La lectio magistralis di Remo Bodei al festival della filosofia di
Modena (14-16 settembre 2012)
Ho seguito il primo pomeriggio
del festival della filosofia sulle cose: una festa di popolo e di studiosi che
parlano, nelle piazze, a tante persone che vengono a Modena, Carpi e Sassuolo
per imparare.
Ascoltano con attenzione, poi, dopo gli applausi, fanno domande
generalmente pertinenti. Ero nella piazza grande del capoluogo e ho pensato
all’agorà di Atene con i discorsi di Pericle e al suo “amiamo il bello con
semplicità e amiamo la cultura senza
mollezza (filokalou'mevn
te ga;r met j eujteleiva" kai;
filosofou'men a[neu malakiva",
Tucidide, II, 40, 1).
Gli studiosi che conoscono
bene e possiedono l’argomento con la mente, ne hanno una visione chiara e sanno
parlarne con semplicità competente, quella prudens
simplicitas[1] che è complessità risolta in frasi belle e piene di
significato.
Nelle
Fenicie di Euripide, Polinice afferma
che il discorso della verità è semplice:" aJplou'" oJ
mu'qo" th'" ajlhqeiva" e[fu" (v. 469) e una causa giusta non ha bisogno di
spiegazioni maculate (kouj pokivlwn dei' ta[ndic j eJrmhneumavtwn, v. 470).
"Veritatis
simplex oratio est" traduce Seneca (Ep. 49, 12).
Mi
è piaciuta in modo particolare la lectio
magistralis di Remo Bodei, che è
professore di filosofia presso
UCLA
Espone
con chiarezza le sue vaste conoscenze,
le riflessioni che ne ricava, e parla
con entusiasmo suscitando entusiasmo.
Bodei
ha distinto la cosa dall’oggetto attraverso dotte e interessanti etimologie.
Ha
collegato “cosa” con il latino causa,
come una questione che ci dà un motivo e ci sta a cuore, mentre “oggetto” viene da obiectum
che è participio passato di obicio,
“getto davanti”, “contrappongo”. Quindi l’obiectus,
nel latino medievale obiectum, è un impedimento, una barriera.
Bodei
ha poi ricordato che un significato analogo ha il greco provblhma, da probavllw, “getto davanti”.
L’oggetto
dunque ci ostacola, mentre la cosa-causa
ci dà motivi, ci spinge. Causa
rimanda anche a responsabilità e a causa legale, a discussione, e richiama il
tribunale, l’assemblea, la dimensione pubblica, la discussione, al pari di res il significato della cosa che,
mentalmente posseduto, suggerisce le parole, secondo il motto di Catone "Rem tene, verba
sequentur" [2]: la res
divenuta cosa mentale fornisce i verba
che sono collegati etimologicamente a rhetorica,
all’arte del parlare in pubblico e a parrhsiva, la libertà di parola senza la quale non c’è democrazia. Anche dal
nome latino dello Stato, res publica,
si vede come la “cosa” faccia parte della collettività della politica e della
storia
Nelle cose infatti
si depositano le idee e le azioni degli uomini. Conservano le nostre res gestae e quelle di chi ci ha
preceduto.
Le rovine sono
ancora cosa viva, certo più viva dei troppi oggetti che vanno a finire nelle
discariche.
Se riusciamo
a liberare le cose, a farle emergere dal fango dei luoghi comuni, a
ripulirle dalla polvere e dalla sabbia
della banalità, i nostri orizzonti, il mondo stesso si allarga. Le cose
conservano e mostrano gli affetti umani
in loro riposti. Possiamo redimere gli oggetti in cose salvandoli dalla loro
insignificanza. Tante cose sono simboli (suvmbola): segni di riconoscimento, metà di tessere che rappresentano periodi
della nostra vita, mantengono vivi ricordi di persone, di affetti, di gioie, di
dolori anche, dai quali possono sempre nascere intelligenza e comprensione.
Queste metà di tessere vanno riuniti con l’altra metà che è dentro di noi. Così
la nostra visione si amplia e la memoria, la vita stessa si allunga.
