NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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lunedì 24 settembre 2012

I sindaci a vasto - di Giovanni Ghiselli




Sono andato a Vasto dove ho ascoltato i sindaci Flavio Tosi, Giuliano Pisapia, Luigi de Magistris, Leoluca Prlando, Marco Doria intervenuti il 23 settembre al VII incontro nazionale del partito di DiPietro. Moderava Corrado Formigli, il conduttore di Piazza pulita.

Riferirò aggiungendo un poco
di commento che in quella sede era riservato al moderatore. Si è parlato tanto
di partecipazione dei cittadini, di ascoltare le voci provenienti “dal basso”,
o dai “bassi”, ma non si è lasciato spazio al dibattito, ai
dissoi; lovgoi, a una logica aperta al contrasto.








De Magistris
è partito celebrando la propria abnegazione: ha rinunciato a emolumenti e
privilegi che poteva avere come magistrato, per mettersi al servizio della sua
città, un servizio totale e assoluto, tanto che  la maggior parte delle sere non poteva  cenare.


“Questo- ho pensato-“ ha
fatto bene non solo ai Partenopei ma pure a lui che è dimagrito guadagnandoci
in termini estetici”.


Comunque, nel suo discorso
risuonava la norma virtuosa sbandierata dall’oratoria politica greca: la
pratica del potere deve essere una “liturgia” un  servizio reso al bene pubblico, non
un’occasione di lucro privato. Una regola aurea.





Vediamola in letteratura


Seneca sostiene che il potere
è razionale e morale solo se esercitato al servizio dei sudditi: nelle Epistole a Lucilio  il maestro di Nerone già ripudiato dal
discepolo imperiale ricorda che nell'età dell'oro governare era compiere un
dovere, non esercitare un potere sovrano:" Officium erat imperare, non regnum" (90, 5).


Luogo simile  in I
Promessi sposi
  :"Ma egli,
persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar
con la bocca, non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non
in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle" (cap. XXII).


Concetto analogo si trova in Psicanalisi della società contemporanea  di E. Fromm:"Il capo non è soltanto la
persona tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche
l'uomo che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che
li serve. Obbedire a un cosidetto capo senza queste qualità sarebbe una
viltà" (p. 299).-





Il primo cittadino di Napoli
ha ravvisato dei segnali positivi nell’attuale crisi economica e morale: la
presenza di tante persone all’incontro nel quale si trovava, e l’attenzione di
molti giovani. “Ora-ha proseguito-la sfida è mettere insieme i movimenti e i
partiti che vogliono cambiare”. Il cambiamento in effetti è necessario: del
resto la metabolhv avviene comunque: noi stessi non potremmo nutrirci
senza metabolismi.


 Ricavo questa frase dalle riflessioni di un
uomo di grande potere: l’imperatore Marco Aurelio (161-180 d. C.).


De Magistris ha ridotto gli
sprechi e le spese in genere: ha eliminato le consulenze esterne, ha contenuto
gli stipendi degli amministratori dentro misure tutt’altro che laute rispetto
all’impegno richiesto e alla responsabilità dovuta: gli assessori prendono 2800
euro al mese.


Lui stesso arriva appena a
quattromila.


“C’è chi prende quattro volte
meno-ho pensato- e fa un lavoro che non gli piace, né gli dà la possibilità di
parlarne in pubblico gloriandosene, anzi se ne vergogna”.


Il sindaco partenopeo ha
concluso questo primo intervento ricordando “il grande cuore” e “la passione
civile” necessari per fare il suo lavoro bene come va fatto.





Poi ha parlato Giuliano Pisapia con toni più dimessi,
meno tribunizi.


Era pensoso e quasi delicato.  


Il sindaco di Milano si è
espresso contro i catastrofismi universali, i pessimismi assoluti e le denunce
generiche: non bisogna generalizzare quando si accusano i politici, ma fare
nomi e cognomi. Di fatto ci sono persone per bene da una parte e dall’altra.
Bisogna individuare i ladri e i  complici
del ladrocinio. Metterli a nudo con i loro lucri e distinguerli dagli onesti,
come lui stesso che, per fare un esempio, paga il biglietto se va a teatro, o
al cinema, o allo stadio. Il primo cittadino deve essere e dare un esempio di
probità e spirito di sacrificio.


Così
fa la protagonista dell'Antigone di Brecht  che si propone come tale tipo paradigmatico in
antitesi a Creonte il quale le domanda:"Di' dunque perché sei così
ostinata". E la ragazza risponde:"Solo per dare un esempio".


