Quindi tornai al tavolo degli Italiani, non lontano da quello dei Finnici.
Pensavo che il mancato successo del primo tentativo poteva diventare un bene perché mi costringeva a trovare, impiegare e conoscere tutte le mie energie per arrivare allo scopo.
“Siamo alle solite Gianni, punti le finniche?”, mi domandò il povero Bruno Pera, già sacro alla morte precoce. Una sorte molto amara degna di riflessioni dolorose postume, anche se il personaggio al primo incontro non mi fu del tutto simpatico.
“Sì, certo”, risposi con disappunto, “perché, a te fanno schifo?”
“No” disse “però mi sembri ripetitivo, fissato, e anche un poco razzista”.
Era un rivale, un donnaiolo del resto meno attento di me alla qualità.
Lui non cercava l’identità nell’amore: aveva una fidanzata in Italia che lo raggiunse pure.
“Questo è l’anno della degradazione!”, gridava ogni tanto apparendo bizzarro.
Digressione affettuosa in memoria di Bruno, il ragazzo romano morto ante diem.
Forse Apollo, o la Pizia seduta sull’ombelico del mondo, gli avevano sussurrato il destino, e quel ragazzo ne sentiva la falce già vicina a mieterlo provocando il fato, il proprio destino di morte, con macabra preveggenza.
Del resto, tu, povero amico, hai evitato la degradazione della vecchiaia che ora mi incalza assai da vicino. Pensa che mi sono tagliato i baffi nerissimi che avevo allora e mi stavano bene, come i tuoi a te. Bianchi facevano senso alle donne giovani che ci piacciono tanto. A te non sono venuti. Non gliene hai dato tempo. Finché sei stato al mondo, piacevi alle donne. Non meno di me, lo riconosco. Eri un rivale degno. Del resto piacevamo a tipi diversi e ci piacevano tipe diverse: mai ci siamo scontrati.
Anzi, ricordo che quell’estate, notasti che io, come te, mantenevo la linea, mentre altri erano già diventati dei “ veri cessi d’omini”.
Con i capelli me la cavo ancora: ne ho ancora parecchi neri. Spero che tengano duro, i capelli e il sottile, delicatissimo filo della vita. Atropo ha spezzato il tuo stame presto. Mi dispiace Bruno, mi dispiace molto.
Ora sei ossimorico: un bel giovane morto. In fondo sono ossimorico anche io: un donnaiolo vecchio. Siamo due figure retoriche. Eravamo dialettici tra noi e da tanto tempo mi manchi. Oggi sono moti quasi tutti i nostri amici di Debrecen. La sorte altre morte aveva mirato a me sbagliando la mira però.
Claudio disse soltanto: “bella sì quella tua fiamma, ma non guzza mica”.
“Te lo faccio vedere io”, pensai senza dirlo. Invece risposi: “Con te, no di sicuro”
Ripresi a guardare la finnica bella e fine, con sguardo un poco obliquo per non darlo a vedere. L’avevo presa di mira ma non volevo che se ne accorgesse.
Parlava di rado, senza bere alcolici, sempre senza fumare né scomporsi. Consideravo il non fumare un predicato di nobiltà. Allora era raro, come ora non avere il telefonino. Una carenza di cui sono fiero come allora del fatto di non fumare. Eppure sono stato dileggiato per tali stranezze estreme rispetto alle mode molto diffuse.
La rarità spaventa i conformisti piatti e privi di spirito. Soprattutto se non è ricercata ma naturale.
Osservavo Helena come un’immagine che sentivo già dipinta dentro di me.
In seguito seppi da lei che non bevevo alcolici e non fumava anche perché sospettava di essere incinta. Forse per lo stesso motivo mi aveva concesso così poco tempo, e agli altri corteggiatori ancora di meno. Ma in quel momento non lo sapevo, e avevo bisogno di attribuirle ogni virtù, in modo che se mi avesse dato il suo assenso, avrei potuto farne un modello da imitare per precisare la mia identità e rendere migliore me stesso.
