Parto da una elegia di Solone[1] : Eujnomivh, il Buon Governo.
Questo mostra ogni cosa ordinata e
armonizzata, fa chiarezza, raddrizza i giudizi tortuosi e fa cessare la discordia.
In altri termini, non ammette disuguaglianze eccessive, elimina il torbido dove
pescano i farabutti, pone leggi uguali per tutti, impone imparzialità
nell’applicarle, incoraggia la solidarietà e l’armonia tra i cittadini.
Il Malgoverno (dusnomivh)
c’è quando i capi del popolo rubano (klevptousi, v. 12) e non rispettano la
giustizia. Allora i cittadini ubbidiscono alle ricchezze e vogliono distruggere
la polis, la comunità.
Pasolini
sosteneva che la cultura borghese aveva eliminato quella popolare.
Dunque il cattivo esempio dei capi è la radice del male. Già Omero nel XIX
canto dell’Odissea aveva indicato questa connessione organica tra il capo e la
sua terra: "Raggiunge l'ampio cielo la tua fama,/come quella di un re
irreprensibile che pio, regnando su molti uomini forti,/tenga alta la giustizia;
allora la nera terra produce/grano e orzo, gli alberi si appesantiscono di
frutti,/figliano continuamente le greggi e il mare offre i pesci,/per il suo
buon governo (ejx euhgesivh"), insomma prosperano le genti sotto di
lui" (vv. 108-114).Parla Odisseo rivolto a Penelope prima di
essere riconosciuto.
L'altro lato della stessa concezione
secondo la quale il bene e il male di un solo uomo ridondano in favore e in
danno di un popolo intero, per il
principio della responsabilità collettiva, lo troviamo in Esiodo (Opere, vv.240-244): “spesso anche un'intera
città soffre per un uomo malvagio,/uno che si rende colpevole e architetta
scelleratezze./Su di loro dal cielo il Cronide fa piombare grandi malanni,/fame
e peste insieme, e le genti vanno in rovina,/le donne non fanno figli e le case
diminuiscono".
Tale idea del resto non manca nella
letteratura italiana là dove si conserva il succo della tradizione classica,
anche quando questo sia stato assimilato da un organismo cristiano. Faccio
l'esempio di Dante, Purgatorio XVI, 103-105: “Ben puoi veder che la mala
condotta/è la cagion che il mondo ha fatto reo/e non natura che in voi sia corrotta".
E’ Marco Lombardo che parla.
Ma torniamo a Solone che mette il luce il
ruolo dell’avidità di ricchezze nella corruzione del buon governo e della buona
polis. Il legislatore ateniese non era stato preso da vertigine quando lo
straricco re di Lidia, Creso, gli aveva pacchianamente esibito le sue immense
ricchezze. Anzi, aveva detto “Ai Greci, o re dei Lidi, il dio ha dato di essere
misurati (metrivw" e[cein) in tutto, e, per questa misuratezza (uJpo metriovthto") ci tocca una saggezza non arrogante ma popolare,
non regale né splendida” (Plutarco, Vita, 27). Lì per lì Creso non comprese, ma poi, una
volta finito sul rogo, gridò tre volte "Oh Solone", poiché aveva capito
che la sua felicità era stata solo parola e opinione, fama e parvenza. Solone ridusse il peso dei debiti per i
quali i cittadini poveri cadevano addirittura nella schiavitù. In effetti le
enormi e mostruose disuguaglianze economiche annientano democrazia e libertà.
Leopardi nello Zibaldone (123) sostiene
addirittura che dove non c’è uguaglianza non c’è vera libertà. Un altro strumento di oppressione che inficia
la libertà e la democrazia è l’ignoranza.
Preziosissima libertà che la democrazia
dovrebbe garantire è la parrhsiva, libertà di parola. Euripide nello Ione
fa dire al protagonista che la persona priva di parrhsiva ha
schiava la bocca (tov ge stoma-
dou`lon, vv. 674-675).
Ebbene, perché il diritto di parrhsiva sia effettivo, il popolo deve saper
parlare. Se viene rimbecillito a tutte le ore dalle menzogne della pubblicità,
dagli slogan ingannevoli di mille propagande, perde la coscienza del valore
vero (e[tumo~) delle parole e smarrisce il giudizio
critico, la capacità di criticare (krivnein). Senza contare che, come scrive Platone
nel Fedone (115e), parlare male fa male all’anima. Se i cittadini non sanno
parlare, muore la politica.
La fine della politica è la morte della
stessa polis democratica, della comunità sentita come tale dai cittadini.
