Il mese di marzo fu vario. Ifigenia venne chiamata per un’altra supplenza dopo la pausa invernale. Nell’ultima settimana c’era la gita scolastica a Roma e le nostre classi vennero abbinate forse per significare che dovevamo metterci nella grazia di Dio in quanto già di fatto accoppiati. I vescovi mandati nella Bologna rossa all’epoca erano reazionari e contavano molto nella città che era stata papalina.
C’erano anche altri colleghi: Giovanni Botta di Filosofia, e Lucia con i loro allievi.
Il giorno prima della partenza andai nella segreteria per firmare dei fogli. Mentre entravo, udìi una collega anziana che gridava: “Nel nostro liceo succede l’inaudito! Davvero quel pestifero professore andrà in gita scolastica con due colleghe giovani e belle, come se non gliene bastasse una?”
Poi si voltò e mi vide. Quindi abbassata la voce ripetè la domanda un poco edulcorata: “sul serio lei andrà a Roma con quelle due signorine?”
“Sì e con tante signorine studentesse carine, diversi studenti maschi carini anche loro, e il professor Botta, un caro amico”.
Allora assunse il tono della celia e fece: “ Si dice che lei abbia venduto l’anima al diavolo, ma io non ci credo”.
“Fa bene, stimatissima collega: non posso vedere l’anima a chicchessia perché non ce l’ho!”
Rimase un attimo perplessa poi rincarò lo scherzo volgendolo al demenziale: “Vado a Roma, cuccurucù, vieni anche tu!”
“Facciamo finta di niente”, pensai, e dissi:
“Ma sì venga anche lei, squisita collega: a Roma c’è da divertirsi un sacco!”.
Ma veniamo alla gita.
Ricordo una visione che mi ha impressionato. Ero seduto con Ifigenia sul bordo di una fontana poco prima dell’ora di cena. S’era fatta una passeggiata per suscitare l’appetito e meritarci un secondo di pesce, senza patate né pane. Eravamo entrambi molto attenti alla linea, contenti e fieri di essere snelli.
Guardavamo le ultime luci del giorno languide eppure tiepide. L’aria era piena di voli e di suoni. La primavera arrivava a grandi passi.
A un tratto vedemmo il collega di filosofia che avanzava verso di noi. Questo era un uomo ancora giovane il quale camminava con passo di danza, non per vezzo o per posa ma per una menomazione congenita. Era un ottimo professore e gli volevamo bene. Giovanni dunque ogni tre metri si piegava a sinistra, come se fosse stato colpito da un plotone di esecuzione- pronus erat Titan[1]- ma poi si raddrizzava di scatto con un’energia da vero titano, quindi procedeva nel suo travaglioso cammino. Fino alla successiva fucilazione. Era a modo suo un ballerino.
Prima che lui mi sentisse, dissi a Ifigenia che mi sembrava un eroe tragico in lotta con un destino implacabile eppure incapace di averla vita su quella tempra indomita.
Inoltre pensai che in quel momento la zoppia poteva raffigurare il nostro rapporto che vacillava scosso da vènti, da onde, da terremoti intermittenti e pure frequenti.
Quando Giovanni fu giunto gli chiedemmo se voleva cenare con noi.
Pensai chi i titani claudicanti non sono gli eterni nemici della cultura come quelli dalle gambe robuste.
Bologna 6 gennaio 2025 otre 17, 51 giovanni ghiselli
p. s.
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