Se mi avesse corrisposto, il volgere delle stagioni e lo scorrere dei decenni non avrebbero potuto togliermi l’immagine che quel luglio fuggitivo mi avrebbe impresso nell’anima con la felicità che è di breve intervallo superata da quella divina. Quella dell’amore dico.
La guardavo senza ascoltare i miei amici e impiegavo tutte le energie della mente per capire come potessi arrivare a lei un’altra volta: questa però andandole a genio. Ne avevo bisogno. Non potevo fallire. Per crescere, per diventare un uomo, dovevo succhiare in senso fisico e metafisico le sue ubertose mammelle[1] la cui vista coperta dalla tunica bianca ma scoperta dall’immaginazione diffondeva una strana e consolatoria soavità..
La bella donna sembrava piuttosto spaesata e disorientata in quell’ambiente di ragazzi, di sposati e di vecchi, un ambiente nuovo per lei, mentre io vi avevo già raccolto esperienze di amicizia e di sesso, se non proprio di amore, e conservavo una messe di ricordi belli. Potevo fruire di un certo vantaggio dunque.
Ripresi a incoraggiarmi mentalmente: “Dai Gianni ché ce la puoi fare. Dai, che tu non sei male; anzi sei l’unico della sua levatura. Pensa agli altri italiani. Claudio, a parte lo stomaco superfetato, non è brutto, è colto, e non è stupido, ma è uno che qui fa del casino goliardico; la sua indelicatezza di certo non si confà a quella femmina umana. Luigino è un raffinato, ma, per fortuna, è un cinedo tra i più sdilinquiti ; Danilo beve e quando è posseduto da Dioniso brancola ebbro, e sospira per gli alcolici amati, se li sogna anche di notte”.
Danilo seconda digressione
Ricordai un episodio, per farmi venire del buonumore.
Una mattina il bevitore professionista era steso nel letto, a pancia in su, a bocca aperta. Sembrava che non respirasse. Non capivo se dormiva o era svenuto . A un tratto si svegliò da un incubo piangendo e gridando. Dioniso gli aveva riempito la mente di dolore mandandogli in sogno la visione di una bottiglia di Tocai caduta a terra e spezzata. Raccontò, tra le lacrime, che aveva visto il liquido prezioso e amato scorrere e sparire assorbito dalla terra avida e invida. Il meschino non si saziava di gemiti e lamenti.
“Voglio il vin, voglio il vin!”, ripeteva sconsolato. “Devo berlo subito!”
“Se vuoi, vado a strizzare dell’uva per te”, cercai di consolarlo
“Sì, vai di corsa-rispose l’amico in crisi- perché se non bevo entro dieci minuti divento pazzo !”.
“Più di così?” pensai, senza dirglielo. E corsi al bar dell’Università per comprargli una bottiglia.
Una volta gli diedi il consiglio di non dare troppo a vedere il suo vizio: a Padova un bidello del Liviano, cui avevo chiesto di lui, mi aveva detto che quella mattina non l’aveva visto: probabilmente era andato nell’osteria a bere un goccetto. Il custode aveva parlato con un tono scherzoso ma non del tutto privo di biasimo,
L’amico mi guardò trasecolato e disse: “ma quae vissio? Quae bideo?
Si chiama Giovanni, è un mio amico, e tante volte andiamo a bere un’ombretta in compagnia!”.
Replicai solo dicendo: “ in effetti non vedo che male ci sia: anche io mi chiamo Giovanni!”, poi tacqui, siccome le sue parole mi parvero ebbre.
Ricordavo questi episodi ridendo tra me.
Poi tornai a valutare il presente: “Fulvio ha adocchiato quella studentessa italiana prepotente, con l’intento malsano di farne la sua sposa adorata. L’apparenza violenta la verità, e il risveglio per l’amico infatuato potrebbe essere amaro.
