venerdì 3 gennaio 2025

Metodologia 74. Pessimismo e ottimismo pedagogico.

Metodologia 74. Pessimismo e ottimismo pedagogico.

Pindaro: “ sofo;" oJ polla; eijdw;" fua'/

 Euripide:  Ecuba (oJ me;n ponhro;" oujde;n a[llo plh;n kakov") e Supplici ( “hJ eujandriva-didaktovn).

Protagora in Platone: paraskeuasto;n ei\nai ajrethvn.

 

Ora è chiaro che non tutti sono portati per le stesse materie; che il greco e il latino sono facili per alcuni, difficilissimi per altri. La conoscenza della morfologia è necessaria ma non sufficiente.

 L’intuizione infatti è una qualità indispensabile soprattutto per il greco, come la leggerezza e la potenza per un campione. Quelli predisposti alle nostre materie ci inducono all’ottimismo pedagogico, quelli maldisposti, al pessimismo. Sull’argomento riferisco le opinioni di tre maestri.

 

Pindaro  nell’ Olimpica II chiarisce il suo pessimismo pedagogico  :" sofo;" oJ polla; eijdw;" fua'/ :-maqovnte" dev, lavbroi-pagglwssiva/ kovrake" w{" a[kranta garuveton--Dio;" pro;" o[rnica qei'on ” (vv. 86-89), saggio è chi sa molto per natura, voi due[1] addottrinati invece, intemperanti, vaghi di ciance, come corvi di fronte al divino uccello di Zeus, gracchiate parole vuote.

 

Nell’Ecuba (del 424) di Euripide la protagonista sente raccontare da Taltibio il sacrificio di Polissena e prova “una strana consolazione” per la nobiltà con la quale  la ragazza è morta, splendendo di bellezza, come un’opera d’arte, e parlando con il coraggio di un eroe: “Non è strano che, se la terra è cattiva,/ma ottiene buone condizioni dagli dèi, produce buona spiga,/mentre se è buona, ma non riceve quanto essa deve ottenere,/ dà cattivi frutti; tra gli uomini invece, sempre/il malvagio non è nient'altro che cattivo / mentre il buono è buono, né per una disgrazia/guasta la sua natura, ma rimane sempre onesto? (“oJ me;n ponhro;" oujde;n a[llo plh;n kakov",-oJ d  j ejsqlo;" ejsqlov", oujde; sumfora'" u{po-fuvsin dievfqeir j , ajlla; crhstov" ejst j ajeiv;”)/Dunque i genitori fanno la differenza o l'educazione?/Certamente anche essere educati bene, porta/ un insegnamento di onestà; e se uno l’ha imparato  bene,/ sa che cosa è turpe, avendolo appreso con il metro del bello. /Ma questi pensieri la mente li ha scagliati invano",( Ecuba, vv. 592-603).

In questa tragedia dunque prevale il pessimismo, come nell’ode di Pindaro.

 

Nelle  Supplici  ,del 422, un altro dramma di Euripide che è tutto un encomio degli Ateniesi, leggiamo invece l'espressione di un incondizionato ottimismo pedagogico, forse per il fatto che si stava preparando la pur malsicura pace di Nicia: Adrasto fa l'elogio funebre dei sette caduti nella guerra contro Tebe, poi conclude rivolgendosi direttamente a Teseo: “ Non ti stupire dopo quanto ho detto,/ Teseo, che questi abbiano avuto il coraggio di morire davanti alle torri./Infatti essere educati non ignobilmente comporta il senso dell'onore:/e ogni uomo che ha esercitato il bene/

si vergogna di diventare vile. Il coraggio è/ virtù insegnabile (hJ eujandriva-didaktovn), se è vero che il bambino impara/a dire e ad ascoltare quello di cui non ha cognizione./Ma quello che uno abbia imparato, suole conservarlo/fino alla vecchiaia. Così educate bene i vostri figli"(vv. 909-917).

 

Un’opinione diffusa, non solo ad Atene, di ottimismo pedagogico viene riportata nel Protagora di Platone.