Le parole di Bodei
evocano alcune “cose” della letteratura piene di significati: il letto di
Odisseo che vale come chiaro segno di riconoscimento tra due coniugi separati
da vent’anni[3]; il tappeto rosso dell’Agamennone di Eschilo[4] l’ ambiguo segno teatrale che, steso
davanti al re vincitore, "non è affatto, come egli immagina, la
consacrazione quasi troppo alta della sua gloria, ma un modo di consegnarlo
alle potenze infere, di votarlo senza remissione alla morte, questa morte
"rossa" che viene a lui nella stessa "sontuosa stoffa"
preparata da Clitennestra per prenderlo in trappola come in una rete"[5].
Altro oggetto ambiguo, simbolico di guerra cavalleresca e di morte
disperata è la spada a borchie d’argento che Aiace riceve in dono da Ettore[6].
Con questa stessa arma il Telamonio si ucciderà nella tragedia di Sofocle dopo averla ricordata
come e[cqiston
belw'n (Aiace,
v. 658), la più odiosa tra le armi, e avere sentenziato che sono non doni, i
doni dei nemici e non sono vantaggiosi:"ejcqrw'n a[dwra dw'ra koujk ojnhvsima" (v. 665).
Virgilio riprende il topos con l'ensis lasciata[7]
da Enea e impiegata da Didone, quale dono richiesto non per essere usato in
quel modo[8],
ossia per il suicidio. L’ambiguità di
questa spada è totale: infatti essa è “oggetto” in quanto si oppone alla vita
ed è nello stesso tempo “cosa” carica di ricordi anche belli.
Le armi hanno spesso questa funzione simbolica:
si può pensare pure allo scudo di Archiloco che non si pente di averlo
abbandonato se ha salvato la vita[9], o a quello dei Germani
di Tacito che viceversa si impiccano dalla vergogna se lo hanno abbandonato[10].
Alcune
di queste cose, come abbiamo visto per la spada, vengono impiegate in vari
testi da autori diversi, come topoi o
loci, ossia "argumenta quae transferri in multas
causas possunt"[11].
Anche
le vesti possono assumere significati simbolici.
Il Cristo tribolato, l'ecce homo già prossimo alla morte,
quando viene esposto da Pilato è vestito di porpora[12], e Dario III, mentre si trovava a capo
dell' esercito persiano schierato a Isso contro Alessandro, era riconoscibile
per il suo sfarzo cui non mancava la porpora, ancora una volta un segno
sinistramente ominoso: "purpurae
tunicae medium album intextum erat"[13],
la tunica di porpora era intessuta d'argento nel mezzo. Il grande re di lì a poco si sarebbe capovolto in farmakov~, come Edipo e altri
personaggi della tragedia greca. Si potrebbero fare tanti esempi di cose piene di significato, dalla
veste di lino e di lana, volendo restare ai tessuti[14], alle coppe di Alceo
colme di vino e simboliche di amicizia conviviale.
Ma
preferisco tornare a Bodei, il quale del resto quando sono intervenuto, in fase
di dibattito, con una rassegna breve di tali “cose” in letteratura, mi ha
signorilmente ringraziato per il contributo. Un contributo suggerito da lui.
La
seconda parte della lectio magistralis
è stata più politica.
Dobbiamo
riscoprire il valore degli affetti che il PIL e i suoi fautori fanatici hanno
la pretesa di inumare. Ritrovare i piaceri della convivialità, i conforti della
solidarietà e della carità.
Il PIL
non può crescere all’infinito, e, fissare un’attenzione totale, esclusiva, sui
dati economici, può farci dimenticare la quintessenza della nostra umanità che
è l’amore per gli altri uomini. Marco Aurelio scrive che il compito dell’uomo,
come quello degli alberi, degli uccelli, delle formiche, dei ragni e delle api
è contribuire all’ordine del cosmo (sugkosmei`n
kovsmon[15]); ebbene, l’auspicata
crescita infinita del PIL può invece provocare il caos.