Quando quella ragazzotta graziosa e imperiosa sarà priva di maschera e si sarà rivelata, allora non gli piacerà più, e le loro nozze, se saranno inopportunamente avvenute, avranno un sapore cattivo al gusto delicato del mio caro amico. Allora lo sposo pentito andrà a piangere sulla riva del mare, come Odisseo a Ogigia, quando gli venne a noia Calipso.
Ermes, mandato da Atena:"lo trovò seduto sul lido: mai gli occhi/erano asciutti di lacrime, ma gli si struggeva la dolce vita/mentre sospirava il ritorno, poiché la ninfa non gli piaceva più, ejpei; oujkevti h{ndane nuvmfh "[2]. Un esempio di semplicità, verità e spontaneità. Una spiegazione di quattro parole. Senza chiacchiere aggiunte”.
Fulvio terza digressione
Qualche anno più tardi infatti Fulvio mi confessò che andava a piangere sul molo del porto di Chioggia invocando: “Debrecen, dove sei, e voi amici miei, dove siete? ”, Rimpiangeva il tempo perduto .
Ma nell’agosto del ’71, istigato da lei, partì dall’Ungheria senza salutare nessuno e per due anni non si fece vedere.
Arrivato a ventinove anni, l’amico maggiore non voleva figurare nel numero degli scapoli malfamati e si assoggettò al rito di una religione non sua
“Eh sì, eh-diceva ogni tanto-a una certa età, la nostra, uno deve sposarsi.”.
“Davvero?” facevo io e procedevo sulla mia strada peccaminosa, ad agire secondo il metodo mio che non era il mestiere pazzo e criminale di molestare le femmine, bensì la nobile professione e arte di educarle e deliziarle procurando gioia a me stesso, senza perciò temere che il fuoco del cielo scendesse sulla mia testa. Certamente non il fuoco di Sodoma mandato a punire gli uomini-donna.
Del resto ne ha risparmiati tanti. Per fortuna. Più ce ne sono, più noi donnaioli siamo contenti, per via della minore concorrenza.
Ma torniamo a quella sera di luglio e al pensiero che passava in rassegna i possibili proci di Elena.
“Bruno, il romano, è belloccio, non posso negarlo, e fisicamente potrebbe anche piacerle, ma grazie a Dio, è troppo estroverso, incline allo spirito fescennino: per una donna siffatta colui non è abbastanza riservato; Alfredo non può piacerle: è troppo depresso e insicuro, in preda a un’indolenza agitata, altri fanno venire in mente l’homunculus di Goethe venuto al mondo solo a metà[3]; Mario, il napoletano è grasso assai, e non poco gozzuto. Per giustificarsi dice “ho preso da mammà”, ma di fatto, in rebus ipsis, è più incline al cibo che a qualunque altra cosa; la mente di Fausto non riesce a connettere verbo con verbo.
Molti altri sono teste intronate[4], svigorite[5] che vanno vagando, prive di coscienza, o al massimo dotate di una semi-coscienza crepuscolare,
Silvano corteggia le donne con un’aria da seminarista. Così becca quelle tra i quarantacinque e i sessanta.
Ezio ci prova sempre in maniera claunesca: quando va da ciascuna a chiedere: “Akarsz táncolni, akarsz táncolni? ”[6], strizza l’occhio furbetto e compie una ridicola piroetta rotatoria, come se avesse un piede cavallino. Quindi il mattacchione si ferma e parla, a lungo, con l’eloquenza delle marionette. Le corteggiate importunate a volte accennano alla marcia funebre di Gounod perché la pianti. Elena è una figura troppo al di sopra di costoro: tanto bella, fine e amabile quanto augusta!”
Esageravo così, fluttuando tra l’iperbole e il paradosso, facendo mentalmente caricature spietate anche degli amici per farmi coraggio.
“I maschi stranieri e soprattutto i finlandesi- mi dicevo anche con presunzione tipica del gallismo nostrano-, non contano: non sono tanto interessati alle femmine, e comunque non sono arsi dal fuoco sacro di Eros, come te, vecchio mio”.
