Nell' Edipo re Sofocle afferma l'esistenza di "leggi sublimi procreate/attraverso l'aria celeste/ di cui l'Olimpo/ è padre da solo/né natura mortale di uomini le generava/ né mai dimenticanza/potrà addormentarle:/grande c'è un dio in loro e non invecchia"(vv.865-872).
Questi versi ricordano i 454-457 dell'Antigone dove la protagonista contrappone gli editti (khruvgmaq j 454) di Creonte alle norme non scritte e non vacillanti degli dei (a[grapta kajsfalh' qew'n novmima 454) che non sono di oggi né di ieri.
A tali diritti la figlia di Edipo dà la precedenza poiché sono sempre vivi ( ajeiv pote -zh'/ tau'ta Antigone, 456-457) come i vaticini dell'Edipo re i quali erompono dall'ombelico della terra, sono sempre vivi e volano addosso a chi vuole tenerli lontani (Edipo re, vv.480-482).
La volontà divina dunque si manifesta attraverso un pullulare di mantei'a, novmoi, novmima che nelle scelte degli uomini, quando esse si impongono, devono avere la precedenza rispetto alle disposizioni dei legislatori; questi, d'altra parte, nel redigere i codici, non dovrebbero mai formulare regole contraddittorie rispetto alle norme divine, ma rispecchiarle e avvalersene.
Così fece il legislatore spartano il quale anzi si recò a Delfi per farsi suggerire la rJhvtra ( prw'ton me;n ajpedhvmhsen eij" Delfouv": kai; tw'/ qew'/ quvsa" kai; crhsavmeno", ejpanh'lqe to;n diabovhton ejkei'non crhsmo;n komivzwn, w|/ qeofilh' me;n aujto;n hJ Puqiva prosei'pe kai; qeo;n ma'llon h] a[nqrwpon, eujnomiva" de; crh/vzonti didovnai kai; katainei'n e[fh to;n qeo;n h} polu; krativsth tw'n a[llwn e[stai politeiw'n", in primo luogo si recò a Delfi, e dopo avere sacrificato al dio e avere consultato l'oracolo, tornò portando quel famoso responso, con il quale la Pizia lo chiamò caro agli dei e dio più che uomo, e disse che il dio dava le buone leggi a lui che le chiedeva e prometteva che la sua sarebbe stata di gran lunga la migliore tra tutte le costituzioni, Plutarco,Vita di Licurgo , 5).
Questa del resto non era scritta:"novmou" de; gegrammevnou" oJ Lukou'rgo" oujk e[qhken", Licurgo non promulgò leggi scritte, op. cit. 13).
Nello stesso modo non erano scritte le antiche usanze ateniesi invocate da Adrasto supplice davanti a Teseo per ottenere un aiuto contro i Tebani che non volevano restituire i cadaveri dei caduti. Il comandante argivo pregava di non permettere che tali uomini restassero insepolti né venissero aboliti quegli antichi costumi e quelle leggi patrie di cui tutti gli uomini continuano ad avvalersi in quanto non sono stabiliti dalla natura umana bensì imposti dalla potenza divina:" ejdei'to mh; periidei'n toiouvtou" a[ndra" ajtavfou" genomevnou" mhde; palaio;n e[qo" kai; pavtrion novmon kataluovmenon, w|/ pavnte" a[nqrwpoi crwvmenoi diatelou'sin oujc wJ" uJp j ajnqrwpivnh" keimevnw/ fuvsew", ajll j wJ" uJpo; daimoniva" prostetagmevnw/ dunavmew"", Isocrate, Panatenaico, 169).
Difesa delle leggi scritte
G. Ugolini sostiene che le leggi scritte sono anteposte a quelle non scritte dai sostenitori della democrazia e fa l'esempio delle Supplici di Euripide dove "Teseo si produce in un'esaltazione del sistema democratico (...) replicando alle accuse dell'araldo, puntualizza un aspetto della democrazia che in questa sede ha grande rilevanza: mentre nella città governata da un tiranno la legge è del tutto arbitraria, in un regime democratico (Eur. Suppl. 433-437): le leggi sono scritte (gegrammevnwn tw'n novmwn), la giustizia è uguale per il debole e per il ricco[1].
Chi è più debole può fronteggiare chi sta meglio, qualora ne riceva offesa, e quando ha ragione il piccolo prevale sul grande. Al di là dei topoi democratici ricorrenti nel discorso di Teseo, che per molti aspetti hanno richiamato il parallelo con l'epitafio di Tucidide[2], è importante soffermarsi sul nesso che egli istituisce tra "leggi scritte" e democrazia: la pratica effettiva della giustizia e dell'uguaglianza tra i cittadini, indipendentemente dai loro rapporti di censo e di forza, è garantita dalla scrittura delle leggi, che tutela i diritti dei meno potenti[3]. La necessità e la difesa della scrittura delle leggi doveva essere percepita come un punto essenziale della propaganda democratica nell'ambito di quella tensione e contrapposizione che vi era ad Atene tra la legislazione scritta della polis e quella orale propugnata e gestita dalle casate aristocratiche"[4].