Il sofista, personaggio eponimo del dialogo, sostiene che alcuni aspetti naturali degli uomini (piccolezza, bruttezza o debolezza, p. e.)  non si possono correggere, e dunque non suscitano irritazione e non provocano punizioni; mentre l’assenza delle qualità che derivano all’uomo dall’esercizio, provoca ire, ammonimenti e sanzioni. Ingiustizia, empietà e assenza di virtù politica vengono punite “o{ti ge oi{ ge a[nqrwpoi hjgou'ntai paraskeuasto;n ei\nai ajrethvn” (324), poiché gli uomini pensano che la virtù sia acquisibile. Si punisce per correggere e distogliere dal commettere ingiustizia: “kai; toiauvthn diavnoian e[cwn dianoei'tai paideuth;n ei\nai ajrethvn” (324b), e chi la pensa in questo modo crede che la virtù sia insegnabile. Se gli Ateniesi, come gli altri, puniscono i colpevoli di ingiustizia, ciò significa che anche loro sono tra quelli i quali considerano la virtù acquisibile e insegnabile.

Stessa posizione negli Stoici.

 

Bologna 3 gennaio 2024 ore 19, 25 giovanni ghiselli

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[1] Simonide e Bacchilide, secondo gli scoliasti

Ifigenia 182. Arrivano altri giorni tristi e tribolati.


 

Il 24 agosto andai a Pesaro dalla mamma e dalle zie. Ifigenia mi raggiunse verso la fine del mese e si fermò una settimana. Troppo tempo per le donne di casa mia  sdegnate  dal disordine della ragazza infingarda: nemmeno il proprio letto rifaceva quando andava sulla spiaggia. Anche io, nonostante il digiuno sessuale del mese di Debrecen, dopo un paio di giorni ero sazio di lei e ne avevo abbastanza. Avevamo ben poco da dirci.

Avrei preferito studiare, correre a piedi e in bicicletta da solo in quelle ultime giornate estive tanto vicine oramai all’equinozio umido che le ore di luce erano già taglieggiate quasi della metà rispetto ai giorni di giugno, i più belli dell’anno, se non piove.

Aspettavo che Ifigenia partisse lasciandomi a osservare l’estate morente impallidire nell’aria e sulla pelle di noi esseri umani destinati alla morte. Invece la noiosa mi stava appiccicata, appoggiando il suo peso inerte e gravoso sulle mie spalle, non erculee, anzi poco robuste siccome ho sempre esercitato piuttosto la lena delle gambe, del fiato e della mente che il resto.

Oltretutto quel  giorno funesto Ifigenia rivelò la sua facies furente.

Eravamo al mare a metà di un pomeriggio noioso come al solito e per giunta ventoso. “Mio dio- pensavo- che cosa ho fatto di male?”.

La spiaggia era semideserta e mortificata dalle ombre che scendevano inesorabili dagli alberghi sovrastanti e,  allungandosi sempre più verso l’acqua del mare, incupivano tutto, compreso il mio umore. Gli ombrelloni, diradati assai, e chiusi, sembravano i pochi capelli rimasti sulla testa intronata di un vecchio mal vissuto: stremato e abbattuto dagli insuccessi.

Mi venne in mente un verso di Eliot: “A dull head among windy spaces[1], una testa intronata tra spazi ventosi.   

A un tratto la donna mi propose di fare una passeggiata. Notai un ragazzo che correva. "O fortunate puer per la tua solitudine!"

Pur di muovermi dall'inerzia penosa acconsentii.

Mentre camminavamo abbracciati per scaldarci a vicenda, ifigenia mi parlava di una sua giornata del mese di luglio senza del resto interessarmi con parole dense di significato. Erano verba prive di Verbum.  Alcune di queste, però, a un tratto mi colpirono come un tuono: disse che uno dei suoi corteggiatori estivi, il più intraprendente e sfacciato, il medico biondo di cui mi aveva parlato già allora, era partito prima di me, perciò non aveva dovuto subirne le proposte insistenti e indecenti durante la mia assenza.

Un'emozione cattiva rivegliò il mio cervello assopito e l'interesse negativo per lei. Mi fermai, la guardai e dissi: "questo non può essere vero: mi hai indicato quell' insolente mentre si aggirava dietro una vetrata con l'aria di uno che spia. Era la notte della mia partenza e mi dicesti che poche ore prima gli avevi chiesto la sua camera in prestito per fare l'amore con me".

 

Rispose senza scomporsi come chi mente per abitudine e con metodo: “Hai ragione. Mi sono confusa. Del resto, se ti avessi tradita con quello, sarei stata attentissima a non sbagliarmi sul conto di lui”.

