Eravamo dunque seduti, festevolmente, al “Palma”, l’Eszpresszó dotato di un’ampia terrazza tutta illuminata dal sole fino al pomeriggio tardo. Vi servivano due ragazze.
Erano giovani la prima volta che le vidi, nel 1966. Due cameriere fresche, carine, con divise rosse e bianche: rossa la gonna, bianche le calze e la camicia. Le scarpine, tipiche delle inservienti magiare, lasciano scoperti i calcagni. Era un luogo ameno, con un’atmosfera goliardica. Claudio, quando aveva bevuto una palinka, o due, diceva: “Si sta bene qui al Palma, bisogna tornarci!”. E l’ultimo giorno del corso estivo, quando salutavamo le due cameriste[1], l’amico faceva: “a visszantlátásra jővőre![2]”.
Le due ragazze ridevano e ricambiavano il saluto pensando, forse, che ci saremmo tornati per tutta la vita. In effetti una volta progettammo di farci seppellire lì vicino, nella nagy érdő, la grande foresta dove, dicono, si trovano inumati decine di eroi ungheresi che trasmettono energia positiva ai buoni. Come Edipo a Colono.
Invece a un certo momento l’era felice delle estati di Debrecen, come ogni altra cosa è passata. Come un sogno è passata. Ma non tanto presto: ho fatto in tempo a vedere le due cameriere appassite prima, poi quando ci sono tornato nel 2011 con Fulvio, Maddalena e Alessandro, in bicicletta, dopo una pedalata di 1200 chilometri, le ho visto ormai anziane. Abbiamo festeggiato l’incontro e la sopravvivenza, io, Fulvio e le cameriere, con abbracci e baci da vecchi. Poveri vecchi sì, eppure gagliardi.
Sulla terrazza del Palma soleggiata dal mattino fin verso sera c’erano molti tavoli occupati spesso da noi studenti stranieri. Si discorreva volentieri, con allegria; poi si beveva una palinka o due, una all’albicocca una alla prugna, o “brugna” come dicevano i parmigiani Fulvio e Claudio con lasciva adnominatio, oppure un birra non piccola, o una bottiglia di vino, in allegra brigata, e si diventava sempre più allegri. Io cercavo di ridurre le dosi e di rallegrarmi autonomamente. Danilo, se si accorgeva che non ordinavo la seconda palinka, gridava con occhi striati di righe rosse: “anche se ti vesti di stracci e ti atteggi a proletario comunista, caro da Dio, rimani un borghese, un incurabile fighetto radical chic che gira sopra una macchina nera, tedesca, scoperta, chiaramente hitleriana, e non osa neanche raddoppiare un misero goccio. Magari sei pure vegetariano come quel delinquente austriaco, un massacratore di natura e di professione!”. Quindi acceffava dei salatini per rinfocolare la sete da placare con del salutare tokaj spremuto dall’uva cresciuta in colli non tanto lontani da lì.
Gli domandavo se pensasse al genocidio di ebrei, russi, zingari, omosessuali, mentecatti e alcolizzati.
“Sì, e pure alla rovina di tutte le vigne andate in malora durante la guerra, con tanto buon vino perduto per colpa di quel tanghero assassino!
Tu, quando non bevi con noi, me lo ricordi, senza contare che hai anche i baffetti neri, caro da dio! Vai in mona, anche se saluti con il pugno chiuso, sei un fighetto e un fascista da Pesaro, e non sai bere in compagnia. Non hai un briciolo di umanità. Poi vai a cercare il gabinetto per urinare. Se tu fossi un compagno, un comunista come me, e come millanti di essere, pisceresti contro i muri, come faccio io, caro da Dio!”.
Rispondevo che di notte, se non c’era la luna piena a illuminare la minzione indiscreta e se non passava nessuno, lo facevo anche io. Pisciavo serenamente contro tutti i muri di Debrecen, o contro gli alberi, non meno del più sfacciato dei cani.
“ Sì un cane fighetto e fascista”, replicava. Po gli veniva in mente Diana, la “casta diva”, e, ridacchiando come una iena, aggiungeva: “La luna un corno!” .
“Sì con un corno di luna, sottile come il sopracciglio di una ragazzina, e senza gente che passa, lo faccio” ribattevo. “Ma cossa vu to fare” gridava allora implacabile. “Tu non fumi nemmeno, sei un bamboccio viziato, un borghese e un fascista, quasi un nazista!”
“Io non fumo, perché non mi piace proprio!”, provavo a giustificarmi.
All’epoca era di moda fumare e chi non fumava nemmeno il tabacco era un individuo sospetto, un originale nel male.