Sofocle si inserisce nel dibattito acceso dalla sofistica: esso contrapponeva le leggi naturali a quelle artificiali o culturali. Delle une e delle altre vengono date interpretazioni differenti.
Il poeta di Colono non considera naturali e degne di obbedienza le regole che lasciano correre o addirittura convalidano l' u{bri", intesa come prepotenza, sia essa di un tiranno, suo parto mostruoso ( u{bri" futeuvei tuvrannon, Edipo re, v.873), sia di un popolo intero che per avidità di maggior avere (pleonexiva) fa guerre aggressive foriere di stragi e lutti, tanto per gli aggrediti quanto per gli aggressori.
Vediamo alcune altre posizioni illustri su questo problema.
Nelle Storie di Tucidide (II,37) Pericle durante il logos epitafios menziona le leggi scritte e pure quelle non scritte poste a tutela di chi subisce ingiustizia. "o{soi te ejp j wjfeliva tw'n ajdikoumevnwn kei'ntai kai; o{soi a[grafoi o[nte" aijscuvnhn oJmologoumevnhn fevrousin, quante sono poste a tutela di chi subisce ingiustizia e quante, sebbene non scritte, sanciscono un disonore riconosciuto da tutti.
Tali novmoi sarebbero stati i più sentiti e seguiti nell'Atene di Pericle.
E’ però evidente che nei rapporti con gli “stranieri” , gli Ateniesi non ne tenevano conto, almeno dopo la morte del "re non coronato": infatti nel famigerato dialogo con i Meli, gli invasori, per coonestare la loro aggressione proclamano: “ riteniamo infatti che la divinità, secondo una congettura, e l'umanità in modo evidente, in ogni occasione, per necessità di natura ("dia; panto;" uJpo; fuvsew" ajnagkaiva"", V, 105, 2) dove sia più forte comandi-ou| a]n krath'/ a[rcein-“
Subito dopo gli Ateniesi aggiungono che tale diversità di atteggiamento verso i concittadini liberi e il resto del mondo, è tipica anche dei Lacedemoni i quali, se all'interno, secondo le loro tradizioni, fanno uso della virtù, nel trattare le altre genti identificano l'onestà con quanto piace a loro, e la giustizia con il proprio interesse. Insomma virtù senza morale per dirla con Nietzsche.
Alla imposizione della prepotenza imperialistica, invano gli abitanti di Melo oppongono la fiducia di non finire soverchiati, grazie alla potenza suprema degli dei, alleati degli uomini pii e giusti contro i prevaricatori.
Qesto confronto tra i diritti della forza e della giustizia, si trova già nelle Opere di Esiodo, nell'ai\no" dell'usignolo e dello sparviero che chiama stolto chi vuole contrapporsi ai più forti:" a[frwn d j o{" k j ejqevlh/ pro;" kreivssona" ajntiferivzein" (v. 210).
Un'affermazione del resto non condivisa dall'autore, almeno per quanto riguarda la società umana dove la giustizia alla fine dei conti prevale sulla violenza (vv.217-218). Il poeta di Ascra è uno dei grandi assertori dell'immanenza di Divkh, in ottima compagnia con Solone :"pavntw" u}steron h\lqe divkh", comunque più tardi la giustizia arriva (I D., v.8) e con Eschilo:"ouj ga;r e[stin e[palxi" plouvtou pro;" kovron ajndri; laktivsanti mevgan Divka" bwmovn", infatti non c'è difesa per l'uomo, che proteso a sazietà di ricchezza, ha preso a calci il grande altare della Giustizia (Agamennone, primo stasimo, vv. 381-384).
Sofocle si trova in sintonia con questi profeti di Divkh. Così pure il Socrate personaggio dei dialoghi platonici.
Il giusto predominio della forza è invece proclamato, oltre che dallo sparviero di Esiodo e dagli Ateniesi aggressori di Tucidide, da Callicle del Gorgia di Platone.
Bello e giusto per natura, sostiene il sofista, è che chi vuole vivere rettamente lasci diventare il più possibile grandi le sue brame, e non le freni, anzi sia capace di assecondarle proprio quando sono enormi:" [Alla; tou't j ejsti; to; kata; fuvsin kalo;n kai; divkaion (...) o{ti dei' to;n ojrqw'" biwsovmenon ta;" me;n ejpiqumiva" ta;" eJautou' eja'n wJ" megivsta" ei\nai kai; mh; kolavzein, tauvtai" de; wJ" megivstai" ou[sai" iJkano;n ei\nai uJphretei'n (491e-492a); ce lo insegnano anche mito e poesia: l'Eracle di Pindaro portò via le vacche di Gerione senza pagarle:"levgei d j o{ti ou[te privameno" ou[te dovnto" tou' Ghruovnou hjlavsato ta;" bou'", wJ" touvtou o[nto" tou' dikaivou fuvsei, kai; bou'" kai; ta\lla kthvmata ei\nai pavnta tou' beltivonov" te kai; kreivttono" ta; tw'n ceirovnwn te kai; hJttovnwn", il poeta dice che senza averli pagati né ricevuti in dono si portò via-ejlauvnw- le vacche di Gerione, poiché questo è giusto per natura, che cioé i buoi e le altre proprietà del meno valente e più debole siano tutte del migliore e più gagliardo (484c).
