La aspettavo dunque. E pregavo. Nell’ invocare gli dèi, anche se possono non ascoltarci, c’è sempre una qualche bellezza[1].
Talvolta è utile quando si incappa in una sorte distorta e loro non sono girati da tutt’ altra parte.
Si corre il rischio di non ricevere udienza, ma il rischio è bello, afferma Socrate nel Fedone[2], e non a torto.
“Dio fai che Elena mi ami. S’io meritai di te assai o poco[3], ricompensami. Finora ho sofferto senza diventare cattivo. Ho preso tante botte e non ho mai picchiato, sono stato ingannato e non ho detto bugie, sono stato umiliato e non ho offeso nessuno, quasi nessuno. Ora è giunto il momento di raccogliere i frutti. Dedi et dabo ut des: ipse amari opto[4].
A Pesaro, nel liceo Terenzio Mamiani, passavo i compiti di greco e latino ai meno bravi, dalla quarta ginnasio all’esame di maturità, con rischi non piccoli, eppure, siccome aborrivo i putridi luoghi comuni degli ignoranti, molti mi aborrivano dicendo che mi davo delle arie insopportabili; perfino in casa le donne mi hanno trattato a lungo come se fossi stato del tutto inameno e mezzo deficiente, probabilmente per tenermi al guinzaglio il più a lungo possibile.
Potevo diventare uno dei tanti animali rabbiosi, invecchiati male alla catena.
A un certo punto mi sentivo così monco e contraffatto che quando udivo urlare un uomo o latrare un cane[5] pensavo che ce l’avesse con me.
A Bologna dove arrivai nel 1963, sprovveduto, disorientato e spaesato, dovevo chiedere spesso informazioni, chiarimenti, e mi sono sentito addirittura dare del “busone” da alcuni studenti felsinei, imbecilli in vena di battute volgari e del tutto inappropriate alla mia persona.
Un paio di decenni più tardi altri, meno imbecilli, mi avrebbero appiccicato l’etichetta del donnaiolo, non del tutto a sproposito a dire il vero. Lo facevano comunque per danneggiarmi
Nei primi mesi, Bologna per me non aveva tracce né voci. Ci vivevo da straniero e da estraneo. Inquilinus civis urbis Bononiae, vilissimo meteco,
In quel periodo le mie pene non avevano misura né numero e il male si posava sul male. Sono sceso agli inferi come Enea, e ho evocato i morti come Odisseo, sacrificando e versando però nella fossa il mio stesso sangue non quello di arieti e pecore nere[6].
Facilis descensus Averno/ Notes atque dies patet atri ianua Ditis;/ sed revocare gradum superasque evadere ad auras, hoc opus, hic labor est”[7].
Ho cominciato a stare meglio proprio qui a Debrecen, nell’estate del 1966.
Nel ’68 sono fiorito con non poco ritardo. Ora, nel ’71, non sono più un ragazzino, anzi mi pare di essere un giovane uomo tutt’altro che spregevole.
Sicché, Dio benedetto, ti ringrazio di avermi reso giustizia, già quasi del tutto, attraverso questa splendidissima femmina umana, di avermi fatto diventare decente, anzi piacente di aspetto, di avermi insomma miracolato.
Mi sto insinuando nel favore di me stesso e mi ci conserverò a lungo.
Domani, se, appena sveglio, non troverò uno specchio dove possa vedermi tutto intero, ammirerò la mia ombra ben fatta camminando nel sole”[8].
Questo pensavo.
Il mio narcisismo gioioso usava espressioni già testimoniate. Me lo avevano insegnato Callimaco[9] prima, poi tanti altri fino a Proust, T. S. Eliot[10] e James Joyce.
“Con l’amore di questa donna sto recuperando l’amor proprio, e pure quello dei miei parenti che non mi hanno compreso, né io ho ancora compreso loro”.
Intanto Elena stava uscendo dal collegio con il suo vestito bianco, leggero, morbido, e attillato tanto da metterle in supremo risalto il seno, grande, pieno di palpiti, colmo di calda vita, ricco di nutrimento spirituale per l’anima mia.
Sotto, la veste le fasciava la vita sottile, i fianchi rotondi, mentre le lasciava scoperte dal ginocchio in giù le gambe diritte, tornite, le caviglie sottili, i piedi piccoli su sandali leggeri. Sfiorava appena la terra.
OiJ me;n povde~ ajstravgaloiv teu[11], pensai.
La tunica corta e senza maniche lasciava vedere le candide braccia liscissime, scolpite con grazia prassitelica, mentre le copriva le spalle armoniose e, sopra le mammelle opulente, di forza fidiaca, le orlava il lungo collo sottile, sostegno della piccola testa dai folti capelli corvini che incastonavano il volto minuto, ovale, dai lineamenti fini e dolci ma pieni di luce e fortemente espressivi. Era contenta di me e contenta di sé.
