domenica 2 febbraio 2025

Introduzione alla tragedia greca. Parte ottava.


 

Chiudo questa parte con altre due parole sul film Itaca il ritorno

 

 Torniamo alla Poetica di Aristotele con un altro argomento. Degne di nota sono le considerazioni sul linguaggio poetico: "Levxew~ de; ajreth; safh' kai; mh; tapeinh;n ei\nai” (1458a, 18 ).   Pregio del linguaggio  è essere chiaro e non pedestre.

Il poeta è libero di variare rispetto all’usuale, cioè al dozzinale.

Il linguaggio si scosta dall’ordinario quando usa espressioni peregrine:“xeniko;n de; levgw glw'ttan kai; metafora;n kai; ejpevktasin kai; pa'n to; para; to; kuvrion” (1458a, 22 ), con peregrino intendo la glossa, la metafora, allungamento e ogni forma contraria all’usuale.

Glossa è la locuzione non comune, quella di cui non tutti fanno uso (1457b, 4).

Metafora è il trasferimento del nome da una cosa a un’altra: “metafora; dev ejstin ojnovmato~ ajllotrivou ejpiforav” (1457b, 7). Allungata (ejpektetamevnon, 1457, 35) è la parola adoperata con una vocale più lunga dell’ordinario o con l’aggiunta di una sillaba; accorciata (ajfh/rhmevnon) quando si toglie qualche cosa (1458a, 1). Non si devono impiegare tutti insieme questi elementi inusuali, altrimenti si produce l’enigma o il barbarismo. Dalle glosse si producono i barbarismi, dalle  metafore l’enigma, la cui caratteristica è combinare insieme l’impossibile dicendo cose vere. (1458 a, 26)[1].  Per avere insieme elevatezza e chiarezza dunque bisogna fare in un certo modo una mescolanza di queste forme: “dei' a[ra kekra'sqai pw~ touvtoi~ (1458a, 31). Arifrade canzonava[2] i tragediografi poiché fanno uso di espressioni che nessuno impiega parlando, come le anastrofi (oi|on to; dwmavtwn a[po ajlla; mh; ajpo; dwmavtwn, 1458a, 33, come per esempio da casa via e non via da casa), e ignorava che sono proprio le espressioni inusuali a produrre nel linguaggio to; mh; ijdiwtikovn (1459a, 3) il non triviale.

 E’dunque molto  importante sapere usare queste forme di abbellimento, e soprattutto le metafore

Questo fatto creativo non può essere preso in prestito da altri: “ eujfui?a~ te shmei'ovn ejsti: to; ga;r eu\ metafevrein to; to; o{moion qewrei'n ejstin” (1459a, 6-7), ed è segno di talento: infatti trovare buone metafore significa osservare ciò che è somigliante[3].

“E’ in questo senso che un poeta dice: “La realtà è un luogo comune dal quale sfuggiamo con la metafora”. La metafora letteraria stabilisce una comunicazione analogica tra realtà assai lontane e differenti, dando intensità affettiva all’intelligibilità che produce. Generando onde analogiche, la metafora supera la discontinuità e l’isolamento delle cose[4].

“Le due realtà, identificandosi nella metafora, cozzano l’una con l’altra, si annullano reciprocamente, si neutralizzano, si materializzano. La metafora diviene la bomba atomica mentale[5].

 

Nella Retorica, Aristotele dà questo suggerimento :"bisogna rendere peregrino il linguaggio (dei' poie'n xevnhn th;n diavlekton), poiché gli uomini sono ammiratori delle cose lontane" (III, 1404b).

 Un'affermazione che trova echi nello Zibaldone  di Leopardi dove leggiamo:"le parole lontano , antico , e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse"(1789). E, più avanti (4426):"il poetico, in un modo o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago".

  La metafora del resto possiede in massimo grado chiarezza (to; safev~), piacevolezza (to; hJduv) e stranezza (to; xenikovn), e non è possibile prenderla da altri (Retorica , III, 1405a).

