lunedì 13 gennaio 2025

Ifigenia 232- Forse era giunto il tempo della maturità.


 

Nel pomeriggio mi diedi a preparare le lezioni del giorno seguente, più l’italiano e la storia che il greco e il latino, ancora ai rudimenti.

 Cercavo comunque di innovare: insegnavo vocaboli chiave e stilemi costentualizzati in frasi belle di ottimi autori che colpissero, impressionassero la sfera emotiva e la fantasia degli scolari quattordicenni e si imprimessero nella memoria. Ricordavo come avevo scoperto la mia predisposizione per la letteratura greca una volta superata la fase dei tecnicismi.

La bellezza creata dagli ottimi autori serve alla vita: la potenzia.

Volevo l’attenzione di quei ragazzini. Sapevo che potevano aiutare me e loro stessi se provavano interesse per quanto raccontavo, che mi avrebbero curato l’anima ulcerata. Intanto mi aiutava il mio impegno per loro.

 

Dopo cena telefonai a Ifigenia. Ero in balia di contraddizioni dolorose e non trovavo il criterio atto a risolverle. Non sapevo nemmeno definirle con precisione. Però sentivo che mi dilaniavano il petto come canidi dai denti aguzzi e affamati. Ferite ignobili inflitte dalle bestie più brutte e cattive: iene, sciacalli e altri mostri del genere, il peggio della bestialità.

  Ci fu un dialogo non risolutivo tra noi: ripetevamo le solite parole già dette relative alla fedeltà, ai tradimenti, alle paure, ai ricordi, alle speranze.

Arzigogoli oziosi e inutili. Ne ho già scritte e non mi ripeto per non annoiarti, lettore e non sentirmi imbecille del tutto, il cretino integrale che annoia.

Meditai e rimuginai tutta la notte.

A tratti davo spazio alla mia indole tragica e all’abito letterario indossato fin dall’infanzia. Allora citavo Shakespeare: “Ho l’anima piena di scorpioni”.

In altri momenti mi venivano in mente delle battute del nostro repertorio comico. Come il saluto mattutino quando prendevamo il primo caffè insieme in un bar.

“Buon giorno Lonzi”, faceva lei.

E io: “che cosa vuol dire?”

E Ifigenia: “Bellonzi. Ti chiamo così per non farmi capire da altri, mentre io ne godo. Anche tu vero?”

“Certo amatissima donna, ne gioisco, non tanto però quanto gioirò più tardi nel talamo dei nostri tripudi sacri, benedetti anche dai diaconi santi”.

Quindi mi venivano in mente alcune battute del nostro repertorio goliardico-letteraro: “il mondo, quando tu non ci sei, non è migliore di un grosso porcile e casa mia diventa la caverna platonica”

“La mia dimora orba di te - rilanciava lei- mi appare più sporca e fetida delle stalle di Augia”.

Durante buona parte del giorno seguente continuai a dibattermi cercando la risoluzione che dovevo a lei e a me stesso per non impazzire.

Finché, sul far della sera, a un tratto dentro di me si accese la luce del criterio che mi avrebbe tirato fuori da quell’inferno.

Il criterio della Giustizia che altre volte in passato mi aveva salvato dalla disperazione: da quando, fin da bambino, guerreggiavo contro i soprusi di quanti volevano sottomettermi: parenti, preti, maestri, poi professori, presidi, colleghi, i falsi amici. le amanti  sciocche o furenti.

Mi dissi che quanto stavo facendo e dicendo a Ifgenia non era giusto, anzi era un’iniquità stupida, cattiva e meritevole dell’ira divina che non avrebbe tardato a punirmi.   Dio mi aveva illuminato, e mi avrebbe esaudito. Mi sentivo forte e felice. Erano le quattro del pomeriggio del 30 novembre 1980. Ifigenia quel giorno compiva ventisette anni. Il 14 io ne avevo compiuti 36.

Era tempo, era già tempo che mettessi la testa a posto.

Sollevai il telefono per darle la buona notizia, proprio evangelica.

Sentivo di amarla siccome mi rendeva migliore, come aveva fatto Helena la finlandesa augusta quando mi disse: “Io non sono materia” una sera di un agosto remoto.

 

Bologna 13 gennaio 2024 ore 10, 23 giovanni ghiselli

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