Tale teoria-continua Callicle- è biasimata dai più siccome costoro, la maggioranza non ha la capacità di attuarla:" ajlla; tou't j , oi\mai, toi'" polloi'" ouj dunatovn: o{qen yevgousi tou;" toiouvtou" di j aijscuvnhn, ajpokruptovmenoi th;n auJtw'n ajdunamivan", ma questo, penso, non è possibile per i più: perciò biasimano gli uomini siffatti, per vergogna, cercando di nascondere la propria impotenza (Gorgia, 492a).
Socrate riconosce che Callicle ha esposto il suo pensiero con franchezza non ignobile (oujk ajgennw'" parrhsiazovmeno") , però il maestro di Platone si colloca sulla linea della virtù con la morale sostenendo che subire ingiustizia è male, ma infliggerla è peggio:"mei'zon mevn famen kako;n to; ajdikei'n, e[latton de; to; ajdikei'sqai"(509c).
Le leggi divine secondo Platone devono essere predominanti: dio è la legge per gli uomini saggi, mentre per gli stolti il piacere:" qeo;" de; ajnqrwvpoi" swvfrosin novmo", a[frosin de; hjdonhv"(Epistola VIII, 355a).
Antifonte sofista contrappone novmo" a fuvsi". Ebbene, la maggior parte delle determinazioni giuste secondo la legge, sono state emanate in maniera ostile alla natura ( Intorno alla verità, Fr. A, Col II, 25-30). Per natura siamo tutti uguali, barbari e greci(Fr. B, Col II,10-15).
Una presa di posizione che contrasta fortemente con quella dei più, dei quali forniamo un esempio solo, ma di poeta autorevole e, per giunta, tale che passa per progressista o illuminato:"barbavrwn d j {Ellhna" a[rcein eijkov", ajll j ouj barbavrou"- mh'ter, JEllhvnwn: to; me;n ga;r dou'lon, oi{ d j ejleuvqeroi." , è naturale che i Greci comandino sui barbari, non i barbari, o madre, sui Greci: infatti noi siamo liberi, quelli schiavi, proclama l'eroica fanciulla protagonista dell' Ifigenia in Aulide, (vv.1400-1401) di Euripide scritta verso fine della vita del poeta e della guerra del Peloponneso quando gli Spartani ricevevano un aiuto finanziario dai Persiani visti come orientali successivi ai Troiani.
Del resto Andromaca nelle Troiane del 415, rappresentate poco tempo dopo l’eccidio di Melo, in due versi cruciali accusa i Greci di essere loro i veri barbari: “w\ bavrbar j ejxeurovnte~ [Ellhne~ kakav-tiv tonde pai`da kteivnet j oujde;n ai[tion ; (vv. 764-765), o Greci inventori della barbarie, perché uccidete questo bambino che non è colpevole di niente? Ammazzare un bambino per paura di suo padre è la viltà e la barbarie più grande che ci sia.
Per concludere il discorso e non farlo diventare troppo lungo, citiamo due autori moderni: uno dell'Ottocento, uno del Novecento.
Manzoni nella penultima scena dell'ultimo atto dell'Adelchi rappresenta il protagonista amareggiato che dice :" non resta/ che far torto, o patirlo. Una feroce/ forza il mondo possiede, e fa nomarsi/ dritto".
Don Lorenzo Milani in L'obbedienza non è più una virtù (p.38) scrive:"Non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo di amare la legge è d'obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioé quando sono la forza del debole.) Quando invece vedranno che non sono giuste (cioé quando sanciscono il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano combattute".
Bologna primo marzo 2025 ore 19, 49 giovanni ghiselli
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[1] Nelle Supplici di Euripide, Teseo propugna la democrazia e dice all’araldo tebano mandato da Creonte che quando c’è un tiranno non esistono più leggi comuni (novmoi- koinoiv, vv. 430-431). E procede: “gegrammevnwn de; tw'n novmwn o{ t’ ajsqenh;~-oJ plouvsiov~ te th;n divkhn i[shn ecei ” (vv. 433-434), quando ci sono le leggi scritte il debole e il ricco hanno gli stessi diritti (ndr).
[2]II, 35-46.
[3]“Anche in Eur. Hec 866 sgg. c'è un nesso tra scrittura delle leggi (novmwn grafaiv) e potere del popolo (plh'qo")”.
In questo contesto tuttavia il plh`qo~ povlew~ e grafai; novmwn possono costituire un impedimento alla libertà e al vivere secondo le proprie inclinazioni (Ecuba, v. 867).
Non c’è mortale che sia libero, in quanto siamo schiavizzati da denaro o dalla tuvch,
o dalla folla o dalle leggi scritte.
Possiamo trovare note addirittura ottimistiche nelle Supplici, rappresentate nel 422, quando si profilava la pur malsicura pace di Nicia. Un ottimismo assente dall’Ecuba del 424.
) ndr
[4]G. Ugolini, Sofocle e Atene , pp. 150-151.
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