giovedì 2 gennaio 2025

Ifigenia 178. L’incontro alla stazione di Padova. Infinito e indefinito. Hetaera Esmeralda.

La incontrai la sera del 22 agosto verso le nove. Ero arrivato a Trieste intorno alle cinque e le avevo telefonato come si era d’accordo. Aveva detto: “Ci vediamo a Padova. Corro a prendere il primo treno. Ti amo!”

“Quanta fretta adesso! Il ganzo festivo l’ha lasciata”, pensai.

Invece risposi. “Benissimo: chi arriva prima aspetta nell’atrio della stazione, davanti all’edicola chiusa”.

“Chiusa e refrattaria come sei stata tu per un mese con me” pensai. Volevo fargliela pagare.

Ero lì sulle 20, 30. Durante il tragitto, mentre guidavo la nera Volkswagen,  le emozioni si erano variegate. Vagavo comunque lontano dalla gioia. Ifigenia non era ancora arrivata. La pena non era smaltita, però avevo aperto uno  breve pertugio alla speranza che nel vederci avremmo ritrovato l’intesa erotica dell’autunno precedente.

Speravo che il lepóre e la fragranza della sua carne fresca avrebbe dissolto l’ angoscia della mente e del cuore  che mi aveva tormentato per un mese nel luogo dove in anni passati avevo vissuto i mesi più belli della mia vita con donne migliori.

Pensavo pure di avere non poco in comune con quella donna nonostante le stridenti diversità.

Entrambi preferivamo l’indefinito con la continua ricerca dell’amante migliore di quello presente, a disposizione, rispetto all’infinito con la parousiva del matrimonio con la persona da amare per sempre contemplata sub specie aeternitatis.

Se a Debrecen invece della tedesca bionda e piuttosto opulenta avessi incontrato un’altra femmina augusta bruna come Elena o rossa come Päivi, avrei ripetuto  le gesta del 1974 quando tornai da Gianna pur buona e carina e mi sarei preso della prostituta  dopo averle detto che mi ero innamorato di un’altra. E per dirla tutta quando Elena la mulier maxima della mia vita fu partita dalla stazione orientale di Budapest andai a cercare Claudio e, quasi  sul serio,  gli dissi: “adesso noi due si va a donne di nuovo insieme, come ai bei tempi.”

Oppure quando mia sorella mi annunciò che aspettava una bambina. “Anche io replicai, ma non mi sento ancora maturo per questo passo”.

“Hai trenta anni, quattro più di me e sei un cialtrone” sbottò Margherita. “Devo restare nell’indefinito”, mi giustificai.

E in effetti ho continuato a rimanere nell’indefinito  fino a 76 anni quando ho incontrato l’infinito della solitudine.

Ma torniamo all’agosto del 1979.

Ifigenia scese dal treno vestita di rosso. Un colore che fa pensare a un tappeto trionfale o a un manto purpureo, imperiale, e pure al sangue che esce dalle ferite e al vestito di porpora dell' Ecce homo, il Cristo tribolato che, già sacro alla morte, viene portato fuori da Pilato. "Exivit ergo Iesus portans   spineam coronam et purpureum vestimentum. Et dicit eis - Ecce homo!" (N. T. Giovanni, 19, 5).

La ragazza fece una corsa fino al mio petto  pesandomi addosso. Aveva le lacrime agli occhi.  " Lacrimae iussae" pensai.

Avevo assunto l' atteggiamento anticristico dell'Inquisitore dostoevskiano.

 Prima di parlare la ragazza mi fece sentire il frequente palpitare del cuore sotto il seno. Ma capiva che tali vezzi non potevano consolare le mie pene. Sicché replicava a  dismisura le scene e le menzogne. Disse che mi adorava, che le ero mancato fino quasi a morirne, che la mancanza della mia presenza l'aveva resa inerte e muta. Tali sproloqui mi disturbavano e innervosivano assai. Doveva credere che la visione  delle sue forme fiorenti e i profumi emanati da tanto rigoglio carnale mi avrebbero inebbriato. Ma io vedevo solo una satanessa dalle intenzioni malvagie. Perfino il suo aspetto mi pareva infernale. Nessun lepóre, proprio nessuno.

Non ne potevo più e la interruppi per porle la domanda che mi girava in testa da settimane:" Perché non mi hai mandato l'espresso che mi avevi preannunciato con un telegramma? Non credi che questa spiegazione debba venire prima di tutte queste moine?"

"Sì, ora ti spiego" disse abbassando gli occhi e tacque.

"Maledetta - pensai - ora confessa la propria fellonia, magari cercando di farla passare per un'opera buona. Se vuole riprendere a fornicare con me, la tratterò come un uomo sputtanato dalla sua concubina".

Stavo per dirle: "vattene e non tornare più, non tornare mai più"[1].

Capì che i miei non erano lieti pensieri d'amore e cercò di imbonirmi: "Gianni, tesoro, non pensare male di me: non ti ho scritto una lettera temendo di essere giudicata di levatura letteraria troppo bassa per il linguista raffinato che sei. Ho cercato di dirtelo al telefono ma quando ci siamo sentiti me ne è mancato il coraggio. In seguito ho cercato di telefonarti diverse volte ma non ti trovavo mai."

"Stai a vedere che è colpa mia", pensai. Quindi le domandai controllando a stento lo sdegno: "Dove hai telefonato? In collegio non era possibile"

"All'hotel Aranybika. Me l'ha suggerito la Hetaera Esmeralda".

Era una nostra conoscente così chiamata per gli occhi verdi e la vita che conduceva: equivoca usando un eufemismo.

Era una di quelle farfalle amanti dell'ombra crepuscolare sotto le fronde. Una creatura malata.

 

Bologna  2 gennaio 2025 ore 18, 55 giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Cfr. Dostoevslkij, I fratelli Karamazov, libro V, capitolo 5

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