Il
potere del resto secondo la figlia di Edipo è una specie di droga che asseta di
sé:"Perché chi beve il potere/Beve acqua salsa, non può smettere, e
seguita/Per forza a bere".





Quindi
ha parlato Flavio Tosi, che proviene dall’altra parte politica ma ha in
comune con i colleghi una cosa che conta più del partito, anzi per molti più di
tutto: il potere.


Il
sindaco di Verona ha insistito sulla necessità di ridurre le spese per
preservare i servizi. Del resto i servizi costano. Un accenno ai ladroni di
Roma ha fatto intendere che bisogna controllare certi personaggi della casta:
“qualcuno che sta a Roma- ha detto -non ha capito quali sono le condizioni del
paese”. Sì, ma chi farà i controlli? quis custodiet ipsos/custodes ?[1].
L’indignazione popolare, forse.





Poi
è stata la volta di Marco Doria.


 Il sindaco di Genova ha propugnato un
cambiamento di stile nel senso del rigore e della sobrietà. Parlava con garbo
sapiente, cosciente di sé.


In
effetti lo stile Trimalcionesco di certi rappresentanti della regione Lazio e
di tanti altri, le loro feste porcine, disonorano tutta la classe politica e
suscitano indignazione. Costoro dovrebbero rappresentare  dei contromodelli ed essere additati come
tali.


Questi
convegni devono costituire un’occasione per una correzione, un raddrizzamento
della classe politica.


I
luoghi del privilegio più sfacciato sono i consigli regionali, non quelli
comunali dove un assessore prende 2800 euro al mese, ha continuato il primo
cittadino di Genova.


Se
il pubblico avesse potuto parlare, avrei replicato che io dopo 41 anni di
insegnamento nelle scuole medie, nei licei e all’Università,  ne prendo 1840.


E
ho passato la vita studiando per avere cose belle da raccontare a chi mi
ascoltava, per interessarli e invogliarli a studiare, ad amare il bello con
semplicità e il bene senza mollezza.


Comunque
Doria ha uno stile tutt’altro che ignobile: non recitava, o per lo meno
recitava bene: senza enfasi, senza toni patetici né altri atteggiamenti
istrionici .


Anche
lui ha ridotto le spese, per esempio azzerando il servizio taxi agli assessori.
Inoltre ha combattuto l’assenteismo introducendo l’appello e il contrappello
nel consiglio comunale. “Sono misure di valore etico e simbolico più che altro”,
ha riconosciuto.


Le
misure ulteriori dovranno essere strutturali, e intanto, si devono dare segni
di trasparenza e dire ai cittadini la verità che, aggiungo è, con parola greca,
ajlhvqeia,
non latenza, non nascondimento. Il sindaco di Genova ha lasciato un’impressione
di autenticità con il suo pathos trattenuto e con la concretezza delle poche
cose che ha detto.





Non
latente, anzi evidentissimo è stato invece il pathos di Leoluca Orlando.
Forse anche autentico, non simulato. Un pathos certamente non dissimulato.


 Il sindaco di Palermo ha esordito dicendo che si
sentiva stressato ma anche ringiovanito. “Meno male”, ho pensato.


Poi
ha denunciato un deficit culturale a causa del quale la ricchezza è diventato
l’idolo più venerato. Le nuove chiese, i nuovi templi sono le banche le quali
raccolgono denaro accumulato in tutti i modi, anche con spargimento di sangue.
Il culto del denaro porta al nichilismo, alla caduta di tutti i valori. Ora
conta solo il mostro obeso della ricchezza che annienta perfino il lavoro, dal
momento che l’accumulo di denaro più grande e dispotico, quello che comanda
davvero, deriva non dalla produzione di beni ma dalle speculazioni finanziarie.
Il sindaco di Palermo parlava in modo molto accorato e coinvolgeva il pubblico.


Queste
le parole. Per quanto riguarda i fatti, nella sua città intende valorizzare un
patrimonio immobiliare sotto utilizzato.


E
non vuole privatizzare i servizi pubblici, non vuole lasciare che la mafia
metta le mani sui beni comuni come l’acqua. Lui ci ha messo la faccia, una
faccia non piccola, e non può deludere i tanti, tantissimi che lo hanno votato.


A
questo punto Formigli ha fatto una domanda su Grillo.


Doria ha risposto ad alcune
critiche che gli sono state mosse dal suo scatenato concittadino  a proposito dell’Iren..


Il
sindaco-marchese rosso ha detto, senza agitazione, senza inerzia e senza
finzione, che tali aziende sono frutto di un’aggregazione di molte componenti
diverse e che un risanamento  richiede
tanto tempo.