Non potei replicare poiché si lanciò a correre lungo la spiaggia. Fece qualche decina di metri, poi si fermò e si girò gesticolando per significarmi che dovevo seguirla. Mi incamminai lentamente perché non avevo voglia di andarle vicino. Ma quella rimase ferma e dovetti raggiungerla non senza disgusto. Mi fissava con occhi spalancati dalla meraviglia, come per dirmi: “che cosa aspetti? Non vedi che sono qui tutta per te, solo per te?”

Quando fui arrivato tanto vicino da udirla bisbigliare, disse: “gianni, facciamo l’amore. Ne ho tanta voglia. Ti prego, ti prego, ti prego”.

La solita lagna.

“No, qui non si può”-risposi- c’è gente, anche dei bambini. Non mi va di dare scandalo.

Ma la bugiarda, intesa solo a farmi scordare l’oltraggio, insisteva: “Ti prego, andiamo nell’acqua”.

“No, è troppo fredda”

“Allora dentro un capanno oppure imbuchiamoci sotto un moscone o un mucchio di sabbia. Non ne posso più dalla voglia”.

“Io invece non ne ho”.

“Te la faccio venire io”.

Voleva coprire la propria scelleratezza nuda con questa ostentazione frenetica e falsa di insopprimibile libido.

Mentre pensavo questo, mi lasciai cadere sulla sabbia per darle un segno di totale impotenza.

Ma quella prese il gesto sconsolato per un invito erotico e mi saltò sopra. I genitori portarono via in fretta i bambini. Ifigenia sedette pesantemente sul mio costume rivolgendo uno sguardo sfacciato verso il mio viso che aveva impresso un dolore profondo, quindi mi afferrò le spalle con entrambe le mani e si mise a scuoterle mentre canticchiava un’arietta che voleva essere allegra mentre risuonava lugubremente nell’anima mia desolata. La poveretta aspettava di essere incoraggiata con un gesto affettuoso ma io oltretutto ero troppo schiacciato e aderente alla sabbia umida per muovermi.

Dopo un paio di minuti divenne aggressiva: smise di canticchiare, iniziò a pizzicarmi le braccia, quindi a scuoterle per distogliermi, immagino, dal male che pensavo di lei.

Intanto la spiaggia sotto il monte Ardizio si stava abbuiando e si era fatta deserta.

Visto che seguitavo a non reagire, Ifigenia a un tratto si inferocì: con la mano destra prese una manciata di sabbia e me la scaglio sul viso

Tra le palpebre, le lenti a contatto, i poveri occhi e il cervello, sentivo scrosciare cascate di vetri e di cocci infuocati mentre la gola e la bocca sputavano sabbia tossendo, sputando e mugghiando.

Non come il toro di Pasife infoiato ma come la maxima victima del sacrificio rituale e culinario.

Maledetta cretina. Come potei distinguere qualcosa mi accorsi che scappava. Dopo qualche minuto la vidi sguazzare nell’acqua come una grossa oca. Saltellava poi si accovacciava, schiamazzava e dimenava le braccia. Intanto l’ombra del monte Ardizio era arrivata agli scogli antistanti la riva e tutta la spiaggia comunicava un senso di desolazione.

Quando fu uscita da quel pelago cupo mi venne vicino mentre continuavo a pulirmi la faccia sconciata da quel pugno pieno di rena.

Disse: “Mi sono tuffata nell’acqua fredda perché sbollisse il desiderio che tu non vuoi più accontentare”

Tra le lacrime cercai di guardarla e le dissi: “Vedi che guaio hai combinato? Se lo farai un’altra volta non potrai più accostarti a me”

“Vedremo” osò ancora dire.

“Sei avvisata. Intanto andiamo via di qui”.

Durante il tragitto verso il bagnino Alfredo di tanto in tanto si gettava in acqua per significarmi che poteva fare a meno di me.

A mia volta pensavo: “Speriamo che vada via presto, che si innamori di un altro, un giapponese magari, o almeno uno di Osimo”. Nel frattempo se mi darà noia farò finta di niente. Alle sue provocazioni opporrò un muto disprezzo”.

Come fummo arrivati nella zona degli alberghi, questi ombreggiavano già tutto il mare

“Come Dio vuole è autunno-pensavo. Presto ricomincia la scuola. Là dentro dovrò vederla per forza se le rinnovano la supplenza, ma poi, una volta usciti, per carità: ognuno a casa sua”.