A dire il vero, una volta un giovane finnico mi aveva detto che si eccitava soprattutto quando vedeva scaricare da un camion casse di liquidi alcolici.
Forse anche per questa inclinazione un poco perversa dei loro maschi avevo messo nel mirino in primis le femmine finniche tra le altre straniere. Le italiane non erano ancora abbastanza emancipate dal perbenismo bigotto della zitella che vuole farsi sposare. In confronto al cigno cui assimilavo Elena, le connazionali mi parevano oche mal pennute e stridule.
Naturalmente esageravo. Lì a Debrecen avrei avuto una relazione con una studentessa italiana, siciliana, solo nel 1976 quando le ragazze italiane stavano emancipandosi un poco alla volta.
Quarta digressione : la Moraccia di Modena e Claudio.
Nel 1971 una studentessa Modenese detta “la moraccia” una sera si affacciò a una finestra dicendo che lei e le sue amiche dell’Università di Bologna, in quel” villaggio” ungherese si annoiavano a morte. All’epoca era fidanzata di un giovane canuto che un giorno venne a prenderla sussiegoso, e in seguito sarebbe diventato famoso. Noi lo canzonavamo per la chioma precocemente bianca, sempre molto curata, il cui albore spiccava vieppiù in contrasto con i capelli nerissimi e un poco appiccicosi della sua fidanzata moraccia appunto.
Claudio che tra le donne disponibili beccava di tutto, dal prato posto tra i collegi gridò la sua consueta provocazione: “per forza, perché non guzzate!”, e la moraccia strapazzata si ritirò con sdegno, non senza gridare con urlo da stridula strige cui vengano strappate le viscere: “maleducato!”.
“Sì, però io non mi annoio”, replicò il donnaiolo.
E aggiunse: "casta est quam nemo rogavit” [7].
Claudio beccava qualsiasi donna non facesse troppe storie. Una volta una quarantenne, all’epoca quasi una vecchia per noi, gli chiese di aspettare un poco, di darle tempo dicendogli: “a fiuk nem tudnak várni”, i ragazzi non sanno aspettare.
Stavano facendo del petting appoggiati al muro di un collegio, o a un albero, al buio.
Il dispettoso drudo se ne andò con un ghigno beffardo, mormorando:” fuge rustice longe/hinc Pudor”[8] e lasciandola con le mutande a metà delle cosce. Il donnaiolo non era certo un gentiluomo raffinato, ma non era nemmeno incolto.
Le urla e le maledizioni della donna abbandonata risuonarono per tutto il campus universitario, alle due della notte. Altri ne risero a lungo. Me compreso che, da gesuita quale ero, parlando con le donne che corteggiavo mi mostravo sdegnato verso la goliardia dei miei contubernali ma quando ci si trovava nella nostra stanza facevo due risate sulle donnesche imprese di Claudio e certamente non lo biasimavo.
Bologna 6 marzo 2025 ore 11, 07
giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Cfr. il Faust I di Goethe: “Natura illimitata, dove stringerti? Voi seni, dove? Voi, sorgenti di ogni vita da cui la Terra e il Cielo pendono, cui questo petto esausto tende” (Notte, vv. 455-458).
[2] Odissea V, 151-153.
[3] “Gar wundersam nur halb zur Welt gekommen”, Goerhe, Faust II, 2, Notte classica di Valpurga. Golfi e scogliere, v. 8248
[4]Cfr. “A dull head among windy spaces", una testa intronata tra spazi ventosi, T. S. Eliot, Gerontion, (del 1920) v. 16.–
[5] Cfr. Odissea, XI,29.
[6] Vuoi ballare, vuoi ballare?
[7] Ovidio, Amores I 8, 44, casta è quella cui nessuno l’ha chiesta, traduceva l’amico
[8] Ovidio, Ars I, 605-606, fuggi lontano di qui, rozzo Pudore
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