mercoledì 12 marzo 2025

Kaisa VI. Ci svestiamo del divenire. Il trenino magiaro e quello della valle di Fiemme. Da Ora a Moena. Il Natale a Sansepolcro.


 

Quel giorno stesso facemmo il massimo di quanto possono fare due poveri corpi mortali destinati alla putrefazione prima di andare in paradiso. Penso di essermelo meritato poiché, come scrive Strabone :"gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene (o{tan eujergetw'sin) , ma si potrebbe dire ancor meglio quando sono felici (o{tan eujdaimonw'si)"[1].

Quando fummo nella mia stanza  diventata negli ultimi anni un santuario dell’amore entrai subito in medias res dicendole che dovevamo cogliere l’essere spogliandoci del divenire.

Ne ridemmo, ci togliemmo i vestiti leggeri, e meravigliosamente ci conoscemmo.

Durante tutti i giorni concessi dal destino seguitammo  con gioia.

Eppure non avevo dimenticato Helena, la grande donna dell’anno precedente. Tendevo anche a una suvgkrisi~, a un giudizio comparativo, a un confronto, come si fa tra le due amanti più significative della vita.

Helena non tradiva il suo uomo, sebbene  incinta, perché quando venne a letto con me non aveva ancora deciso se tornare da lui e tenere il bambino, comunque mi aveva fatto innamorare con la bellezza e la nobiltà del suo stile;  Kaisa a sua volta, con quelle luci turchine sotto la fronte di giglio ombreggiata dalle negre chiome, occhi simili a laghi montani, specchi del cielo sereno, circondati da densi boschi di abeti scuri  mi aveva impressionato e stupito, come da bambino mi aveva  riempito di meraviglia il lago di Carezza dove si specchiavano i boschi scuri e le alte rocce chiare del Latemar.

Ebbene questa seconda donna importante della mia vita tradiva lo sposo con metodo, sia pure non senza qualche esplosione di follia amorosa, come vedremo. Tuttavia in generale era molto attenta a simulare e soprattutto a dissimulare: prima di entrare in camera mia aspettava che intorno ci fosse il deserto, e io, pur con l’avambraccio destro ingessato, nella sua stanza potevo entrare solo con goffe e ridicole acrobazie, dalla finestra, per fortuna non vertiginosamente alta, quando la notte era fonda, le luci dell’Università estiva erano tutte spente, e, a parte i nostri bisbigli e i sospiri dal bosco, tutto  il resto taceva.

 La storia di Kaisa potrebbe chiudersi qui.

 Potrei passare, lettore, all’ultima narrazione  della trilogia finlandese, quella di Päivi, la ragazza dai lunghi capelli rosso castani, dai grandi occhiali scuri, dall’aria pensosa, incontrata sotto l’alto tetto del megaron ombroso dell’Università di Debrecen nel luglio del 1974.

Ma voglio trattenermi e trattenerti ancora un poco nell’estate del 1972. Mi piace ricordare un episodio significativo avvenuto quando il nostro connubio mensile  aveva già un paio di settimane alle spalle. Spero di non annoiarti; so bene che annoiare è il crimine degli imbecilli.

Con gli altri Italiani e con i Francesi ero in un pullman che ci portava da Debrecen a Eger, in gita, per così dire, scolastica. Kaisa era nella corriera dei Finnici e di altri popoli più o meno asiatici.

Attraversata la puszta sitibonda, lungo la strada cominciarono a farsi vedere dei colli, e in breve tutto il paesaggio mutò rispetto alla grande pianura, priva non solo di alture ma, per vasti tratti, anche di alberi e di case coloniche. Le colline alberate, orlate di vigneti verdi, punteggiate dal bianco e dal rosso di piccole case, davano qualche conforto all’occhio stanco della puszta semideserta, e quell’anno, per giunta, secca, sitibonda, polverulenta dopo tre settimane canicolari.

 

Arrivati nei dintorni di Eger, cambiammo mezzo: salimmo su un trenino a scartamento ridotto, del tutto simile a quello che da Ora altoatesina e gemanofona , saliva fino a Predazzo nella valle di Fiemme da dove si proseguiva  fino a Moena dalla parlata ladina alquanto venetizzata

Facevo questo viaggio ogni anno in agosto dal 1948 fino a tutti gli anni Cinquanta, con le due zie materne Rina e Giulia  che non avevano avuto figli. Il loro nipote prediletto, cioè il loro figliolo ero io. La Rina da ragazza era stata assai bella. Non si era mai sposata per rimanere libera. Come avrei fatto pure io.