Bologna  3 gennaio  2025  ore 18, 56 giovanni ghiselli

 

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[1] T. S. Eliot, Gerontion, 16

Simul stabunt simul cadent.

Simul stabunt simul cadent.

Cecilia Sala e l’ingegnere iraniano accusato di terrorismo stanno sui due piatti di una bilancia: è molto difficile prendersi cura di lei e recuperarla alla libertà consegnando l’uomo alla giustizia statunitense che potrebbe   volerlo morto.

Io non so che cosa abbia fatto questo iraniano che si occupa di armi. Certamente non fa opere di bene. Ma non credo che sia il solo criminale al mondo che progetta o vende o usa abominosi ordigni.

 Al di là delle chiacchiere, credo che concedere l’estradizione richiesta per quest’uomo dagli Stati Uniti significhi aggravare le restrizioni con difficoltà già non leggere imposte dal regime iraniano alla ragazza.

Credo che il nostro governo debba tutelarla evitando questa forma di rappresaglia.

Sono filoCecilia prima di tutto. 

 

Salviamo la giornalista Sala dunque.

 

Bologna 3 gennaio 2025 ore 18, 15 giovanni ghiselli

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Metodologia 73. Critica di tutti i luoghi comuni che non accrescono la vita.

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 Ogni persona deve assecondare la parte migliore del proprio carattere. Seneca. Cicerone. Dostoevskij. Sofocle e Fromm. Nietzsche. Wilde. La parabola di Kafka con il paraklausivquron anomalo. Lucio di Apuleio: redde me meo Lucio.

Ortega: l’infelicità è lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. Hesse, Márquez.  Prendere le distanze anche dai genitori: Il Vangelo di Giovanni e quello di Matteo. il Doctor Faustus di T. Mann (in nota). Stazio: Achille dice alla madre: “paruimus nimium!”. Di nuovo Fromm. Diventare se stessi prima di morire. L’Adriano della Yourcenar. Màrai. Orwell. Céline.  Guido Croci. Pindaro: “diventa quello che sei”.  Nietzsche: Amor fati, das ist meine innerste Natur. Eraclito. Döblin. Menandro: che cosa gradevole (cariven) è l’uomo, quando è uomo davvero! Vernant: l’uomo cessa di essere un’entità gradevole quando non assomiglia (ajeikhv~) a se stesso.

 

 Dopo tante considerazioni sui tovpoi, mi sento in dovere di mettere in guardia i giovani contro i luoghi comuni, letterari e non, se essi non  accrescono la vita. Autorizzo questa mia conclusione attraverso Seneca:"nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De vita beata , 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il "si dice".

Sentiamo ancora Seneca che traduce Epicuro: “si ad naturam vives, numquam eris pauper; si ad opiniones, numquam eris dives” (ep. 16, 7), se vivrai secondo la natura, non sarai mai povero, se secondo i luoghi comuni, non sarai mai ricco.

 

Sentiamo anche O. Wilde: “La morale moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni della nostra epoca, ed io credo che per un uomo colto l’accettare i luoghi comuni della propria epoca sia la più rozza forma di immoralità[1].

 

Questi che presnto sono tovpoi assai nobili, di vario genere, e tra essi è possibile fare delle scelte, cercando sempre di  vivere "ad rationem ", ragionando, piuttosto che "ad similitudinem " imitando. Nel ragionamento deve entrare la considerazione del carattere di ogni individuo, del proprio innanzitutto. Quindi non possiamo ignorare che ogni persona ha un suo genio e che nessuno può riuscire bene se agisce in contrasto con il proprio demone:"nihil decet invita Minerva, ut aiunt, id est adversante et repugnante natura"[2], nulla si addice contro il volere di Minerva, come dicono, cioè con l'opposizione e la riluttanza della natura. Quindi ciascun giovane dovrebbe essere aiutato a trovare e valorizzare la propria natura originale:"id enim maxime quemque decet, quod est cuiusque maxime suum"[3], a ciascuno infatti soprattutto si addice quello che è soprattutto suo.

 

“Ma ecco, non bisogna essere come gli altri”. suggerisce Alioscia Karamazov allo studente Kolia[4]. “Continuate, dunque, a essere diverso dagli altri;  anche se doveste rimanere solo, continuate lo stesso”[5]. L'uomo formato sui classici non può accontentarsi di un'identità gregaria.

