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martedì 3 luglio 2012

Il male nella politica, nello Stato, nei servizi segreti - di Giovanni Ghiselli




Parto da una elegia di Solone[1] : Eujnomivh, il Buon Governo.

Questo mostra ogni cosa ordinata e armonizzata, fa chiarezza, raddrizza i giudizi tortuosi e fa cessare la discordia. In altri termini, non ammette disuguaglianze eccessive, elimina il torbido dove pescano i farabutti, pone leggi uguali per tutti, impone imparzialità nell’applicarle, incoraggia la solidarietà e l’armonia tra i cittadini.
Il Malgoverno (dusnomivh) c’è quando i capi del popolo rubano (klevptousi, v. 12) e non rispettano la giustizia. Allora i cittadini ubbidiscono alle ricchezze e vogliono distruggere la polis, la comunità.

Pasolini  sosteneva che la cultura borghese aveva eliminato quella popolare. Dunque il cattivo esempio dei capi è la radice del male. Già Omero nel XIX canto dell’Odissea aveva indicato questa connessione organica tra il capo e la sua terra: "Raggiunge l'ampio cielo la tua fama,/come quella di un re irreprensibile che pio, regnando su molti uomini forti,/tenga alta la giustizia; allora la nera terra produce/grano e orzo, gli alberi si appesantiscono di frutti,/figliano continuamente le greggi e il mare offre i pesci,/per il suo buon governo (ejx euhgesivh"), insomma prosperano le genti sotto di lui" (vv. 108-114).Parla Odisseo rivolto a Penelope prima di essere riconosciuto.

L'altro lato della stessa concezione secondo la quale il bene e il male di un solo uomo ridondano in favore e in danno di un  popolo intero, per il principio della responsabilità collettiva, lo troviamo  in Esiodo (Opere, vv.240-244): “spesso anche un'intera città soffre per un uomo malvagio,/uno che si rende colpevole e architetta scelleratezze./Su di loro dal cielo il Cronide fa piombare grandi malanni,/fame e peste insieme, e le genti vanno in rovina,/le donne non fanno figli e le case diminuiscono".
Tale idea del resto non manca nella letteratura italiana là dove si conserva il succo della tradizione classica, anche quando questo sia stato assimilato da un organismo cristiano. Faccio l'esempio di Dante, Purgatorio XVI, 103-105: “Ben puoi veder che la mala condotta/è la cagion che il mondo ha fatto reo/e non natura che in voi sia corrotta". E’ Marco Lombardo che parla.

Ma torniamo a Solone che mette il luce il ruolo dell’avidità di ricchezze nella corruzione del buon governo e della buona polis. Il legislatore ateniese non era stato preso da vertigine quando lo straricco re di Lidia, Creso, gli aveva pacchianamente esibito le sue immense ricchezze. Anzi, aveva detto “Ai Greci, o re dei Lidi, il dio ha dato di essere misurati (metrivw" e[cein)  in tutto, e, per questa misuratezza (uJpo metriovthto") ci tocca una saggezza non arrogante ma popolare, non regale né splendida” (Plutarco, Vita, 27). Lì per lì Creso non comprese, ma poi, una volta finito sul rogo, gridò tre volte "Oh Solone", poiché aveva capito che la sua felicità era stata solo parola e opinione, fama e parvenza. Solone ridusse il peso dei debiti per i quali i cittadini poveri cadevano addirittura nella schiavitù. In effetti le enormi e mostruose disuguaglianze economiche annientano democrazia e libertà. 