Diamo l’ esempio di una bella sequenza polimetaforica dei Persiani  di Eschilo dove l’u{bri~ è congiunta  all' a[th  :" u{bri" ga;r ejxanqou's j ejkavrpwse stavcun--a[th", o{qen pagklauvton ejxama'/ qevro"" ( vv.821-822) la prepotenza infatti fiorendo dà per frutto una spiga di/ accecamento, da dove falcia una messe tutta di lacrime.

“I Persiani sono un dramma storico, ma trascendono questo livello grazie all’interpretazione che in essi riceve l’evento: la vittoria dei Greci è opera loro come degli dei che puniscono l’eccesso con l’empietà…Il dramma resta naturalmente anche un documento storico e non si dovrà dimenticare che il grande resoconto della battaglia fu scritto da un uomo che vi prese personalmente parte”[6].

 

Tornando alla Poetica,  Aristotele ribadisce che il poeta è un imitatore: “ ejsti mimhth;~ oJ poihthv~ ” (1460b, 8), come un pittore (wJsperei; zwgravfo~) o un altro ritrattista (eijkonopoiov~); allora è necessario che egli imiti in uno dei tre modi che ci sono: o come le cose erano o sono, o come dicono e sembrano, o come dovrebbero essere (1460b, 10). Ebbene Sofocle diceva che rappresentava gli uomini come devono essere, Euripide come sono"(1460b, 34).

Questa  famosa affermazione attribuita dal filosofo stagirita al poeta di Colono dà un'idea della differenza tra l'idealismo eroicizzante di Sofocle, e il realismo di Euripide che comincia a degradare l’eroe[7].

Insomma: se il poeta è un imitatore al pari di ogni altro artista, e si accusa il drammaturgo perché ha ritratto cose non vere, allora può darsi che egli le abbia rifatte come vorrebbe che fossero.

 

 Riporto anche una divisione della tragedia in parti quantitative (kata; de; to; posovn, Poetica, 1452b, 15) che può essere utile a uno studente di liceo. Il Prologo è la parte (recitata) che precede l'ingresso del coro; la Parodo è il primo canto del coro (quello di ingresso), i successivi si chiamano Stasimi (canti sul posto); Aristotele definisce lo stasimo “canto del coro privo di anapesti e trochei” (Poetica, 1452b, 24), che dovrebbe essere un canto moderato, simile al recitativo; gli Episodi sono gli atti recitati, compresi tra un coro e l'altro; l'Esodo è la parte finale, cui non segue un canto corale;  il Commo è un lamento comune cantato (a voci alterne) dal coro e dalla scena:  kommo;~ de; qrh'no~ koino;~  corou' kai; ajpo; skhnh'~ (Aristotele, Poetica, 1452b 24

“Come sinonimo di amebeo lirico viene spesso usato il termine kommov~. In realtà il kommov~ (da kovptomai= “percuotersi” il petto o il capo in segno di lutto) è propriamente un canto antifonale di carattere funebre, un qrh`no~ che riprende forma e motivi dal lamento rituale tradizionale, in cui un solista intona il lamento e un coro risponde. Kommoiv di questo tipo sono ben attestati nella tragedia. Essi si pongono su una linea di sostanziale continuità con le descrizioni di pianto rituale già testimoniateci dai poemi omerici (ad esempio Il. 24, 719-776 e Od. 24, 35-94), con il ricorrere di elementi topici quali l’allocuzione al morto, l’autocommiserazione, l’elogio dello scomparso, il ricordo nostalgico del passato, il riferimento alla condizione del defunto e dei sopravvissuti, la promessa di adeguate onoranze funebri….L’esempio più antico di kommov~ tragico è quello dell’esodo dei Persiani di Eschilo tra Serse, che intona e guida il lamento, e il Coro, la cui funzione è di rispondere e di amplificare l’espressione di cordoglio. Oggetto del compianto è la sorte dei soldati che il re ha portato alla disfatta nella sciagurata spedizione contro la Grecia (vv. 1038 ss.)”[8].   