I devoti
guardiani del PIL mortificano le cose, le svuotano di bellezza, storia e poesia
trasformandole in oggetti da discarica. I nostri governi sii comportano come il
Prometeo del Protagora di Platone (322d). Il Titano distribuiva
agli uomini oggetti e tecnica, senza fornire arte politica, rispetto e
giustizia. I mortali si uccidevano a vicenda finché Zeus impose la presenza di
questi valori politici[16].
Bodei ha
denunciato con forza l’espropriazione operata dall’economia nei confronti della
politica oramai esautorata.
La
stessa democrazia viene avvelenata dal predominio tirannico del mercato e del
capitale. L’infezione è già in fase avanzata.
Nello
stesso tempo la tecnica dilagante tende a cambiare il mondo allontanando l’uomo
dalla natura con danno di tutti.
Aleggia un mivasma, una contaminazione,
come nella Tebe dell’Oijdivpou~ Tuvranno~ di Sofocle[17], o peggio dell’Oedipus di Seneca che ammette: Fecimus
coelum nocens" (v. 36), io ho reso colpevole il cielo[18].
Mi fanno
sperare Bodei e altri studiosi che hanno parlato a tante persone desiderose di
ascoltarle, attente e partecipi.
L’anno
prossimo il tema del festival sarà “amare”. Spero di esserci.
Giovanni
Ghiselli g.ghiselli@tin.it
[3]
nu'n d j, ejpei; h[dh shvmat'
ajrifradeva katevlexa~-eujnh'~ hJmetevrh~…peivqei~ dhv meu
qumovn, Odissea , XXIII, 225-226, “ma ora poiché mi hai detto il
segno chiaro del letto nostro…convinci il mio cuore”, dice Penelope a Odisseo
dopo la diffidenza iniziale.
[9]
Frammento6D.:
"uno dei Saii si vanta dello scudo, arma incensurabile
che, senza volere, lasciai presso un cespuglio.
Ma ho salvato la vita: che mi importa di quello scudo?
Vada in malora, presto me ne
procurerò uno non peggiore" .
[10]
Scutum reliquisse praecipuum
flagitium…multique superstites bellorum infamiam laqueo finierunt ( Tacito,
Germania VI).
Del resto i doni nuziali, iuncti boves, paratus equus, data armant, significano (denuntiant) che la sposa dovrà condividere
le fatiche e i pericoli del marito.
[12]
Exiit ergo Iesus foras, portans spineam coronam et purpureum
vestimentum. Et dicit eis-Ecce homo! ( Giovanni, 19, 5)
[14]
In De
Iside et Osiride Plutarco spiega che il
lino spunta dal seno della terra immortale e produce una veste semplice e
pura parevcei kaqara;n ejsqh`ta che non pesa ma offre riparo dal calore ed è adatta
ad ogni stagione e non genera insetti
Nel De Magia Apuleio scrive che la lana è escrescenza di un
pigrissimo corpo segnissimi corporis
excrementum (56). Già Orfeo e Pitagora la riservavano alle vesti dei
profani. Invece mundissima lini seges,
la purissima pianta del lino, tra i migliori frutti della terra, copre i santi
sacerdoti d’Egitto e gli oggetti sacri.
Erodoto scrive che gli Egiziani considerano empio
entrare nei santuari e farsi seppellire vestiti di lana (II, 81).
[16]
Nel Prometeo incatenato di Eschilo, il Titano si vanta dicendo pa'sai tevcnai brotoi'sin ejk
Promhqevw" ( Prometeo incatenato, v. 507), tutte le tecniche ai mortali derivano da
Prometeo. Ma riconosce di avere infuso negli uomini cieche speranze. ("tufla;" ejn aujtoi'" ejlpivda" katw/vkisa", v.250).
Egli è divinità solo apparentemente
benefica, in quanto portatore di
conoscenze pratiche fuorvianti:" qnhtou;" g j e[pausa mh; prodevrkesqai movron", ho fatto smettere ai mortali di
prevedere il destino"(v.248).
[18]
In La tragedia spagnola ( 1592) di Thomas Kyd
il nobile portoghese Alexandro, con pessimismo meno assoluto,
dice:"Il cielo è la mia speranza: quanto alla terra, essa è troppo infetta
per darmi speranza di cosa alcuna della sua matrice" (III, 1).
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