Però, diversamente da me, la zia Rina  non era   disposta a lasciare liberi gli altri.

Anche la zia Giulia non era male, ma era più chiusa in se stessa. Lei invece era sposata e avrebbe voluto dei figli, ma non erano venuti, con suo dispiacere grande.

Superati i cinquanta anni, le due zie prive di prole contavano su me come erede delle loro persone e quale prosecutore delle loro vite. In effetti non erano due donne banali: nate nei primi anni del Novecento, avevano fatto le maestre all’estero nel ventennio fascista. Dopo la caduta del regime e il loro rimpatrio, la Rina, a Pesaro, mandava avanti l’azienda agricola di sua madre con sette famiglie di mezzadri che lavoravano la terra, una sessantina di persone, di anime vive. In luglio mi portava a tutte e sette le trebbiature a Tavullia,  a  Montegridolfo e al Tavollo, e la vedevo tenere testa a tanti uomini e donne con lo stesso piglio autoritario che aveva anche in casa con tutti noi compresi i miei nonni e suoi genitori.   

 

Si arrivava dunque a Ora nel pomeriggio. Le zie mi indicavano un nido di rondini nel sottotetto della piccola stazione gialla, stazioncina tipica della vecchia Austria-Ungheria. Mi facevano notare che i genitori portavano il cibo ai pulcini. Loro due facevano le nutrici con me durante quel mese estivo. E non mi alimentavano solo con il cibo. Volevano che fossi il più bravo a scuola, che primeggiassi. Altrimenti secondo la Rina ero un cretino.  

Mi incoraggiavano a studiare, anche in agosto. Non ho fatto una gran carriera a dire il vero, ma alcune cose egregie mi sono riuscite. E sono grato alle zie, alle mamme vicarie. Dal loro autoritarismo, ho imparato, e contrario, l’indipendenza. E pure a fare bene quello che faccio. In ciò che non faccio, che non voglio fare mi rassegno a essere un cretino, anzi ne sono fiero. Racconto in breve qualche ricordo rimasto impresso nella Memoria, la madre delle Muse. Risalgo al 1954, quando avevo nove  anni e otto mesi. Diciotto anni prima di Kaisa.

Il trenino dunque saliva adagio verso il passo di San Lugano. La prima stazione era Montagna, la seconda Fontanefredde.  I toponimi erano scritti anche in tedesco. Le zie li leggevano in entrambe le lingue e ne sottolineavano il significato letterale con la loro bella pronuncia toscana, e non senza un’enfasi vagamente minacciosa, perché io capissi che dovevo lasciarmi infagottare di maglie e maglioni, con i quali indosso i miei movimenti da bambino “poco prudente” erano meno liberi e sciolti. Non volevano che mi sporgessi dal finestrino, e mi proibivano in particolare di toccare i rami protesi sulla ferrovia.  Dicevano che se li avessi afferrati mi avrebbero portato via un braccio. Cercavo di sfuggire a quelle maglie di forza, anche perché faceva caldo: Fontanefredde   o Kaltenbrunn che dire si voglia, è situata a  5 o 600 metri sopra il fondovalle assai caldo, poi era ancora estate e il freddo dell’acqua delle fontane eponime di quel paese si sarebbe sentito nell’aria solo parecchie settimane più tardi. Coprirsi di golf per quella duplice scritta sarebbe come sentirsi in dovere di pesare l’oro ogni volta che si passa da Pesaro[2]. Dovevo dunque ingegnarmi per evitare almeno una parte di quella tortura. Arrivato a indossare il terzo golf, dicevo che con un altro panno sarei stato troppo impacciato nel fare il nome del padre del figliolo e dello spirito santo, quando dal treno si fosse vista una chiesa. Le zie me lo avevano insegnato e imposto siccome  ci tenevano molto a crescermi credente e devoto, cioè sottomesso.

 Così mi consentirono di non indossare la quarta “buccia”, nonostante i mille metri fossero vicini con i loro “ aliti freddi ”; la Rina però, perché non credessi di potermi sottrarre alla sua volontà dispotica, mi gettava addosso una coperta che mi lasciava  muovere le braccia sì, però mi impediva di arrampicarmi fino ai bagagli  posti in alto, o di sporgermi dal finestrino allungando il collo per gridare alle bambine che osservavano il treno: “ciao, come ti chiami? Vieni a Moena anche tu ?”. Erano rosèe  e paffute. In fondo erano le prime nordiche della mia vita.

