Nell’estate del 1968 non avevo alcuna possibilità di fare il massimo con Eeva che gradiva la mia compagnia sì, ma non oltre la cena pur polungata.
Avevo invece davanti agli occhi la prospettiva di farlo con una ragazza di Debrecen, Katalin, bella assai e molto bendisposta nei miei confronti.
Non la contraccambiai perché quella venusta ventenne parlava solo ungherese e il nostro dialogo era assai limitato, quindi capivo che non era attirata dalla mia persona bensì dalla parte che recitavo e cominciavo già a non sentire come mia, quindi a interpretarla male: quella del fighetto italiano con Mini Minor, scarpe, camicie, maglie, giacche di marca buona, cioè piuttosto costosa per uno studente. La correggevo professandomi comunista perché mi sembrava elegante essere di sinistra. Avevo votato per la prima volta in maggio: democrazia proletaria, l’estrema sinistra parlamentare.
Fulvio che allora si dichiarava fascista, mi faceva notare che il più vicino al popolo tra noi due era lui: mi ricordò il caso Philby e di altri giovani facoltosi britannici di famiglia borghese che fin dagli anni degli studi avevano abbracciato la causa del comunismo e che, dopo essersi infiltrati nell'intelligence, erano diventati agenti al servizio dell'URSS.
Quando intorno a metà agosto sentimmo e vedemmo passare nel cielo degli aerei diretti a nord-ovest, l’amico disse: “eh sì eh gianni, questi sono i sovietici che vanno a occupare Praga. Io reagìi gridando: “stai zitto Fulvio, fascista, sei il primo della lista!”.
Gli risparmiai un altro slogan di allora: “fascisti., carogne, tornate nelle fogne!”.
Il tono era scherzoso poiché pensavo che pure Fulvio scherzasse. Invece diceva sul serio e i fatti gli diedero ragione.
Eravamo di idèe politiche opposte, eppure ci siamo sempre voluti bene.
Ora, pagato il debito al “politico” che non deve mai mancare, torno al privato.
La Magiara era bella ma poco espressiva e fine. Preferivo uscire con Eva siccome mi insegnava di più sebbene il suo corpo non fosse irreprensibile: mi motivava a comportarmi con intelligenza e buon gusto per essere accettato da lei anche solo quale commensale e compagno di cori cantati o danzati. Volevo frequentarla come maestra di stile. Era dotata di anima.
Ricordo una sera in cui andammo a ballare al Művesz una cantina dal nome significa “Artista”. Fuori pioveva. Quella fu un’estate di piogge: un’estate non estate a Pesaro, a Debrecen, sullo Starnbergersee[1].
Dove era affogato Ludwig, il sovrano lunatico del film di Visconti che mi sarebbe piaciuto quant’altri mai. Sarei andato a vederne i castelli teatrali con Ifigenia nel 1981 verso la fine della nostra storia.
Morte e resurrezione del re pescatore.
Docce continue di gocce fredde cadenti da un cielo privo di luci, quasi sempre coperte da nuvole acquose.
Pioveva spesso dunque nell’agosto del 1968 e la donna che bramavo non contraccambiava la brama mia. Però il dispiacere non mi fece impazzire né mi depresse: avevo infatti la sorte quale maestra: “tuvchn ga;r ei[con didaskalon”[2].
Mi aveva insegnato che quella donna mi avrebbe aperto altre vie con il suo esempio. Alcune donne sono degne di studio, altre sono proprio borse di studio.
Quella sera Eva disse che aspirava all’arte poiché soltanto il contatto con la bellezza la faceva sentire viva.
“Già-rilanciai – adulandola-
‘E in te beltà rivive
L’aurea beltade ond’ebbero
Ristoro unico a’ mali
Le nate a vaneggiar menti mortali’ ”[3].
Poi aumentai la dose: “Beauty is truth, truth beauty”, that is
all-
Ye know on earth, and all ye need to
know[4]”.
Troppo in una volta: da arricchito intellettuale.
Nel gennaio del ’65 avevo dato un esame complementare di letteratura inglese con un professore, l’ottimo educatore e cara persona Carlo Izzo, che non si fermava ai tecnicismi come quasi tutti gli altri e ne ero rimasto affascinato. Avevo studiato testi greci e latini senza una guida valida eppure pensavo già la letteratura in modo comparativo. Ma ancora con scarsa coscienza e intelligenza di come tutto lo studio andasse comparato alla vita.
Io ricordavo a memoria sei versi e li citavo, anche troppo, Eva la poesia la viveva. E mi educava. Ogni sera pendevo dalle sue labbra dandole in cambio poco più che la mia ammirata attenzione. Evidentemente non le bastava per contraccambiare il mio amore. Mi dispiaceva.
Cercavo di attirarla con uno abbigliamento non ordinario per studenti borsisti quali eravamo tutti in quel luogo e con una cura della persona quasi maniacale anche per reazione all’incuria ferina dei tre anni successivi al liceo. Ma la cosmesi vera che è la ginnastica[5] non era ancora entrata con forza nel mio modus vivendi. Eva aveva capito che la bellezza da me sfoggiata era in gran parte esteriore, comprata. Mi rivedo nelle foto di allora: sono ancora piuttosto tondo: non più un obeso professionista quale ero stato, tuttavia non ancora impeccabilmente snello con vita da torero. Pure l’aspetto doveva migliorare. Molti altri passi su per salite erte e arte c’erano ancora da fare. Il mio modo di vivere e di studiare non era adeguato alle mie aspirazioni. Avevo tradotto l’Odissea di Omero, drammi dei tragici greci e l’Eneide di Virgilio senza averne capito i significati profondi, sebbene avessi riempito decine di quaderni di versioni letterali e paradigmi verbali. Non era stato un lavoro inutile: me ne servivo quando iniziai a insegnare nel liceo nel 1975. Ma non avevo ancora associato lo studio alla vita, non sapevo trovare il momento opportuno per collegare quei versi alle mie azioni e aspirazioni. Avrei imparato a farlo negli anni successivi. Le borse di studio sarebbero state le tre finlandesi della trilogia che probabilmente conosci, lettore. Helena, Kaisa e Päivi tre donne mirabili. Saluti e baci.
Bologna primo marzo 2025 ore 18, 38 giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Cfr. T. S. Eliot, La terra desolata, 8.
[2] Cfr. Medea v. 1203
[3] Foscolo: Ode all’amica risanata del 1803 (vv. 10-12) (1803)
[4] Sono gli ultimi versi dell’ Ode on a Grecian Urn ( del 1819) di John Keats. “Bellezza è verità e verità bellezza”, questo è tutto/ quanto voi sapete sulla terra, e tutto quanto avete bisogno di sapere.
[5] Cfr. Platone, Gorgia, 465b-
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