre.

Quando ci sono tornato 45 anni più tardi, in bicicletta, illudendomi di ritrovarlo qual era, vidi invece con dispiacere che, quel giardino d’estate aperto al popolo di Debrecen, era diventato parte di un albergo, ed era stato completamente  modificata in peggio: privo di vegetazione, di giochi per bambini, di varietà di vasche: da luogo di incontro e svago popolare, era stato  ridotto a ritrovo squallido e costoso di borghesucci pretensiosi, trasformato in merce e affare volgare.

Brutto assai dunque, quasi quanto l’Hungaria ridotto a MacDonald. Nel 2011 era caduto già da diversi anni il muro che separava due Europe diverse. Ne rimaneva una sola, poco bella e poco buona.  C’erano già state diverse guerre con tanto di bombardamenti sui civili e se ne preparavano tante altre sempre più sanguinose e devastanti.

Bologna 28  febbraio 2025 ore 11, 05  giovanni ghiselli

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ApprendistatoXXVI parte. La vita contraccambia sempre coloro che la amano.


 

Il ragazzo malvissuto per quasi tre anni si vergogna della propria deformità acquisita.

Tornai in collegio e nella stanza, ansimando, pieno di sensi di colpa e di inferiorità.  Salivo le scale a suon di fischi dei polmoni  affannati e di rutti ripugnanti esalati dallo stomaco guasto, pieno di cibo immeritato e deleterio.

Inciampavo negli scalini perché in ciascuno vedevo una delle mie debolezze, vizi, errori e orrori da superare e temevo di cadere all’indietro spaccandomi la testa che non funzionava.

Del resto avevi fretta: dovevo cambiarmi e indossare il costume prima che giungessero i contubernali, e questo non per pudicizia, poiché trovata la mia ottima forma in progresso di tempo, e di me stesso, mi sarei spogliato ogni volta fieramente e trionfalmente davanti alle mie amanti, mentre quel giorno remoto non volevo mostrare l’obbrobrio della pancia superfetata, e anche perché all’epoca temevo di avere piccolo il pene.

Tale in effetti appariva o addirittura spariva sotto la pancia del ragazzo deforme che ero diventato ingozzandomi continuamente.

 I primi giorni andavo addirittura a fare la doccia in costume; poi, vedendo altri ragazzi nudi, in alcuni casi mi ricredetti sulle dimensioni modeste del mio apparato, in altri mi rassegnai.

La vergogna della pancia tesa, dura e prominente invece l’avrei abolita più tardi nell’unico modo possibile: eliminandola con lo sport anche agonistico, e con un nutrimento essenziale.

Tuttora quando mangio solo il necessario mi piaccio per la rinuncia pulsionale offerta alla mia forma.

Quantum mutatus ab illo!1.  Quando mi vide cambiato in meglio, Fulvio, stupito e contento, mi avrebbe fatto,  tutte le congratulazioni  meritate. Eravamo arrivati al ‘68, anno di salvazione mia e di molti altri, soprattutto di tante donne liberate da secoli di repressione e sottomissione sessuale. Diversi  anni più tardi una dottoressa, un medico femmina dico, non inesperta di maschi, mi avrebbe fatto i complimenti per tutta la mia consistenza corporea: sana e fatta bene dai capelli ai piedi. Nel 1966 sarebbe stata follia sperarlo!

Ma la volontà di vita associata all’amore  prevale su ogni male, perché la vita contraccambia sempre i suoi amanti appassionati, soprattutto quelli pentiti di avere peccato omettendo di amarla e perfino tradendola con l’odio cieco e con il dolore sordo ai meravigliosi richiami di lei. Sono grato all’ambiente naturale e umano dell’Università  di Debrecen, la dimora aurea di Afrodite beata, incantevole dono della felice natura che mi ha dato la spinta ad amare la vita.

Nota

1 Cfr. Virgilio Eneide, II, 274. Detto a proposito dell’immagine onirica di Ettore quale appare a Enea durante la notte dell’eccidio di Troia, mutato in peggio però.  