Platone nel Protagora racconta che
Prometeo, l’inventore della tecnologia, il supertecnico del mito, aveva dato
agli uomini ogni sapere tecnico appunto, ma non la politikh; tevcnh (322b), non l’arte politica. Quindi gli uomini commettevano
ingiustizie reciproche, poiché, se manca l’arte politica, scompaiono aijdwv~,
rispetto, e divkh, giustizia sui quali la politikh; tevcnh si fonda. Senza questi valori
vengono meno gli ordinamenti stessi della polis. Nel Politico, Platone fa dire allo
straniero di Elea che arte politica regia è il prendersi cura (ejpimevleia)
dell’intera comunità e non solo in termini economico-nutritivi. Infatti
occuparsi degli uomini conducendoli al pascolo come si fa con gli animali non è politikh; tevcnh ma qreptikh; tevcnh (276b) tecnica dell’allevamento.
E’ la tecnica praticata da Pericle e
prima di lui da Cimone e Temistocle, i
capi politici che hanno reso Atene non grande ma gonfia e purulenta, in quanto
l’hanno ingrossata con porti, arsenali e contributi, ma hanno trascurato temperanza
(swfrosuvnh) e giustizia (dikaiosuvnh) Lo afferma Socrate nel Gorgia (519a). Corrisponde allo sviluppo senza progresso
degli Scritti corsari di Pasolini.
I regimi possibili secondo una teoria già
in nuce nel dibattito costituzionale di Erodoto (III, 79 ss.), poi sviluppata
in Platone, Aristotele e, metodicamente in Polibio, sono soggetti a mutamenti
periodici. Lo storiografo di Megalopoli chiama ajnakuvklwsi~
(Storie, VI, 9, 10), questo ciclo, una specie di orbis o “eterno ritorno” delle costituzioni.
Si parte dalla monarchia-regno che degenera in tirannide, poi si passa alla
aristocrazia che degenera in oligarchia, quindi alla democrazia che cade
nell’oclocrazia. Poi c’è il caos e si ricomincia. Le forme cattive sono
caratterizzate da u{bri~, prepotenza; le buone dall’ordine e dal
consenso dei cittadini.
Pessima tra tutte è la tirannide. In
Erodoto il tiranno (Trasibulo di Mileto, Periandro di Corinto) taglia le teste
eminenti, e così fa pure Tarquinio il Superbo in Tito Livio. Una scappatoia è
quella di Bruto, il falso scocco che si finge scemo appunto incarnando
l’ossimoro. Il tiranno dunque è un sanguinario. Secondo Platone è anche un
individuo incline all’erotismo, all’alcolismo e alla depressione (Repubblica 579e) ed è di animo
sostanzialmente servile (579e).
L’antitiranno è il nobile persiano Otane
di Erodoto che propugna la democrazia e non vuole partecipare alla gara per
diventare re, in quanto, dice: “ou[te
ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw”
(Storie III, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato[2].
Il mouvnarco"
raffigurato da Otane, nel
dibattito sulla migliore costituzione (III 79-84), è un vero e proprio tiranno:
è infatti un individuo che invidia i migliori, si compiace dei peggiori, ed è
pronto ad accogliere le calunnie. Dalle ricchezze che possiede gli deriva l'u{bri",
mentre fin dall'origine gli è innato lo fqovno". Siccome ha questi due vizi, e[cei pa'san kakovthta, detiene ogni malvagità (III, 80, 4).
Dunque egli: "novmaiav te
kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III, 80, 5) sovverte le patrie
usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio. "Così il
persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per
l'opposizione alla tirannide"[3].
Questo per quanto riguarda la
storiografia.
Nella tragedia il tiranno è il paradigma
mitico del pessimo capo.
Nei Persiani di Eschilo, il grande re di
Persia, Serse sonoramente sconfitto a Salamina, non perderà il potere in quanto
"oujc uJpeuvquno" povlei" (v. 213), non è tenuto a rendere
conto alla città. Nell’Edipo re di Sofocle, il tiranno è figlio della u{bri~:
"la prepotenza fa crescere il tiranno, la prepotenza/se si è riempita
invano di molti orpelli/che non sono opportuni e non convengono/salita su
fastigi altissimi/precipita nella necessità scoscesa/dove non si avvale di
valido piede" e[nq j ouj podi ;
crhsivmw/-crh'tai (vv.