 

Facciamo un esempio: Creonte domanda ad Antigone:"E tu non ti vergogni se la pensi in maniera diversa da questi?", e la ragazza risponde: “No perché non è per niente vergognoso onorare quelli nati dalle stesse viscere”[6].

 La propaganda di ogni tirannide tende a inculcare la necessità del conformismo. Creonte sa che i più sono capaci soltanto di un'identità gregaria basata su un sentimento di appartenenza alla massa. Ma la figlia di Edipo è di altra stoffa, e, ben lontana dal vergognarsi, è fiera della propria diversità. Per lei anzi è inconcepibile che ci sia gente pronta "a rinunciare alla libertà, a far sacrificio del proprio pensiero, per essere uno del gregge, per conformarsi e ottenere così un sentimento di identità, benché illusorio"[7].

 "Della nostra esistenza dobbiamo rispondere a noi stessi, di conseguenza vogliamo agire come i reali timonieri di essa e non permettere che assomigli ad una casualità priva di pensiero…E' così provinciale obbligarsi a delle opinioni che, qualche centinaio di metri più in là già cessano di obbligare…Al mondo vi è un'unica via che nessuno oltre a te può fare: dove porta? Non domandare, seguila"[8].

“Quanto poi alla vita rovinata, credetemi, una vita è rovinata in quanto ne è arrestato lo sviluppo”[9].

“Il gregge avverte l’eccezione, tanto al di sopra di sé quanto al di sotto di sé, come qualcosa che ha per esso riflessi ostili e dannosi…La diffidenza è rivolta contro le eccezioni; essere eccezione è ritenuto una colpa”[10].

Essere se stessi dunque è difficile, persino pericoloso, ma non diventare quello che si è significa non vivere la propria vita, bensì quella degli altri: “Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem, pergentes non quo eundum est sed quo itur[11], niente allora dobbiamo fare con cura maggiore che evitare di seguire il gregge di coloro i quali ci stanno davanti, alla maniera delle bestie, dirigendoci non dove dobbiamo andare ma dove si va. 

 

Nel Processo  di Kafka[12] c’è una parabola con un paraklausivquron anomalo, quasi rovesciato: si tratta  infatti di un'attesa ansiosa e querula davanti a una porta aperta, quella della legge, aperta proprio per colui che attende ma non ha  il coraggio di entrare.

 E' la parabola che il cappellano delle carceri  racconta a K. nel Duomo :"Davanti alla legge c'è un guardiano. A lui viene un uomo di campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano dice che ora non gli può concedere di entrare. L'uomo riflette e chiede se almeno potrà entrare più tardi. "Può darsi" risponde il guardiano, "ma per ora no". Siccome la porta che conduce alla legge è aperta come sempre e il custode si fa da parte, l'uomo si china per dare un'occhiata, dalla porta, nell'interno. Quando se ne accorge, il guardiano si mette a ridere:"Se ne hai tanta voglia, prova pure a entrare nonostante la mia proibizione. Bada, però: io sono potente, e sono soltanto l'infimo dei guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardiano, uno più potente dell'altro. Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno io". L'uomo di campagna non aspettava tali difficoltà; la legge, pensa, dovrebbe pur essere accessibile a tutti e sempre, ma a guardar bene il guardiano avvolto nel cappotto di pelliccia, il suo lungo naso a punta, la lunga barba tartara, nera e rada, decide di attendere piuttosto finché non abbia ottenuto il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni. Fa numerosi tentativi per passare e stanca il guardiano con le sue richieste. Il guardiano istituisce più volte brevi interrogatori, gli chiede notizie della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande prive di interesse come le fanno i gran signori, e alla fine gli ripete sempre che non può farlo entrare. L'uomo, che per il viaggio si è provveduto di molte cose, dà fondo a tutto per quanto prezioso sia, tentando di corrompere il guardiano. Questi accetta ogni cosa, ma osserva:"Lo accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa". Durante tutti quegli anni l'uomo osserva il guardiano quasi senza interruzione. Dimentica gli altri guardiani e solo il primo gli sembra l'unico ostacolo all'ingresso nella legge. Egli maledice il caso disgraziato, nei primi anni ad alta voce, poi quando invecchia si limita a brontolare tra sé. Rimbambisce e, siccome studiando per anni il guardiano, conosce ormai anche le pulci nel suo  bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell'oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. Ormai non vive più a lungo. Prima di morire, tutte le esperienze di quel tempo si condensano nella sua testa in una domanda che finora non ha rivolto al guardiano. Gli fa un cenno poiché non può più ergere il corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano è costretto a piegarsi profondamente verso di lui, poiché la differenza di statura è mutata molto a sfavore dell'uomo di campagna. "Che cosa vuoi sapere ancora?" chiede il guardiano, "sei insaziabile". L'uomo risponde:"Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?". Il guardiano si rende conto che l'uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che stanno per diventare insensibili, grida:"Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo"[13].