Leopardi nello Zibaldone (123) sostiene addirittura che dove non c’è uguaglianza non c’è vera libertà. Un altro strumento di oppressione che inficia la libertà e la democrazia è l’ignoranza.
Preziosissima libertà che la democrazia dovrebbe garantire è la parrhsiva, libertà di parola. Euripide nello Ione fa dire al protagonista che la persona priva di parrhsiva ha schiava la bocca (tov ge stoma- dou`lon, vv. 674-675). Ebbene, perché il diritto di parrhsiva sia effettivo, il popolo deve saper parlare. Se viene rimbecillito a tutte le ore dalle menzogne della pubblicità, dagli slogan ingannevoli di mille propagande, perde la coscienza del valore vero (e[tumo~) delle parole e smarrisce il giudizio critico, la capacità di criticare (krivnein). Senza contare che, come scrive Platone nel Fedone (115e), parlare male fa male all’anima. Se i cittadini non sanno parlare, muore la politica.
La fine della politica è la morte della stessa polis democratica, della comunità sentita come tale dai cittadini.
Platone nel Protagora racconta che Prometeo, l’inventore della tecnologia, il supertecnico del mito, aveva dato agli uomini ogni sapere tecnico appunto, ma non la politikh; tevcnh (322b), non l’arte politica. Quindi gli uomini commettevano ingiustizie reciproche, poiché, se manca l’arte politica, scompaiono aijdwv~, rispetto, e divkh, giustizia sui quali la politikh; tevcnh si fonda. Senza questi valori vengono meno gli ordinamenti stessi della polis. Nel Politico, Platone fa dire allo straniero di Elea che arte politica regia è il prendersi cura (ejpimevleia) dell’intera comunità e non solo in termini economico-nutritivi. Infatti occuparsi degli uomini conducendoli al pascolo come si fa con gli animali non è politikh; tevcnh ma qreptikh; tevcnh (276b) tecnica dell’allevamento.
E’ la tecnica praticata da Pericle e prima di lui da Cimone e Temistocle,  i capi politici che hanno reso Atene non grande ma gonfia e purulenta, in quanto l’hanno ingrossata con porti, arsenali e contributi, ma hanno trascurato temperanza (swfrosuvnh) e giustizia (dikaiosuvnh) Lo afferma Socrate nel Gorgia (519a). Corrisponde allo sviluppo senza progresso degli Scritti corsari di Pasolini.

I regimi possibili secondo una teoria già in nuce nel dibattito costituzionale di Erodoto (III, 79 ss.), poi sviluppata in Platone, Aristotele e, metodicamente in Polibio, sono soggetti a mutamenti periodici. Lo storiografo di Megalopoli chiama ajnakuvklwsi~ (Storie, VI, 9, 10), questo ciclo, una specie di  orbis o “eterno ritorno” delle costituzioni. Si parte dalla monarchia-regno che degenera in tirannide, poi si passa alla aristocrazia che degenera in oligarchia, quindi alla democrazia che cade nell’oclocrazia. Poi c’è il caos e si ricomincia. Le forme cattive sono caratterizzate da u{bri~, prepotenza; le buone dall’ordine e dal consenso dei cittadini.
Pessima tra tutte è la tirannide. In Erodoto il tiranno (Trasibulo di Mileto, Periandro di Corinto) taglia le teste eminenti, e così fa pure Tarquinio il Superbo in Tito Livio. Una scappatoia è quella di Bruto, il falso scocco che si finge scemo appunto incarnando l’ossimoro. Il tiranno dunque è un sanguinario. Secondo Platone è anche un individuo incline all’erotismo, all’alcolismo e alla depressione (Repubblica 579e) ed è di animo sostanzialmente servile (579e).
L’antitiranno è il nobile persiano Otane di Erodoto che propugna la democrazia e non vuole partecipare alla gara per diventare re, in quanto, dice: “ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw” (Storie III, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato[2].
Il mouvnarco" raffigurato da Otane, nel dibattito sulla migliore costituzione (III 79-84), è un vero e proprio tiranno: è infatti un individuo che invidia i migliori, si compiace dei peggiori, ed è pronto ad accogliere le calunnie. Dalle ricchezze che possiede gli deriva l'u{bri", mentre fin dall'origine gli è innato lo fqovno". Siccome ha questi due vizi, e[cei pa'san kakovthta, detiene ogni malvagità (III, 80, 4). Dunque egli: "novmaiav te kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III, 80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio. "Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per l'opposizione alla tirannide"[3]. 