Bologna 28  febbraio 2025 ore 9, 33

giovanni ghiselli

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giovedì 27 febbraio 2025

L’apprendistato XXV parte. La mensa di Debrecen.

L’apprendistato XXIV parte. La mensa di Debrecen.  

 

Il pasto doloroso e vergognoso. Il grugno ingordo dell’uomo e il ceffo dentato del cane a caccia di cibo.

 

 Sollevai il corpo gonfio e mi mossi verso la mensa situata di fianco al collegio numero uno, l’alloggio dei Russi e dei Finlandesi, più femmine che maschi a dire il vero, dato che eravamo tutti letterati, ossia studenti di materie amate e studiate dalle donne più che dagli uomini, come si diceva allora, e forse ancora si dice. Io credo sia vero.

 Le lettere sono preferite ai numeri dalle donne e dai donnaioli che  sono tali in quanto attirati da creature simili a loro, siccome dotati di una sensibilità più fine e delicata più interessata alle parole espressive e amorose che ai numeri, e pure più  forte rispetto a quella del  maschio tipico il quale  passa le serate a guardare le partite di calcio con i suoi eroi che sgambettano,  oppure ammazza il tempo giocando a carte con altri uomini. Se no, vanno a bere e urlare nelle osterie. Dopo anni passati quali impiegati intontiti e  svogliati funzionari  della specie.

Costoro sono spesso degli omosessuali per lo meno latenti. Non pochi tra i pensionati scimuniti che riempiono le serate con il football e la briscola o il biliardo si sono ammogliati, a parer mio, per dissimulare la loro vera natura. 

Perdonate questo mio strano pensiero. Ho voluto rispondere a chi dice di me che sono una donna poiché non mi interessa il calcio, come non piace alle femmine appunto, non ho mai fatto a cazzotti, detesto la guerra, aborro la prepotenza, non voglio comandare né essere comandato, e ho giocato a carte solo un paio di volte in vita mia, da giocatore trasognato1  sbagliando tutto e perdendo denaro, quindi ho capito che non faceva per me .

Pensavo troppo alla donna “mistero senza fine bello!”2, enigma simile a quello della vita, particolarmente questa  vissuta da me, vissuta come  pare va a me dopo la crisi superata.

 

Ma torniamo al giorno di quel luglio lontano. Entrai nella mensa.

I tavoli erano già tutti pieni. Mi aggirai tra i banchettanti lieti, ansiosamente, già quasi certo dell’esclusione, meritata del resto dal ritardo accumulato per l’empio aperitivo, nel tempo che ora chiamano happy hour ed è invero qualche cosa di turpe se tale antefatto è un misfatto seguìto da un pranzo o da una cena pomposa, magari non senza una copiosa merenda nel mezzo. L’obesità non viene per caso, né senza colpa. Una colpa dannosa e volgare

La snellezza è una forma di pulizia oltre che di bellezza.

 I porci ingrassano, i levrieri no.

 

Dopo qualche minuto di ispezione angosciosa, mentre già deprecavo l’imminente fato, mi accorsi con dolore che i miei tre contubernali non mi avevano tenuto un posto al tavolo dove  erano seduti allegri e incuranti della parola data. Il loro quarto commensale era uno sconosciuto più attempato di noi.

Forse un professore di Debrecen. “Maledetti!”, pensai,  provando delusione e paura dell’isolamento per tutto il mese seguente.

Citai un paio di versi delle Troiane portate alla maturità tre anni prima: “le mie sciagure non hanno misura né numero e i mali gareggiano con i mali”. Volevo annientarmi.

Quindi ricordai Pavese: “più il dolore è determinato e preciso, più cade l’dea del suicidio”.

Fui tentato di ripartire tosto per Pesaro.

Se non avessi avuto il vizio del cibo eccessivo, avrei colto questo segnale per saltare il pranzo e non peggiorare il mio aspetto e il mio umore; invece, ricevuta questa piccola frustrazione che la mia anima vuota e malata ingrandì a tragedia o quanto meno a infausto annunzio di futuri danni, la fame nervosa aumentò. Mangiare in quella maniera disumana era un tentativo, il peggiore possibile, di riempire il vuoto di affetti e di interessi nel quale precipitavo sempre più in basso da anni, come i mostri del Caos primogenio.