 "Nella natura nessuna creatura è più squallida e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e adesso sbircia a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Alla fine non è più lecito attaccare un tal uomo, perché egli è tutto esteriorità senza nocciolo, una veste logora, tinta, rigonfia, uno spettro agghindato, che non può suscitare paura e certo neppure compassione"[14].

Cfr. il mito di Er in 16. 8.

Nell’ultimo libro dell’Asino d’oro di Apuleio, Lucio prega la Regina del cielo, la luna che gli è apparsa con uno straordinario splendore sulla riva del mare, vicino a Corinto, e le chiede la fine delle fatiche e dei pericolo corsi nella sua vita asinina, una vita senza Iside: “sit satis laborum, sit satis periculorum”. Quindi la prega di restituirlo alla forma umana, ai suoi affetti e, dopo tutto a se stesso, al Lucio che è:” Depelle quadripedis diram faciem, redde me conspectui meorum, redde me meo Lucio” (XI, 2), stacca da me l’orribile aspetto di quadrupede, rendimi alla vista dei miei, rendimi al Lucio che sono.  

"Qui, proprio qui, sta l'origine dell'infelicità…Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"[15].

"Molti provavano, per un istante, una penosa tristezza perché tra la loro vita e i loro istinti c'era un tale dissidio, un tal conflitto che la loro vita non era affatto una danza, bensì un faticoso e affannato respirare sotto i pesi: pesi che in fin dei conti essi stessi si erano accollati"[16].

"Di tutte le offese, quelle arrecate alla mia vocazione-quando ho mancato di rispondere con passione all'immagine del cuore-sono le più dolorose. Con i suoi attacchi implacabili, la contrizione denuncia le insufficienze del cuore"[17].

"Florentino Ariza…l'aveva convinta che uno viene al mondo con le sue polveri contate, e quelle che non vengono usate per qualsiasi motivo, proprio o estraneo, si perdono per sempre"[18].

Per diventare se stessi è necessario prendere le distanze anche dai genitori: lo insegna il Vangelo di Giovanni nel quale il Cristo dice alla madre: " tiv ejmoi; kai; soiv, guvnai; -Quid mihi et tibi mulier? " [19] (2, 4), che cosa ho da fare con te, donna?

Ancora più esplicito è il Cristo nel Vangelo di Matteo: “non veni pacem mittere sed gladium. Veni enim separare

Hominem adversus patrem suum

Et filiam adversus matrem suam” (10, 34-35), non sono venuto a portare pace ma una spada. Sono venuto infatti a separare l’uomo dal padre suo e la figlia dalla madre.

 

Nell’Achilleide di Stazio il giovanissimo Pelide deve ribellarsi alla madre, che ne aveva fatto un travestito, per recarsi alla guerra di Troia: “Paruimus, genetrix, quamquam haud toleranda iuberes,/paruimus nimium: bella ad Troiana ratesque/Argolicas quaesitus eo” (II, 17-19), ho obbedito, madre, sebbene tu ordinassi cose non tollerabili, ti ho obbedito troppo: vado alla guerra di Troia sulle navi dei Greci che mi hanno cercato. 

Si ricordi[20] quanto afferma Esiodo dei bambini ritardati, potenzialmente violenti, che vivevano fino a cento anni con la madre.

 

Sentiamo di nuovo Fromm: " Rimanendo legato alla natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce quindi a sentirsi a suo agio nel mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe diventare un adulto"[21].