Infine Aristotele giunge a un giudizio comparato tra epica e dramma, assegnando il primo posto alla tragedia, poiché essa contiene tutti gli elementi dell'epopea e in più lo spettacolo scenico e la musica. Inoltre il dramma ha maggiore vivezza di rappresentazione e riesce più gradito anche perché è meno diluito: l'Edipo re  consta di un numero di versi dieci volte inferiore a quello dell'Iliade (da 1500 a 15000 circa). “To; ga;r ajqrowvteron h{dion h] pollw'/ kekramevnon tw'/ crovnw/ ” (1462b, 1), in effetti ciò che è concentrato è più gradevole di quanto è diluito in molto tempo. 

Invero la densità di uno scritto non si deve giudicare contando il numero delle pagine ma dalla significazione di ogni singola parola

 

Sappiamo che "il ritardare è epico"[9], mentre il tragico si affretta alla conclusione; l'epos e il suo corrispettivo moderno, il romanzo, sono stati paragonati a grandi fiumi dal lento fluire, il dramma potremmo assimilarlo a un impetuoso torrente montano che precipita di roccia in roccia offrendo lo spettacolo di catastrofi fatte di sangue e fragore il cui rombare prima ci stordisce, poi ci libera dalla parte oscura e irrazionale.

 

A proposito del ritardare epico si può fare l’esempio del racconto particolareggiato della cicatrice di Ulisse. Nel  XIX dell’Odissea  leggiamo che Ulisse quando era ospite del nonno materno Autolico venne ferito sul Parnaso da un cinghiale dalla candida zanna su`~ leukw`/ ojdovnti (393).  La nutrice Euriclea riconosce da questa oujlhv  il suo pupillo partito venti anni prima e Omero procede per 72 versi raccontando come il fanciullo durante una caccia ricevette questo colpo che gli strappò un bel lembo di carne sopra il ginocchio.

Solo al verso 467 il racconto torna al presente con il riconoscimento di Euriclea che ravvisa la sua cara creatura-fivlon tevko~- (v. 474) nel falso mendico.

 Omero  mette tutto in primo piano e in piena luce. Tutto viene mostrato, chiarito e spiegato.

Mi sono fermato un poco su questo episodio perché, come ho scritto nel Post di questa mattina, Il film Itaca il ritorno  ha di pregevole solo questo momento di emozione della vecchia nutrice e mamma vicaria di Odisseo.

Il resto  ha poco o niente del poema omerico.

Un film “liberamente tratto da un libro” è un tradimento e un’usurpazione del libro come  una traduzione che non rispetta le scelte dell’autore.   

   

Ma torniamo alla tragedia. Nell’introdurre i tre grandi tragici, non avendo abbastanza posto per rendere conto di ogni aspetto della loro poesia né dei loro contenuti, darò uno spazio prevalente al rapporto tra l’uomo e la donna, e alla condizione femminile.

Bologna 2 febbraio 2025 ore 17 e 9 giovanni ghiselli

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[1] Bettini utilizza questo passo di Aristotele per  indicare un  nesso tra enigma e incesto:"Aristotele, definendo la aijnivgmato" ijdeva, dice che il procedimento dell'enigma consiste nel "parlare di cose vere legando fra loro adynata ", cioè cose che non possono (almeno in apparenza) esser legate fra loro. L'incesto, naturalmente, verifica per l'appunto questo principio. Come si può essere contemporaneamente "padre" e "fratello" dei propri figli?" (M. Bettini, L'arcobaleno, l'incesto e l'enigma a proposito dell'Oedipus di Seneca, "Dioniso", 1983, p. 145).