Questo per quanto riguarda la storiografia.
Nella tragedia il tiranno è il paradigma mitico del pessimo capo.
Nei Persiani di Eschilo, il grande re di Persia, Serse sonoramente sconfitto a Salamina, non perderà il potere in quanto "oujc uJpeuvquno" povlei" (v. 213), non è tenuto a rendere conto alla città. Nell’Edipo re di Sofocle, il tiranno è figlio della u{bri~: "la prepotenza fa crescere il tiranno, la prepotenza/se si è riempita invano di molti orpelli/che non sono opportuni e non convengono/salita su fastigi altissimi/precipita nella necessità scoscesa/dove non si avvale di valido piede" e[nq j ouj podi ; crhsivmw/-crh'tai (vv. 873-879). La tirannide è una monarchia claudicante: Edipo ha i piedi gonfi, Periandro era nipote di Labda, una Bacchiade zoppa, e Riccardo III di Shakespeare si presenta dicendo di essere: "so lamely and unfashionable/That dogs bark at me, as I halt by them" (I, 1), così claudicante e goffo che i cani mi latrano contro quando gli passo vicino arrancando.
Il tiranno infetta la terra e pure il cielo: “Fecimus coelum nocens”, dice l’Oedipus di Seneca (v. 36). Riccardo viene chiamato da Lady Anna diffus’d infection (I, 2), infezione diffusa: un’infezione che contagia il suo popolo e la sua terra: un cittadino dice che il Duca di Gloucester è pericolosissimo come i figli e i fratelli della regina e se costoro non governassero ma fossero governati "this sickly land might solace as before" (II, 3), questa terra malata potrebbe avere ristoro come prima. 
Nelle Supplici di Euripide, Teseo  afferma che il tiranno è l'entità più ostile alla polis: "oujde;n turavnnou dusmenevsteron povlei" (v. 429). Egli infatti uccide i migliori, quelli dei quali considera la capacità di pensare, in quanto teme per il suo potere: "kai; tou;" ajrivstou" ou{" a]n hJgh'tai fronei'n-kteivnei, dedoikw;" th'" turannivdo" pevri" (vv. 444-445). Sicché la città si indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno miete i giovani come da un campo di primavera si porta via la spiga a colpi di falce? (vv. 447-449). Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo vane le fatiche di chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli. Per non parlare delle figlie che l'autocrate vuole rendere strumenti del suo piacere.
L'Elettra di Euripide recitando il biasimo funebre di Egisto allude, con pudica e verginale aposiopesi, alle porcherie che l'usurpatore faceva con le donne: "ta; d j eij" gunai'ka", parqevnw/ ga;r ouj kalo;n-levgein, siwpw'" (Elettra, vv. 945-946).

Tiranno può essere un individuo piùo meno malato, come Periandro, o Creonte di Tebe, o Riccardo III o Macbeth, ma può essere anche una massa turbolenta (o[clo~) che non rispetta la legge. Per esempio i teppisti degli stadi.
Nelle Elleniche di Senofonte la folla furente esige con grida e ottiene la condanna a morte sommaria degli strateghi delle Arginuse (405 a.C.). La massa degli Ateniesi, nei quali era stato inoculato l'odio per gli strateghi e il desiderio dei capri espiatori, gridava che era grave se qualcuno non permetteva al popolo di fare quanto voleva ("to; de; plh'qo" ejbova deino;n ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to;n dh'mon pravttein o{ a]n bouvlhtai", Elleniche I, 7, 12). E' la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i generali delle Arginuse, è la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione  della democrazia (VI, 4, 4: "quando il popolo è padrone di fare quello che vuole").[4]
Dunque “non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più, questo bisogna chiamare democrazia" (VI, 4).
La tirannide, anche allora, poteva essere quella del mercato e della pubblicità. Negli Acarnesi di Aristofane (del 425 a. C.), il protagonista Diceopoli viene tormentato dalla iterazione dell’imperativo privw[5] (v. 35), compra, un ordine che lo dilania.

Il male dello Stato c’è quando la legge non è uguale per tutti e i tribunali non sono imparziali e si creano via via degli idoli, polemici in un clima di caccia alle streghe, o si mettono sugli altari eroi e santi più o meno falsi, per creare confusione. Aristofane satireggia tale torbidume nella sue commedie. Nelle Vespe vengono ridicolizzati i giudici parziali come il vecchio Filocleone; nei Cavalieri (424 a.C.) di Aristofane Cleone-Paflagone è chiamato “borborotavraxi” (v. 307), il mescola-fango; egli si comporta come i pescatori di anguille, i quali le acchiappano, solo se mettono sottosopra il fango: “kai; su; lambavnei", h]n th;n povlin taravtth/" (v. 867), anche tu arraffi, se scompigli la città,  gli fa il salsicciaio.
Nelle Anime morte di Gogol’ (1842) un farabutto suggerisce di confondere le idee per rendere impossibile il compito di fare giustizia: “Confondere, confondere: e nient’altro…introdurre nel caso nuovi elementi estranei, che coinvolgano altri, complicare e nient’altro. E che si raccapezzi pure il funzionario pietroburghese incaricato. Che si raccapezzi… Mi creda, appena la situazione diventa critica, la prima cosa è confondere. Si può confondere, aggrovigliare tutto così bene che nessuno ci capirà nulla” (p. 375).
Ancora a proposito di confusione, C. Marx, commenta Shakespeare[6] scrivendo che nel denaro il grande drammaturgo inglese rileva: "la divinità visibile, la trasformazione di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l'universale rovesciamento delle cose"[7].

