lunedì 10 febbraio 2025

Le preghiere e la guarigione miracolosa. Excursus sulla famglia materna. Elogio della mia povertà.


 

Appena mi sono disteso ho pregato il signore di Olimpia e di Delfi: “Dio della bellezza che giustifica questa nostra vita mortale e la emancipa dal triste orrore della sapienza silenica, Dio del principium individuationis che mi hai distinto dalla gente priva di stile e di morale, ti prego, fammi guarire.

Non chiedo denaro né  successo.

Procedetti ricordando Catullo:

me miserum aspice et, si vitam puriter egi,
eripe hanc pestem perniciemque mihi,
quae mihi subrepens imos ut torpor in artus
expulit ex omni pectore laetitias.
Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa,
aut, quod non potis est, esse pudica velit:
ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum.
O deus, rede mihi hoc pro pietate mea
.

Lo sforzo di ricordare ogni parola e il dovere compiuto conciliò il sonno. Alle sei tuttavia, verso l’alba, mi sono svegliai con un male grande e con tanto spavento. Tornaio nel bagno per osservare la gamba dell’osso offeso: la ferita sembrava palpitare.

Fui quasi certo della sciagura. In assenza della madre mia, mi diedi del bischero da solo. Poi dell’imprudente, quindi del deficiente per assecondare le zie nutrici.

Subirò la giusta lezione pensai: “ dovrò andare in un tetro ospedale, poi forse mi metteranno in un manicomio per autolesionismo: perderò il sole con tutte le bellezze della Grecia e i sorrisi di tante donne. Ben mi sta”. Tornai nel letto strisciando come un serpente. Restava una sola speranza; un miracolo. Aggiunsi altre preghiere a Zeus, a Dioniso, all’onesto Giovanni Battista, a Santo Francesco. Dei e santi pagani e post pagani. Anche Cristo per tanti versi lo era ma la pretaglia  eretica, blasfema ha calunniato per secoli ilò Redentore e sua madre: la bella ragazza del parto.

Chiesi a tutti i miei protettori vivi e morti di farmi guarire. Se no, sarei diventato un inutile peso alla terra, penoso per i miei cari e per me. Mi rivolsi alla crescente luce del giorno: la pregai di ricordarsi quanto l’avevo onorata con i miei studi, l’educazione dei giovani, le corse serali inseguendo e adorando il sole che al tramonto brillava come un tesoo, elencai i monti sacri scalati con la bicicletta, promettendo che a quelli italiani avrei aggiunto il Parnaso, l’Olimpo e il Taigeto nei miei pellegrinaggi annuali e non mi sarei fermato prima dei novanta anni se fossi guarito”.

Infine  feci una promessa con il do ut des: della religione romana “Numi della mia speranza desiderosa e bisognosa di grazia, fate che io possa narrare la guarigione di  giovanni, il peccatore miracolato, nel grande epos che scriverò in vostro onore”

La mattina mi svegliai soltanto alle dieci. Quel giorno non si doveva partire prima di avere desinato dal tocco  alle due. Poi si andava a Capo Sunio distante solo circa 40 chilometri. Scostai la coperta leggera e guardai la gamba che non mi faceva male. Né si vedeva più niente di brutto. Possibile? Era proprio quella battuta? Ma sì, proprio la destra. Me la sono toccata. Non faceva  male. Forse sognavo la guarigione. Mi pizzicai una guancia. Ma no, ero sveglio. Feci subito altre prove: mi alzai, camminai poi saltai su tutte due le gambe. Funzionavano entrambe. Quindi feci un balzo di gioia e gridai. “Grazie Apollo peana, dio dall’arco d’argento e dalle frecce d’oro che colpiscono i mali e i mascalzoni mettendoli in fuga. Tu sei un dio grande, uno di quelli che non tramontano mai, non invecchiano e io ti sarò sempre devoto. Ringraziai anche le ragazze madri celesti e terrene”.

 

Excursus sulla mia famiglia materna

Ringraziai anche la mamma da cui avevo preso la grande salute e la zia Rina chiamata badessa da sua madre e sbirra da suo padre.