873-879). La tirannide è una monarchia claudicante: Edipo ha i piedi gonfi,
Periandro era nipote di Labda, una Bacchiade zoppa, e Riccardo III di
Shakespeare si presenta dicendo di essere: "so lamely and
unfashionable/That dogs bark at me, as I halt by them" (I, 1), così
claudicante e goffo che i cani mi latrano contro quando gli passo vicino arrancando.
Il tiranno infetta la terra e pure il
cielo: “Fecimus coelum nocens”, dice l’Oedipus di Seneca (v. 36). Riccardo
viene chiamato da Lady Anna diffus’d infection (I, 2), infezione diffusa:
un’infezione che contagia il suo popolo e la sua terra: un cittadino dice che
il Duca di Gloucester è pericolosissimo come i figli e i fratelli della regina
e se costoro non governassero ma fossero governati "this sickly land might
solace as before" (II, 3), questa terra malata potrebbe avere ristoro
come prima.
Nelle Supplici di Euripide, Teseo afferma che il tiranno è l'entità più ostile alla
polis: "oujde;n turavnnou
dusmenevsteron povlei"
(v. 429). Egli infatti uccide i migliori, quelli dei quali considera la
capacità di pensare, in quanto teme per il suo potere: "kai; tou;" ajrivstou" ou{" a]n hJgh'tai
fronei'n-kteivnei, dedoikw;" th'" turannivdo" pevri" (vv. 444-445). Sicché la città si
indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno
miete i giovani come da un campo di primavera si porta via la spiga a colpi di
falce? (vv. 447-449). Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo
vane le fatiche di chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli. Per non
parlare delle figlie che l'autocrate vuole rendere strumenti del suo piacere.
L'Elettra di Euripide recitando il
biasimo funebre di Egisto allude, con pudica e verginale aposiopesi, alle
porcherie che l'usurpatore faceva con le donne: "ta; d j eij" gunai'ka", parqevnw/ ga;r
ouj kalo;n-levgein, siwpw'"
(Elettra, vv. 945-946).
Tiranno può essere un individuo piùo meno
malato, come Periandro, o Creonte di Tebe, o Riccardo III o Macbeth, ma può
essere anche una massa turbolenta (o[clo~) che non rispetta la legge. Per esempio
i teppisti degli stadi.
Nelle Elleniche di Senofonte la folla
furente esige con grida e ottiene la condanna a morte sommaria degli strateghi
delle Arginuse (405 a.C.). La massa degli Ateniesi, nei quali era stato inoculato
l'odio per gli strateghi e il desiderio dei capri espiatori, gridava che era
grave se qualcuno non permetteva al popolo di fare quanto voleva ("to; de; plh'qo" ejbova deino;n ei\nai, eij mhv
ti" ejavsei to;n dh'mon pravttein o{ a]n bouvlhtai", Elleniche I, 7, 12). E' la
rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il
processo popolare contro i generali delle Arginuse, è la formula che
caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione
della democrazia (VI, 4, 4: "quando il popolo è padrone di fare
quello che vuole").[4]
Dunque “non è democrazia quella in cui la
massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece quella presso
la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle
leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più, questo bisogna
chiamare democrazia" (VI, 4).
La tirannide, anche allora, poteva essere
quella del mercato e della pubblicità. Negli Acarnesi di Aristofane (del 425 a.
C.), il protagonista Diceopoli viene tormentato dalla iterazione
dell’imperativo privw[5] (v. 35), compra, un ordine che lo dilania.
Il male dello Stato c’è quando la legge
non è uguale per tutti e i tribunali non sono imparziali e si creano via via
degli idoli, polemici in un clima di caccia alle streghe, o si mettono sugli
altari eroi e santi più o meno falsi, per creare confusione. Aristofane satireggia
tale torbidume nella sue commedie. Nelle Vespe vengono ridicolizzati i giudici parziali
come il vecchio Filocleone; nei Cavalieri (424 a.C.) di Aristofane Cleone-Paflagone
è chiamato “borborotavraxi” (v. 307), il mescola-fango; egli si
comporta come i pescatori di anguille, i quali le acchiappano, solo se mettono
sottosopra il fango: “kai; su; lambavnei",
h]n th;n povlin taravtth/"
(v. 867), anche tu arraffi, se scompigli la città, gli fa il salsicciaio.