Utile al potere tirannico o demagogico è anche un clima di paura che limita la socializzazione delle persone, la loro libertà di parola, il loro spirito critico. Il tiranno è circondato da un alone di paura. Egli ha paura e fa paura. Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell'Oedipus di Seneca: "Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit" (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute.
Il potere buono è quello razionale e morale, ossia esercitato al servizio dei sudditi: nelle Epistole a Lucilio Seneca, il maestro di Nerone già ripudiato dal discepolo imperiale, ricorda che nell'età dell'oro governare era compiere un dovere non esercitare un potere assoluto: "Officium erat imperare, non regnum" (90, 5).
Luogo simile in I Promessi sposi: "Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle" (cap. XXII).
Concetto analogo si trova in Psicanalisi della società contemporanea di E. Fromm: "Il capo non è soltanto la persona tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche l'uomo che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li serve. Obbedire a un cosidetto capo senza queste qualità sarebbe una viltà" (p. 299).
Infine il male nei servizi segreti. Dirò una cosa generica poiché dei servizi segreti non conosco gli arcana… Male è ciò che danneggia la vita, bene tutto quanto la favorisce e la aiuta. I servizi segreti dunque sono una cosa buona se servono a tutelare le vite di noi tutti. Se invece le distruggono o anche solo le minacciano, le offendono, le umiliano, vanno soppressi. Tutte le entità distruttive a partire dalle guerre, dovrebbero diventare tabù per la nostra razza umana.

Bologna 3 luglio 2012
Giovanni Ghiselli
g.ghiselli@tin.it

Discorso di 10 minuti. Piazza Verdi, 6 luglio 2012 con Paolo Bolognesi, Walter Vitali, Loriano Machiavelli.

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[1] Nel  594a. C. Solone fu nominato arconte (a[rcwn) con l'incarico di pacificatore e legislatore (diallakthv" kai; nomoqevth")
[2] Diodoro Siculo  racconta una cosa del genere a proposito degli Indiani: essi hanno una bella usanza introdotto dai filosofi: non ci sono schiavi e rispettano in tutti l’uguaglianza: “tou;~ ga;r maqovnta~ mhvq j uJperevcein mhvq j uJpopivptein a[lloi~  kravtiston e{xein bivon pro;~ aJpavsa~ ta;~ peristavsei~” (Biblioteca storica, 2, 39, 5), poiché quelli che hanno imparato a non prevalere e a non sottomettersi ad altri avranno una vita migliore in tutte le circostanze. Diodoro Siculo racconta una cosa del genere a proposito degli Indiani: essi hanno una bella usanza introdotto dai filosofi: non ci sono schiavi e rispettano in tutti l’uguaglianza: “tou;~ ga;r maqovnta~ mhvq  j uJperevcein mhvq  j uJpopivptein a[lloi~  kravtiston e{xein bivon pro;~ aJpavsa~ ta;~ peristavsei~” (Biblioteca storica, 2, 39, 5), poiché quelli che hanno imparato a non prevalere e a non sottomettersi ad altri avranno una vita migliore in tutte le circostanze.
[3] C. M. Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca, p. 170.
[4] Canfora, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica, Volume I, Tomo II, p. 835.
[5] Da privami, compro.
[6] Il quale nel Timone d'Atene chiama l'oro "comune bagascia del genere umano"; l'universale mezzana che "profuma e imbalsama come un dì di Aprile quello che un ospedale di ulcerosi respingerebbe con nausea" (IV, 3) 
[7] Manoscritti economico-filosofici del 1844, p.154.