 

"La capacità d'amare dipende dalla propria capacità di emergere dal narcisismo e dall'attaccamento incestuoso per la propria madre e il proprio clan; dipende dalla propria capacità di crescere, di sviluppare un orientamento produttivo nei rapporti col mondo e se stessi"[22].

 

 

"E' forse questo che si cerca attraverso la vita, null'altro che quello, la più grande sofferenza possibile per diventare se stessi prima di morire"[23].

Per questo l'Adriano della Yourcenar ha conquistato il potere sul mondo:"Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire…Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso"[24].

 

Altrettanto l’imperatore Giuliano nella commedia di Ibsen: “E che cos’è la felicità se non il vivere in conformità a se stesso? L’aquila chiede forse delle penne d’oro? Il leone ambisce avere artigli d’argento? O forse il melograno desidera che i suoi chicchi siano altrettante pietre preziose?”[25]. 

 

Diventare quello che si è costituisce una forma particolare di virtù: “esiste una virtù particolare, che altro non è se non la fedeltà assoluta alla nostra natura, al nostro destino e alle nostre inclinazioni”[26].

 

“ Gli esseri umani non sono, nella loro gran maggioranza, così fortemente egoisti.  Pressappoco all’età di trent’anni  abbandonano le ambizioni personali- in molti casi abbandonano addirittura il senso di possedere un’esistenza individuale- e vivono principalmente per gli altri, oppure sono semplicemente schiacciati dalla dura routine del lavoro quotidiano. Ma esiste anche una minoranza di persone dotate, caparbie e ben decise a vivere la propria vita fino in fondo: gli scrittori appartengono a questa categoria[27].

 

 

 “Ed ecco apparire la cosa più sorprendente del dramma vitale: l’uomo possiede un ampio margine di libertà rispetto al suo io o destino. Può rifiutarsi di realizzarlo, può essere infedele a se stesso. In questo caso la sua vita è priva di autenticità…il nostro io è la nostra vocazione. Ebbene, possiamo essere più o meno fedeli alla nostra vocazione e di conseguenza la nostra vita può essere più o meno autentica…La cosa di maggior interesse non è la lotta dell’uomo con il mondo, con il suo destino esterno, ma la lotta dell’uomo con la sua vocazione. Come si comporta davanti alla sua inesorabile vocazione? Si attiene radicalmente ad essa, oppure, al contrario, la diserta e riempie la sua esistenza con un surrogato di ciò che sarebbe la sua autentica vita? Forse l’aspetto più tragico della condizione umana è che l’uomo può cercare di soppiantare se stesso, cioè di falsificare la sua vita[28].

 

“Lo scopo della vita è lo sviluppo del proprio io. Il completo sviluppo di se stessi-ecco la ragion d’essere di ognuno di noi. Gli uomini oggi hanno paura di se stessi”[29].

 

 Insomma, ripeto con  Pindaro: “gevnoio oi|o~   ejssiv” (Pitica II  v. 72), diventa quello che sei.

Aggiungo una variante, considerando che cercare la propria realizzazione significa amare il compimento, la perfezione del proprio destino, il quale, per stravagante che sia, è una piccola parte del fato universale: “amor fati è la mia intima natura”[30] , das ist  meine innerste Natur.

Del resto ogni persona secondo Nietzsche coincide con il suo destino: "Il fatalismo turco contiene l'errore fondamentale di contrapporre fra loro l'uomo e il fato come due cose separate…In verità ogni uomo è egli stesso una parte di fato…Tu stesso, povero uomo pauroso, sei la Moira incoercibile che troneggia anche sugli dèi"[31]. Cfr. h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn[32] di Eraclito.

 

E' tanto tipicamente ellenico questo "amore del fato" che nel romanzo espressionista Berlin Alexanderplatz  di Alfred Döblin leggiamo:" Non si deve fare il grande con la propria sorte. Io sono nemico del fato. Non sono greco io; sono berlinese"[33].

 

 Possiamo concludere il capitolo con questo frammento di Menandro: "wJ" cariven e[st  j a[nqrwpo",  a]n a[nqrwpo" h/\” (fr. 484 Kö) "che cosa gradevole è l'uomo quando è uomo davvero!".

Quando è che l’uomo smette di essere una cosa gradevole? Quando non assomiglia a se stesso. Sconcio, scoveniente in greco si dice ajeikhv~, ossia non eijkov~, oggetto neutro non somigliante, non somigliante a se stesso.

