Quel pomeriggio non si disse quasi nient’altro. Salutammo i miei genitori, ci sistemammo in camere separate, poi andammo alla Scala. La Fracci e Nureyev si fecero ammirare e ci fecero pensare. Dopo lo spettacolo ci scambiammo qualche idea suscitata da questi due artisti realizzati. Dei modelli per noi. Magari infelici quanto me e Ifigenia, però tutt’altro che falliti nel loro campo. Dissi che erano diventati tanto bravi siccome avevano subordinato le altre possibilità delle loro esistenze a quello straordinario talento che senza sacrifici, rinunce e un’ascesi totale non si sarebbe manifestato in quelle forme compiute e perfette. Noi avremmo dovuto fare altrettanto per arrivare alla gloria. “Sì” rispose-Ifigenia- e proseguì non senza senno. “Il talento non basta. Ciascuno ha il proprio genio-quisque suos patimur manes- ma alcuni lo sprecano e ne soffrono per tutta la vita. Pochissimi sanno impiegarlo integraralmente fino al sacrificio di quanto non serve a svilupparlo. Pensa ai tuoi autori preferiti e spesso citati: i tragici greci o Shakespeare, o Leopardi, o Thomas Mann. Hanno dedicato tutte le forze al compimento dei loro capolavori. L’mpegno è necessario usque ad sanguinem almeno finché non si è trovato uno stile proprio attraverso centinaia e centinaia di prove con correzioni infinite, volte a migliorare il testo con penna inesorabile-atroci stilo- fino a trovare espressioni perfette come quelle di quei due danzatori geniali, dal fisico non imponente oltretutto”. “E’ vero” intervenni approvandola, quidi citai Orazio: “ verba mea reprehendam quod non/ multa dies et multa litura coercuit atque/ praesectum decies non castigavero ad unguem”, biasimerò le parole di un testo mio che né un lungo tempo né molte cancellature abbiano rifinito, e non avrò corretto fino alla perfezione dopo averlo sfrondato una decina di volte. Ci trovammo d’accordo sul fatto che, se volevamo davvero emergere sulla folla di chi scribacchia prono al potere e sulla mediocrità degli attorucoli raccomandati, avremmo dovuto dedicare la maggior tempo delle nostre vite io al leggere e allo scrivere i testi, lei al recitarli. Aggiunsi che per diventare un insegnante ascoltato e ammirato dagli allievi avevo impiegato tre anni tutti interi a leggere libri, a trascriverne parti imparandole, a pensarli sempre, cercando relazioni tra loro, a citarli spesso. Soffrivo di una mia lezione difettosa più che di ogni altra sconfitta ed ero viceversa felice come di nessun altro evento della mia vita quando con una lezione di cinquanta minuti riuscivo a entusiasmare ragazze e ragazzi. Gli stessi che due anni prima l’avevano spinta verso di me dicendole che ero un professore mitico, meraviglioso e usando altrettante iperboli per qualificarmi fin troppo generosamente.
Bologna 14 gennaio 2025 ore 10, 56 giovanni ghiselli p. s. Statistiche del blog Sempre1661953 Oggi129 Ieri406 Questo mese4985 Il mese scorso10218 |
Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
martedì 14 gennaio 2025
Ifigenia 236. Lo spettacolo della Fracci e di Nureyev. La loro lezione.
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