“Non ti piace perché non vivi una vita marxista-leninista come me che aspiro e mastico soltanto tabacco albanese. Viva Lenin, viva Stalin, viva Ever Hoxha!”, concludeva alzando il pugno chiuso.
Nel luglio de 1972 Danilo non c’era. Forse si era perso dietro le volubili chimere evocate dall’alcool.
Quel giorno con Kaisa era il 28 di luglio. La finnica dagli occhi viola e i capelli nerissimi, insomma il mio tipo, dopo la palinka alla prugna disse che di notte aveva pensato a noi due, e siccome io la sera prima avevo detto di amarla, e, anzi, parlando le avevo fatto capire in quale catastrofe tragica e definitiva sarebbe precipitata tutta la vita mia, qualora il mio amore non fosse stato contraccambiato, e, d’altra parte per lei non era un sacrificio venirmi incontro dove volevo, anzi ne aveva una gran voglia lei pure, ebbene, se potevamo farlo senza disonorare quel buon uomo del marito che la aspettava con il bambino in Finlandia, se lei che era pur sempre una sposa, poteva contare sulla mia discrezione, non c’era bisogno di chiedermelo, ma certi suoi colleghi finlandesi avevano occhi puntati, da spie, non senza bifide lingue maligne, vibranti e pronte alla denuncia, insomma se fossimo stati attentissimi a non farci notare da tali serpenti velenosissimi, avremmo potuto mettere insieme, a buon frutto, le nostre reciproche inclinazioni, e vivere un amore non duraturo magari, ma bello sì, proprio bello.
“Conta sulla mia riservatezza”, le dissi, “per fare l’amore con te mi farei tagliare l’unico braccio utile che mi rimane”.
Avevo ancora l’avambraccio destro ingessato in seguito alla rovinosa caduta dalla bicicletta avvenuta giù per la discesa della panoramica di Pesaro nel precedente maggio odoroso.
Kaisa fece un sorriso di intesa e mi accarezzò il gesso.
“Bravo Gianni, arcibravo[3], ce l’hai fatta anche da monco- pensai- le tue parole, i tuoi gesti sono stati altrettanti tasselli di questa opera d’arte. L’arte è sempre il giudizio finale. E il premio è l’amore vissuto nella beatitudine”.
Ero compiaciuto assai di me stesso. Mi sentivo padrone dell’arte di sedurre donne sposate. Non pensavo che forse l’amore con una donna libera che non è costretta a mentire può dare maggiore soddisfazione. O lo pensavo ma non lo credevo. Tuttora, con il senno di adesso, non so cosa credere sulle donne e l’amore. So che mi piacciono molto e che divento tristissimo quando non piaccio a loro. Sciagura che dopo i sessanta capita sempre più spesso. Non essere contraccambiati è una grossa disgrazia in tutti i campi ma nell’amore è una tragedia. Con il senno invecchiato magari ci si innamora soltanto dopo essere stati contraccambiati. “Quelle che non mi contraccambiano, peggio per loro”, penso adesso con un callido anacoluto. “Se avessero del genio, capirebbero il mio”, è la conclusione consolatoria dei successi scemati.
In quel periodo recitavo la parte del Don Giovanni per reazione alle frustrazioni sessuali e mentali subite dalle femmine fino a pochi anni prima,: “Ah la mia lista doman mattina d’una decina deve aumentar!”[4] Canticchiavo tra me e me, quando andai a orinare, non contro un muro ma nel gabinetto, durante una pausa del corteggiamento riuscito. Poi mi guardai, immancabilmente, allo specchio. Ancora una volta nel mio volto vidi in filigrana mia madre. “Ciao mamma”, dissi alla duplice immagine “ti sono grato di avermi messo in questo bel mondo, in questa valle di lieti sorrisi”.
Poi aggiunsi “ sono l’ incarnazione della carme![5]”
giovanni ghiselli, cioè gianni il poverello, tutt’altro che fighetto di Pesaro, come diceva quel vecchio amico con l’hobby del bere ogni liquido spiritoso e con la scelta di fumare tabacco solo albanese. Da comunista verace, non salottiero. Non so lui, ma tanti altri comunisti di allora, adesso hanno rinnegato quella fede politica conclamata spesso quando era di moda.
Io continuo a credere che il comunismo vero sia l’opposto dell’egoismo, sia nobile, e che la vita vissuta per la polis, la vita politica insomma dedicata alla comunità, sia più felice e bella di quella privata. La mia è tutta dedita allo studio, all’educazione e all’amore non solo delle donne ma dell’umanità intera.
Bologna 12 marzo 2025 ore 11, 31. Che Dio me la mandi buona
p. s.
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