Mi mancava il rispetto che ogni figlio della luce deve a se stesso. Insisto su questo poiché, passati  tanti decenni, da quella lugubre mattina, ho visto  l’obesità diffondersi tra uomini, donne e bambini che mangiano ossessivamente a  senza praticare alcuna ascesi somatica, né, tanto meno, spirituale. Condannerei a multe pesanti i genitori grassi che spingono  i figli già infarciti a mangiare ancora. Se la multa non bastasse, toglierei la dignità genitoriale a tali corruttori.

Certe madri mi fanno pensare a Circe che dà agli uomini forma di porci- hJ suw`n morfwvtria-Kivrke[1] . L’obesità è contrassegno di infelicità, di caos, di vuoto dell’anima.

 Ma torniamo al tragico pranzo  autodistruttivodel 16 luglio del 1966.

Il mio vuoto spirituale agognava l’ingozzamento, sicché continuai ad aggirarmi tra i tavoli con l’anima in pena e l’aria implorante, sperando di sentirmi chiamare o almeno di trovare una seggiola vuota. Fulvio, da gentiluomo qual è, si accorse della mia difficoltà, mi raggiunse e si scusò dicendo che non era stato possibile tenere occupata la quarta seggiola, siccome una cameriera imperiosa aveva imposto a un romano appena arrivato, Ulderico, di sedersi al loro tavolo. Comunque dopo mangiato ci saremmo trovati tutti in piscina. Non dovevo mancare. Gentile, gentiluomo di Parma. Nell’età tragica della mia vita, Fulvio mi ha aiutato come nessun altro. Basta poco per dare una mano a un infelice, eppure quel poco i più non me lo hanno dato. Se ci sono state delle mani, hanno cercato di spingermi sempre più in basso. Dal dolore comunque ho imparato assai. Devo parte della mia intelligenza a tanta sofferenza. Anche le pagine belle che scrivo le devo  al dolore non meno che alla gioia.

.

 Fulvio non c’è più come altre persone care e benefiche e ne sento la mancanza-povqo~-  ma  conserverò gratitudine fino all’ultimo giorno di questa mia vita altrettanto mortale e finché sarò vivo, pregherò Dio, chiunque egli sia, difficile da conoscere, se sia necessità del cosmo oppure intelligenza dell’uomo, dicendo: “proteggi i miei cari che mi hanno salvato e protetto”.

Più avanti Fulvio mi aiutò ancora quando disse che non capiva perché mi lamentassi tanto, dato che non mancavo di niente: se avessi avuto un male incurabile, o fossi stato deforme, mi avrebbe compatito, ma poiché apparivo normale, almeno finché non mi lagnavo, perciò se avessi continuato a lagnarmi, mi avrebbe preso prima a bastonate, poi a calci per darmi una lezione. Sacrosanta, meritata minaccia. Funzionò da elettroshock, la cura appropriata.

 

Immeritato invece era il mio pranzo che avrei dovuto saltare. Ecco perché non avevo trovato il posto che speravo.

Mi era stato mandato un segno da Dio: diceva che non dovevo mangiare, che ingozzarmi era il maximum scelus per me,  ma io non colsi l’avvertimento, siccome avevo ancora Satana con tutto l’inferno dentro la mia disgraziata persona.

 Ringraziai Fulvio, gli dissi che sarei andato in piscina verso le due e mi allontanai un po’ rinfrancato.