Ci voleva: era imperiosa e metteva ordine nelle cose di casa. Quando andava in campagna disciplinava i mezzadri della madre che le obbedivano come si fa con un generale, pur chiamandola “signureina”, siccome romagnoli. La zia comandante mi intimava di non parlare mai come loro bensì, di usare la lingua parlata in casa nostra: quella di Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli. Le due lingue che avevo imparato: il pesarese per strada e l’artetini di Bogo Sansepolcro in casa mi avevano arricchito entrambe e non escludevo l’una né l’altra tanto nella pronuncia quanto nella scelta delle parole.

Quando, arrivato al ginnasio, trovavo nei padri della lingua di Arezzo e Firenze espressioni di uso comune in casa nostra ne ero fiero.

Del resto mi piaceva anche la musica della parlata pesarese che allunga le vocali: la praticavo molto giocando per strada o litigando a scuola e ne rivendicavo l’uso biasimato e schernito invece dai miei parenti toscani: tutti tranne la nonna pesarese, derisa dagli altri per come pronunciava le vocali: non distingueva vénti da vènti o pèsca da pèsca. Io invece pronunciavo le vocali come il nonno, la mamma e le zie. Prendevo quello che mi piaceva da ciascuno di loro.

Ho voluto perfino  rivendicare la mia mancanza di spirito pratico- affaristico ed esserne fiero.

Autorizzo ancora tale presunta  deficienza con queste parole del Vangelo secondo Matteo:"Et de vestimento quid solliciti estis? Considerate lilia agri quomodo crescunt: non laborant neque nent. Dico autem vobis quoniam nec Salomon in omni gloria sua coopertus est sicut unum ex istis" (N. T. 6, 28), e quanto al vestire perché vi affannate? Considerate come crescono i gigli dei campi: non si affaticano e non filano. Eppure vi dico che neppure Salomone in tutta la sua gloria è stato coperto come uno di loro.

La mancanza di senso pratico  l’ho presa dal nonno Carlo Martelli che vendette ai Buitoni  il quattrocentesco palazzo avito di Sansepolcro per 100 mila lire alla fine della guerra. Poi non le ha investite e non gli è rimasto niente. Il palazzo però porta ancora il suo nome e a me ha lasciato il suo talento ciclistico, la sua educazione e la sua bontà.

La nonna pesarese Margherita Scattolari che aveva ereditato settanta ettari dal padre romagnolo e altro dalla madre di Recanati invece non ha venduto mai niente e tale attitudine l’ho presa da lei: dei miei 18 ettari non ho voluto venderne nemmeno uno a un avido costruttore di Montegridolfo che voleva cementificare la terra degli avi miei.

Mi prometteva molto denaro che –diceva- avrebbe cambiato la mia vita rendendomi beato di ozi, cibo e bevande in locali degni di me. Figuratevi!

Sono certo che la terra valga più dei miseri quattrini. Potevo uscire dalla mia povertà vilipesa e negletta dagli altri, tuttavia a me non discara.

Vivo da povero però non mi manca niente di quanto mi serve e mi piace: vado spesso al cinema qui a Bologna, talora anche in un simpatico, non esoso, ristorante greco  dove mi permetto perfino “il lusso” di invitare qualcuna o qualcuno, d’estate volo a Siracusa per i drammi del teatro greco, poi mi imbarco sul traghetto per Patrasso e sbarcato mi sobbarco lo zaino, quindi pedalo almeno fino  a Epidauro per le tragedie e le commedie greche che rappresentano là, infine  torno a Pesaro in tempo per seguire tutti i melodrammi di Rossini.

Tutto questo  senza indebitarmi. Né rubare. Nemmeno rubacchiare.

 

 

Concludo questo excursus sulla famiglia citando Thomas Mann, uno dei miei maestri preferiti tra i moderni: “Figli e nipoti guardano padri e nonni per ammirare e ammirano per imparare  e perfezionare quello che è già predisposto dall’ereditarietà”. (La montagna incantata, secondo capitolo. p.36)

 

 Bologna  10  febbraio  2024 giovanni ghiselli ore 9, 40 giovanni ghiselli

p. s.

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