 

"Quando è privo di ogni charis , l'essere umano non assomiglia più a nulla: è aeikelios . Quando ne risplende, è simile agli dei, theoisi eoikei . La somiglianza con se stessi, che costituisce l'identità di ciascuno e si manifesta nell'apparenza che ognuno ha agli occhi di tutti, non è dunque presso i mortali una costante, fissata una volta per tutte….Oltraggiare-cioè imbruttire e disonorare a un tempo-si dice aeikizein , rendere aeikes  o aeikelios , non simile"[34].

Il potere incentiva questa deformità che è la difformità della persona da se stessa: “Su che cosa, in fondo, si basa la repressione? Sul falso concetto che l’individuo ha di se stesso, e quindi sul falso concetto che si fa dei propri desideri: della propria libido, dei propri bisogni erotici, dell’amore che gli potrebbe spettare di diritto. La società sfrutta questo misconoscimento di sé, e si adopera con efficacia a confermare l’individuo in questa sua sbagliata concezione dell’amore”[35]. E di se stesso.

 

Bologna 3 gennaio 2024 ore 11, 41 giovanni ghiselli

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[1] Il ritratto di Dorian Gray, p. 88.

[2] Cicerone, De officiis, I, 110.

[3] Cicerone, De officiis, I, 113.

[4] Quello che rifiutava i classici. Evidentemente glieli facevano male.

[5] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. 668.  Ho citato questo romanzo almeno dieci volte, tante quante l’Odissea, o quasi. Mi conforta in questa scelta l’amico Piero Boitani: “Per il mio compleanno, sul finire di quell’anno 1’anno 1968…mi feci regalare da una coppia di amici l’Odissea greca nell’edizione oxoniense dell’Allen: la conservo ancora, naturalmente, con il loro biglietto di auguri per segnalibro. Da allora, e per almeno dieci anni, ho riletto il poema, nell’originale e in traduzione italiana o inglese, ogni anno: insieme ai Fratelli Karamazov, era il mio libro-e lo è rimasto” (P. Boitani, L’ombra di Ulisse, p. 45).

[6] Sofocle, Antigone, vv. 510-511).

[7]E. Fromm, Psicanalisi della società contemporanea , p. 68.

[8] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III (1874), Schopenhauer come educatore, p  167.

[9] O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, p. 59.

[10] F. Nietzsche, Scelta di frammenti postumi 1887-1888, p. 295.

[11] Seneca, De vita beata, 1, 3.

[12] 1883-1924.

[13]F. Kafka, Il processo  (1914-1915) , IX capitolo,  pp. 220-221.

[14] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, p. 166.

[15] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 42.

[16] H. Hesse, Klein e Wagner, p. 126.

[17] Hillman,  La forza del carattere, p. 183

[18] G. G. Márquez, L’amore ai tempi del colera, p. 162.

[19] T. Mann commenta queste parole, da par suo, nel Doctor Faustus:"In fondo, per una madre, il volo di Icaro del figlio eroe, la sublime avventura virile dell'uomo che non è più sotto la sua protezione è un'aberrazione tanto colpevole quanto incomprensibile, donde ella sente risuonare, con segreta mortificazione, le parole lontane e severe: "Donna, io non ti conosco". E così ella riprende nel suo grembo la povera, cara creatura caduta e annientata, tutto perdonando e pensando che questa avrebbe fatto meglio a non staccarsene mai" (p.691).

[20] Cap. 58.

[21]E. Fromm, La rivoluzione della speranza , p. 80.

[22]E. Fromm, L'arte d'amare , p. 153.

[23] L. F. Céline, Viaggio al termine della notte, p. 249.

[24] M. Yourcenar, Memorie di Adriano, p. 84.

[25] L’imperatore Giuliano, Atto III, quadro primo.

[26] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 97.

[27] G. orwell, Perché scrivo, “Gangrel”, n. 4, estate 1946, in Romanzi e Saggi, I Meridiani, p. 1288.

[28] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 198 e p  199.

[29] G. Croci, Un gatto rosso mattone, p. 149.

[30] F. Nietzsche, Ecce homo, p. 92.

[31]Nietzsche, Umano troppo umano , vol. II, pp. 155-156..

[32] Fr. 91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo).

 

[33] Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz , p. 63.

[34]J. P. Vernant, Tra mito e politica , pp. 210-211.

[35] P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1472.