“Lingua mortal non dice/ quel ch’io sentiva in seno”[12].
. A 14 anni piangevo ricordando questo verso dal Pincio di Potenza Picena e osservando Recanati sul lato opposto della valle dove appariva chiaro il fiume; dopo altri quattordici giri annuali del sole sorridevo invece al mio destino. Prima o poi dovrò prepararmi a sorridere alla “Bellissima fanciulla,/dolce a veder[13]”. Non tanto presto però, anzi il più tardi possibile
Ci incamminammo verso la radura con il piccolo lago, raccontando a turno la nostra giornata, passata nell’attesa e nella speranza di incontrarci da qualche parte. Ci ascoltavamo a vicenda, ci guardavamo con occhi che traboccavano simpatia, ammirazione e amore.
Elena mi raccontava della sua terra, delle solitudini boschive dove lei camminava ascoltando le voci di una natura ancora pulita. Mi descriveva con entusiasmo, ma senza enfasi, gli aspetti più belli della Finlandia: i tanti laghi orlati di alberi dove d’estate si specchia il sole che riempie di luce calda il giorno e fa rosseggiare le notti di giugno; mi parlava di certi colli della Lapponia dove si può sciare fino a maggio inoltrato sulla neve che scintilla e sfavilla nella luce già estiva, quasi ininterrotta dalla rapida, breve oscurità della stagione più bella. E mi parlava della città dei suoi studi, Yväskylä, circondata da boschi, dove in autunno le foglie delle betulle fanno esplodere tutti i colori.
“Io non so come si possa non essere felici nella stagione bella”, disse.
“Io sono felice anche in novembre-replicai-. Quando vedo spuntare il grano, sento già la primavera. Forse perché sono nato in quel mese e benedico il tempo della mia nascita. Sempre, ma più che mai da quando ho incontrato te”.
Quella donna benedetta amava la natura e la vita: era della mia razza, della gens cui appartengo per scelta, della stirpe che nonostante le difficoltà e le tante tribolazioni vissute, ho sempre considerato la mia.
Mi raccontava anche del suo compagno cui voleva bene come a un fratello amico, dell’università dove aveva studiato letteratura e storia con serio impegno, del lavoro che faceva con passione poiché amava gli allievi e loro la contraccambiavano vedendola impegnata a educarli. Parlava con semplicità, quella semplicità bella che è complessità risolta, quella prudens simplicitas[14], la semplicità accorta, competente e precisa che è anche signorilità. Non c’era nessuna affettazione in lei, nessuna posa, nessuna ricerca della mia approvazione.
Voleva farsi conoscere com’era, in trasparenza. “Ottima è Elena- pensai- “come l’acqua di Pindaro”[15]. Ottima e schietta.
Voleva farmi entrare nella sua vita. Io la ascoltavo con tutto l’interesse di chi vuole diventare partecipe della storia raccontata, della vita di chi la racconta, e non la interrompevo se non per rivolgerle qualche domanda e approfondire la conoscenza.
Poi venne il mio turno di farmi conoscere e riconoscere, attraverso le parole. Le parlai della nostra terra antica e nobile, bella e varia, sebbene alquanto inquinata, del mio lavoro che mi piaceva, siccome provavo interesse per l’educazione, per i miei scolari e per le lettere.
Nell’educazione, o paideia, o bildung che dire si voglia, credevo più allora di ora, sebbene avessi meno strumenti per impartirla: in quel tempo non pensavo ancora che nessuna forza educativa sia in grado di modificare la nostra sostanza, di cambiare la quidditas di ciascuno, quello che essenzialmente è. Più avanti nel tempo, i critici del metodo mio avrebbero detto che miglioravo sì i migliori, ma, nello stesso tempo, peggioravo i peggiori.
In effettiprovocavo l’epifania del carattere di ciascuno studente, per farlo diventare quello che è.
La mia piena coscienza di educatore non era ancora formata.
Intanto però procedevo nel mio tentativo di affascinare questa donna che amavo, di educarla ad amarmi.
L’amore mi rendeva eloquente[16].
Aggiunsi che insegnavo le frasi belle degli scrittori bravi. Questo forse non era un atto di sapere strutturale, ma serviva a raffinare il senso estetico degli alunni; quindi facevo conoscere le idee di autori anche discordanti tra loro, in modo da stimolare il pensiero critico dei miei ragazzi attraverso una logica aperta al contrasto, invogliandoli comunque a scegliere il bello invece del brutto, il bene invece del male, il coraggio invece della viltà, e così via.
Il bene, l’ordine del mondo, la vittoria del cosmo sul caos lo vedevo anche in alcune immagini artistiche, particolarmente nel frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia, e nei quadri di Piero della Francesca che conoscevo fin da bambino poiché il nonno materno, la mamma e le zie, nati e cresciuti a Borgo Sansepolcro, il paese del “loro” pittore , me ne parlarono e mi portarono a vederlo e ad ammirarlo molto per tempo.