Quindi trovai una seggiola libera a un tavolo di gente straniera dall’incomprensibile idioma. Uzbeki forse. o Circassi, o Ciuvassi o Kirghisi. Sedetti e, senza nemmeno abbozzare un saluto,  chinai il grugno inverecondo sul piatto, mi ingozzai in gran fretta di enormi patate unte, di  carne con sugo grasso dove inzuppai  pure non piccoli tozzi di pane lasciati lì da qualcuno, e non ancora non afferrati  da un cane che si aggirava con ceffo famelico. Gli avrei strappato quei bocconi residui dai forti, aguzzi canini se avesse provato a saltare per involarli ai miei denti cariati ma ancora più  frenetici e ingordi dei suoi. Con i Circassi e i Kirghisi vari non ci fu bellezza di parole- morfh; ejpevwn,  né altra bellezza. Ci fu solo l’orrore di quel pranzo contro natura.

Bologna 27 febbraio 2025 ore 19, 25

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[1] Euripide, Troiane, 437-438.

L’apprendistato XXIV parte. Il casinetto mio.


 

 

Contiguo allo stadio c’è quella casetta o casinetto1 che tornerà in primo piano nella storia di Helena, particolarmente nell’episodio di una notte simile a quella di Valpurga con la  tentazione che mi provenne dalla pulzella di Strasburgo Josane, quando mi comportai come santo Antonio evitando umiliazione e dolore  alla ragazza madre amante amata.

Eravamo nel 1971. Nemmeno allora dovevo sfuggire alle prove2. Neanche adesso,

E’ una casa non grande, a due piani3, con due terrazze, una per piano, come quella di Eufileto, l’eterno marito becco e vendicativo, stolto omicida difeso da Lisia.

Nel 1966 sedetti sulla terrazza più bassa per trangugiare un caffè e ingozzare dei pasticcini, indifferente a quel luogo che sarebbe diventato uno dei più significativi della mia vita mortale. 

Al secondo piano il custode abitava; al primo teneva un bar con seggiole e tavolini, sia nell’interno sia nella terrazza, dove ci sarebbero state alcune feste intermedie tra quella della conoscenza e quella dell’addio dove Afrodite riuniva ragazze e ragazzi perché si conoscessero nella prima, e si salutassero per sempre, con gratitudine eterna, nell’ultima. In queste più o meno settimanali si sarebbero consolidate oppure avrebbero vissuto ore di crisi i miei rapidi amori  pellegrini; là donne straniere e pure italiane, come vedremo, mi avrebbero approvato o redarguito, esortato o confutato insegnandomi buona parte di quello che ora so.

A scuola non ho imparato di più né di meglio.

 

Su uno di quei tavolini piansi lacrime catartiche alla fine della storia di Päivi  che forse conosci, lettore. Quella sera di agosto nel rosso del cielo mi apparve un girotondo di amici ancora vivi e uno-Bruno-  morto già allora, cinquanta anni fa..

 

Nel luglio del ’66 però, imbestiato com’ero, in quel casinetto vidi soltanto un bar dove sedermi  per bere un caffè assai zuccherato e perdere altri dieci minuti di questa rapida vita mortale oziosamente, ossia senza agire, né osservare, né meditare in modo costruttivo, ma solo cercando di tenere a bada l’angoscia e assecondare l’ingordigia animalesca  del ventre. Trangugiato il lungo caffè pieno di zucchero non senza delle paste  dolci  e nauseabonde che avevo aspettato con impazienza frenetica, si era fatto il tocco, come si dicevano nella bella parlata toscana di  casa mia, cioè l’una, insomma l’ora di desinare. Un pranzo del tutto immeritato da parte mia. Mi avrebbe fatto meglio una bastonatura da bestia quale ero quando ogni mensa erano la degna tana della mia vita non umana.

 

Note

1 Cfr.  Mozart-Da Ponte, Don Giovanni, I, 9: “Quel casinetto è mio: soli saremo, e là gioiello mio, ci sposeremo. Là ci darem la mano, là mi dirai di sì”.

2 Cfr. Odissea, I, 18.

3 Cfr. l’orazione giudiziaria di Lisia Per l’uccisione di Eratostene: “oijkivdiovn ejsti diplou`n, i[sa e[con ta; anw toi`" kavtw” ,   E’ una casetta a due piani che ha gli ambienti di sopra simmetrici a quelli di sotto.

 

Bologna 27 febbraio 2025- ore 19, 05

giovanni ghiselli

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