Poi invece a Moena mi innamorai di una bambina mora mora, una villeggiante venuta dalla pianura. Questo fu il primo insuccesso amoroso della mia vita. Lo racconterò più avanti.

Nei primi anni Sessanta il trenino è stato abolito e ora nella stazione antica c’è un bar con un piccolo teatro. La zia Giulia è morta nel 1982, la Rina nel 1991. E io, tutti gli anni, per Pasqua, andando a Moena in automobile, passo tuttavia per quella stazione storica, guardo l’angolo del sottotetto dove c’era il nido delle rondini, ricordo le mie zie, e rivolgo loro un pensiero di gratitudine grande  per avermi aiutato a diventare quello che sono, non dico un granché, ma di sicuro me stesso, non un altro qualunque. E’ un rito che ripeto tutti gli anni con commozione e rimpianto. L’ho raccontato perché lo devo alle sorelle di mia madre per quello che mi hanno lasciato di materiale e di spirituale.

Metto anche loro tra le donne che ho amato. Queste due donne sono vissute per me, e credo che siano contente, piuttosto contente del risultato, se possono vedermi. Devo dire un’altra sola cosa sul conto dei nostri rapporti. Non le ho mai lasciate sole per Natale come divennero vecchie e io ero ancora un giovanotto. Una volta quando ero andato a fare la consueta visita del solstizio invernale a un’altra delle mie mamme vicarie, l’ex collega Antonia di Carmignano di Brenta, questa amica già quasi ottantenne mi domandò cosa avrei fatto per Natale. Risposi che sarei andato a Pesaro per fare compagnia alle due zie, anzi tre, siccome in una casa vicina viveva la Giorgia, anche lei benevola e prodiga nei miei confronti. “Le sorelle Materassi”, le chiamava mia madre.

 “Perché?” Mi chiese la carissima amica sapendo della mia vita da scapolo quasi nella gaudente città di Bologna.

“Perché sono le mie consanguinèe più vecchie e più sole” risposi. E aggiunsi: “per Capodanno ci sarà anche mia madre e la porterò a cena”.

Allora Antonia mi fece un augurio che si è avverato: “Lei avrà fortuna, Gianni, perché è buono”. Raccolsi l’auspicio positivamente ominoso che non è stato smentito dai fatti. Anche questa amica ora è morta e quando vado a Moena, passo sempre per Carmignano di Brenta, dove la cara donna  è sepolta,  e porto alcuni fiori con tanti pensieri sulla sua tomba. E bacio la sua fotografia.

Dopo la morte di queste amiche sicure sono stato lasciato solo più di una volta per Natale, per Capodanno et cetera, da parenti, amici e da amanti altrimenti impegnate, con i loro eterni mariti o con un altro amante, ma non me ne sono dispiaciuto mai sapendo bene di essere diverso da loro e che doveva andare così.

 Uno di questi ultimi 25 dicembre ho preso treno fino ad Arezzo poi un taxi  che mi ha portato sulla tomba della mamma, dei nonni e delle zie a Sansepolcro. Sentivo vicine le loro presenze più vive dentro di me che  quelle di tanti conoscenti, ex amici spariti e, devo dirlo, pure ex amanti svanite nel nulla.

 

Ma torniamo all’estate del ’72, a Kaisa cui pure devo qualcosa di quello che sono.

Sul vagoncino ungherese rimanevo discosto dalla mia amata amante siccome pensavo che non mi amasse abbastanza da rischiare di farsi notare vicina a me in atteggiamento per lo meno amichevole dai finnici capitati nei nostri paraggi e capaci di denunciarla al legittimo sposo, l’eterno marito.

Mi venne in mente la zia Giorgia che biasimava gli “omacci sposati” che la corteggiavano quando lei invece cercava marito.

Sicché  restavo discosto da Kaisa e non la guardavo con intensità, ma avrei gradito molto che lei invece, siccome io ero libero, mi facesse almeno dei cenni di simpatia, di intesa, di complicità che comunque sarebbe rimasta segreta.

 

Bologna 12 marzo 2025 ore 19, 46 giovanni ghiselli

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[1] Strabone (64 ca a. C.-24 ca d. C.), Geografia, X, 3, 9.

[2] Servio a Eneide IV, 825, afferma che Pisaurum si chiama così (Pisaurum dicitur) perché là fu pesato l’oro (quod illic aurum pensatum est) che i Galli Senoni dovettero restituire a Camillo.

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