Nelle Anime morte di Gogol’ (1842) un
farabutto suggerisce di confondere le idee per rendere impossibile il compito
di fare giustizia: “Confondere, confondere: e nient’altro…introdurre nel caso
nuovi elementi estranei, che coinvolgano altri, complicare e nient’altro. E che
si raccapezzi pure il funzionario pietroburghese incaricato. Che si raccapezzi…
Mi creda, appena la situazione diventa critica, la prima cosa è confondere. Si
può confondere, aggrovigliare tutto così bene che nessuno ci capirà nulla” (p.
375).
Ancora a proposito di confusione, C.
Marx, commenta Shakespeare[6] scrivendo che nel denaro il grande drammaturgo
inglese rileva: "la divinità visibile, la trasformazione di tutte le
caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e
l'universale rovesciamento delle cose"[7].
Utile al potere tirannico o demagogico è
anche un clima di paura che limita la socializzazione delle persone, la loro
libertà di parola, il loro spirito critico. Il tiranno è circondato da un alone
di paura. Egli ha paura e fa paura. Un doppio ruolo sintetizzato bene da
Creonte nell'Oedipus di Seneca: "Qui sceptra duro saevus imperio
regit,/timet timentes; metus in auctorem redit" (vv. 703-704), chi tiene
crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura
ricade su chi la incute.
Il potere buono è quello razionale e
morale, ossia esercitato al servizio dei sudditi: nelle Epistole a Lucilio
Seneca, il maestro di Nerone già ripudiato dal discepolo imperiale, ricorda che
nell'età dell'oro governare era compiere un dovere non esercitare un potere
assoluto: "Officium erat imperare, non regnum" (90, 5).
Luogo simile in I Promessi sposi: "Ma
egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può
negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se
non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle" (cap.
XXII).
Concetto analogo si trova in Psicanalisi
della società contemporanea di E. Fromm: "Il capo non è soltanto la persona
tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche l'uomo
che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li
serve. Obbedire a un cosidetto capo senza queste qualità sarebbe una
viltà" (p. 299).
Infine il male nei servizi segreti. Dirò
una cosa generica poiché dei servizi segreti non conosco gli arcana… Male è ciò
che danneggia la vita, bene tutto quanto la favorisce e la aiuta. I servizi
segreti dunque sono una cosa buona se servono a tutelare le vite di noi tutti.
Se invece le distruggono o anche solo le minacciano, le offendono, le umiliano,
vanno soppressi. Tutte le entità distruttive a partire dalle guerre, dovrebbero
diventare tabù per la nostra razza umana.
Bologna 3 luglio 2012
Giovanni Ghiselli
g.ghiselli@tin.it
Discorso di 10 minuti. Piazza Verdi, 6
luglio 2012 con Paolo Bolognesi, Walter Vitali, Loriano Machiavelli.
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[1] Nel 594a. C. Solone fu nominato
arconte (a[rcwn) con l'incarico di pacificatore e legislatore (diallakthv" kai; nomoqevth")
[2] Diodoro Siculo racconta una cosa del genere a proposito degli
Indiani: essi hanno una bella usanza introdotto dai filosofi: non ci sono schiavi
e rispettano in tutti l’uguaglianza: “tou;~ ga;r maqovnta~ mhvq j uJperevcein mhvq j
uJpopivptein a[lloi~ kravtiston e{xein
bivon pro;~ aJpavsa~ ta;~ peristavsei~” (Biblioteca storica, 2, 39, 5), poiché quelli
che hanno imparato a non prevalere e a non sottomettersi ad altri avranno una
vita migliore in tutte le circostanze. Diodoro Siculo racconta una cosa del
genere a proposito degli Indiani: essi hanno una bella usanza introdotto dai
filosofi: non ci sono schiavi e rispettano in tutti l’uguaglianza: “tou;~ ga;r maqovnta~ mhvq j uJperevcein mhvq j uJpopivptein a[lloi~ kravtiston e{xein bivon pro;~ aJpavsa~ ta;~ peristavsei~” (Biblioteca storica,
2, 39, 5), poiché quelli che hanno imparato a non prevalere e a non
sottomettersi ad altri avranno una vita migliore in tutte le circostanze.
[3] C. M. Bowra, Mito E
Modernità Della Letteratura Greca, p. 170.
[4] Canfora, Lo Spazio
Letterario Della Grecia Antica, Volume I, Tomo II, p. 835.
[5] Da privami, compro.
[6] Il quale nel Timone
d'Atene chiama l'oro "comune bagascia del genere umano"; l'universale
mezzana che "profuma e imbalsama come un dì di Aprile quello che un
ospedale di ulcerosi respingerebbe con nausea" (IV, 3)
[7] Manoscritti
economico-filosofici del 1844, p.154.