Nell'Oedipus di Seneca si trovano intrecci dove si mescolano e confondono entità diverse, e tali che dovrebbero rimanere divise:"Effetto della malattia è appunto quello di confondere, di identificare quello che altrimenti dovrebbe restare diviso. Non c'è più distinzione di età o di sesso: i giovani muoiono contemporaneamente ai vecchi, i figli contemporaneamente ai padri. Nella descrizione della peste, Seneca sembra dunque applicare lo stesso principio codificato altrove da Aristotele per l'enigma: sunavyai ajduvnata. Come l'incesto ovviamente, come l'arcobaleno" (M. Bettini, L'arcobaleno, l'incesto e l'enigma a proposito dell'Oedipus di Seneca, "Dioniso", 1983, p. 148).

[2] Forse è l’Arifrade ponerov~ che viene a sua volta sbeffeggiato da Aristofane nei Cavalieri (vv. 1281 sgg. e nelle Vespe (1280 sgg,) per come ha appreso a lavorare di lingua, inquinandosela nelle voluttà nefande dei bordelli.

[3] Intelligenza in greco si dice suvnesi"  una parola che tradotta radicalmente significa capacità di mettere insieme cose distanti, di vederne le somiglianze, e se è vero, come afferma il Menone di Platone, che "la natura è tutta imparentata con se stessa," th'" fuvsew" aJpavsh" suggenou'" ou[sh""(81d), coglierne ed evidenziarne i legami di parentela è compito del genio, del poeta. La stessa cosa afferma Dostoevskij in I fratelli Karamazov :"il mondo è come l'oceano; tutto scorre e interferisce insieme, di modo che, se tu tocchi in un punto, il tuo contatto si ripercuote magari all'altro capo della terra. E sia pure una follia chiedere perdono agli uccelli; ma per gli uccelli, per i bambini, per ogni essere creato, se tu fossi, anche soltanto un poco, più leale di quanto non sei ora, la vita sarebbe certomigliore "(p.402).

 Facciamo l’esempio di una bella metafora, tratto da Eschilo, l'autore che ce ne fornisce la scelta più ampia siccome conserva la rigida grandiosità del rituale e l'enfasi ieratica del linguaggio liturgico:"dia; dev toi genu'n iJppivwn-kinuvrontai fovnon calinoiv", attraverso le mascelle dei cavalli, le briglie arpeggiano  strage(I sette a Tebe , vv. 122-123).

[4] E. Morin, La testa ben fatta, p. 94.

[5] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro, p. 48.

[6] A. Lesky, La poesia tragica dei Greci, p. 125.

[7] Cfr. F. Nietzsche: “mentre Sofocle dipinge ancora caratteri interi, aggiogando il mito al loro raffinato sviluppo, Euripide dipinge ormai solo grandi tratti caratteristici, che sanno rivelarsi in violente passioni; nella commedia attica nuova ci sono soltanto maschere con una sola espressione, vecchi frivoli, lenoni gabbati, schiavi scaltri in instancabile ripetizione” (La nascita della tragedia, p. 117).

[8] Di Marco, Op. cit., p. 259.

[9] “Goethe e Schiller, che, verso la fine dell'aprile 1797 ebbero uno scambio di lettere...sul "ritardare" in genere nei poemi omerici, lo misero addirittura in contrasto con la tensione; essi veramente non usano questa espressione, ma è chiaro che cosa intendano quando indicano il procedimento del ritardare come propriamente epico in opposizione a quello tragico (lettere 19, 21, 22 aprile). Sembra anche a me che il ritardare mediante digressioni stia nei poemi omerici in opposizione con l'anelito ad un fine, e senza dubbio Schiller ha ragione per Omero quando pensa che questi ci dia "soltanto la presenza e l'azione tranquilla delle cose secondo la loro natura" e che il suo scopo sia "già in ogni punto del suo movimento". Ma entrambi, tanto Schiller quanto Goethe, innalzano il procedimento omerico a  legge della poesia epica in generale; e le parole ora citate di Schiller devono valere per i poeti epici in opposizione ai tragici" (E. Auerbach, Mimesis , p. 5).

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