Dicevano che i quadri del maestro del Borgo oscuravano tutta l’altra pittura del Rinascimento.
Nei quadri di Piero avevo visto immagini del bello non artefatto e del bene non sdilinquito. Anche lei, Elena, rappresentava ai miei occhi il bello con semplicità e il bene senza fiacchezza.
“Che cosa è il bene per te?” mi domandò a bruciapelo. Andava sempre in medias res . Mi ha insegnato il suo metodo.
Risposi che fa parte del bene tutto quanto favorisce la vita. Il male, viceversa è ciò che la danneggia .
Volevo insegnare ai ragazzini anche il coraggio di confutare i luoghi comuni privi di fondamento razionale e reale. Cercavo di capire, di imparare, di fare tante cose, ma la meta più alta, il bersaglio sublime della mia ricerca era lei, Helena, la ragazza finnica bruna bruna che un demone buono mi aveva fatto incontrare inopinata, misteriosa e meravigliosa, là, nel grande bosco fatato in mezzo alla vasta pianura ungherese. Volevo scoprire il significato dell’enigma incarnato da lei.
La bella donna aveva sul volto un sorriso calmo, di soddisfazione profonda.
Quella sera di luglio, nella foresta di Debrecen, appena smisi di parlare, Helena disse che stava imparando ad amarmi. Non stavo più in me dalla gioia ma non lo diedi a vedere da pauroso gesuita[17] quale sono
Bologna 8 marzo 2025 giovanni ghiselli
p. s.
Oggi per me non è il giorno particolare della festa della donna. Ho passato la vita a festeggiare le donne e ho dedicato ogni giorno a preparare tali feste con una severa ascesi mentale e somatica, dico esercitando le mente e il corpo.
Statistiche del blog
Sempre1696217
Oggi133
Ieri362
Questo mese3272
Il mese scorso23432
[1] Cfr. Euripide, Troiane, 470: “o[mw~ d’ ecei ti sch`ma kiklhvskein qeouv~”.
[2] Kalo;~ ga;r oJ kivnduno~ (114 d)
[3] Cfr. Dante, Inferno, XXVI, 80-81
[4] Cfr. Catullo, 76, 25 Ipse valere opto, io voglio avere salute.
[5] Cfr. Shakesperare, Riccardo III, I, 1.
[6] Cfr. Odissea, X, 527.
[7] Virgilio, Eneide; VI, 126-129, facile è la discesa all'inferno;
di notte e di giorno è aperta la porta dell’oscuro Dite,
ma ritrarre il passo e uscire all'aria celeste
questa è l'impresa, questa è la fatica
[8] Di nuovo Shakespeare, Riccardo III (III, 1). E’ riuscito ad attirare Lady Anne della quale ha ucciso il marito e il suocero.
[9] Callimaco (305 ca-240ca a. C.) afferma: "ajmavrturon oujde;n ajeivdw" (Fr. 612) Pfeiffer. , non canto nulla che non sia testimoniato.
[10] In una famosa recensione Ulysse, Order and Myth , "The Dial", nov. 1923. all'Ulisse di Joyce Del 1922., T S. Eliot definiva il metodo mitico, in opposizione a quello narrativo, come il modo di controllare, di dare una forma e un significato all'immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea. "Instead of narrative method, we may now use the mythical method ", invece del metodo narrativo possiamo ora avvalerci del metodo mitico. Alla fine di The Waste Land Eliot afferma:"These fragments I have shored against my ruins" (v. 430), con questi frammenti ho puntellato le mie rovine.
[11] Teocrito, X, 36. I tuoi piedi sono astragali, cioè piccoli e ben fatti.
[12] Leopardi, A Silvia, 26-27.
[13] Leopardi, Amore e morte, vv. 10-11
[14] Cfr.Marziale, X, 47, 7.
[15] A[riston me;n u{dwr, Olimpica I, 1.
[16] Nel magister Ovidio la cupido è un elemento della ragione: il maestro del lusus erotico consiglia al corteggiatore di potenziare la facondia con la forza del desiderio: è il "rem tene verba sequentur " di Catone trasferito in campo amoroso:"fac tantum cupias, sponte disertus eris " (Ars amatoria, I, 608), pensa solo a desiderarla, e sarai facondo senza sforzo. Tereo che arde di passione per la cognata Filomela è reso eloquente dallo stesso ardore amoroso:"Facundum faciebat amor " (Metamorfosi, VI, 469).
[17] Cfr. Joyce, Ulysses: “Come up, you fearful jesuit I capitolo Telemaco la torre, p. 3
Nessun commento:
Posta un commento