Tra
parentesi: marchese rosso potrebbe essere un ossimoro vivente, invece è un
ossimoro apparente, perché un nobile non può non essere comunista.


E’
alla plebe trimalcionesca degli schiavi arricchiti che il comunismo ripugna.
Non essere comunisti infatti significa essere egoisti e nobiltà non è altro che
favorire la vita: la propria e quella del prossimo. E pure quella del lontano.


De Magistris ha ribadito che i cittadini
chiedono efficienza e trasparenza, fatti, non chiacchiere. A Napoli è
necessario eliminare i subappalti affidati a ditte riconducibili alla camorra.
La sua giunta ha già conseguito risultati visibili: nelle strade non c’è più la
famigerata spazzatura  grazie alla
raccolta differenziata porta a porta. Non ci sono discariche né inceneritori
vicini alla città. Al Movimento a 5 stelle il primo cittadino partenopeo ha
contrapposto quello arancione dei sindaci che deve infiammare la passione
democratica. Bisogna creare dei luoghi di incontro e coinvolgere tutte le
persone per bene, compresi tanti moderati che vogliono un cambiamento nel senso
della chiarezza e dell’onestà. Per cambiare le politiche liberiste è necessario
vincere le elezioni. E’ pure necessaria una rivoluzione culturale che rivaluti
l’essere al posto dell’avere.


Ma
i nuovi Trimalcioni, ho pensato, hanno la stessa visione del mondo di quelli
del basso impero: “habes, habeberis[2],
e hanno i mezzi di comunicazione per rendere popolare e paradigmatica tale
visione del mondo priva di buon gusto e di carità. Credo che la rivoluzione
culturale necessiti di una propaganda educativa capillare: la paideia è fatta di parole diffuse,
ascoltate, esemplificate con azioni coerenti.


I
cittadini devono uscire dalle case e riappropriarsi  degli spazi pubblici, ha continuato De
Magistris.


Intanto
il lungomare di Napoli è stato liberato dalle automobili  e dotato di piste ciclabili. La vendita di
biciclette è schizzata in alto. I Napoletani possono pedalare e passeggiare
tranquillamente in quel luogo ameno, incontrarsi, conoscersi, abbracciarsi. “Ci
possono togliere tutto, ma non la gioia di vivere” ha detto testualmente il
sindaco che poi ha concluso questo intervento ricco di pathos e non privo di
logos con una profezia degna della Sibilla  di Cuma, quasi una sua compaesana: il
capitalismo dovrà riformarsi o imploderà poiché la sua crisi non è momentanea
ma strutturale.


Subito
dopo Pisapia ha rilanciato la palla del movimento arancione che dovrebbe
promuovere una “rivoluzione gentile”.


A noi
ex sessantottini che con ingenuità giovanile, seguendo una moda, e un poco
celiando, cantavamo We want mister Mao
for president of the world, when the red revolution comes
, il presidente in pectore nostro aveva insegnato che
“una rivoluzione non è un pranzo di gala” e forse anche questo sindaco
illuminato, all’epoca masticava tale quotation
dal libretto rosso, ma ora, per carità, i tempi sono cambiati e anche io
parteggio per la gentilezza, addirittura per la delicatezza. Il fatto è che i
ragazzi della generazione di Pisapia e mia hanno visto, e presofferto tutto,
quasi come il Tiresia di T. S. Eliot[3].


La
rivoluzione gentile dunque deve partire dal basso, devono esserci primarie
serie, bisogna suscitare entusiasmo.


A
Milano ci sarà il grande evento epocale dell’Expo che offrirà occasioni.


Io
temo anche a tante speculazioni. Spero che Pisapia non perda l’occasione di non
avallarle.


Formigli  poi ha dato la parola a Tosi,  facendo notare che sul palco c’era un sindaco
della lega, mentre mancava uno del PD. Applausi del pubblico.


Il
primo cittadino di Verona ha commentato la sua presenza non del tutto allineata
con gli organizzatori, dicendo che i sindaci hanno problemi analoghi cui danno
soluzioni simili, anche se vengono da partiti diversi.


Problema
del resto, provblhma[4], è un ostacolo che va
trasformato in una occasione, come insegnava pochi giorni fa Remo Bodei al
festival della filosofia di Modena .  I
sindaci sono espressioni della fiducia di una città poiché vengono eletti
direttamente dal popolo. Tutti e cinque i primi cittadini presenti qui sul
palco, ha detto il sindaco scaligero, sono accomunati da una positiva volontà
di cambiamento. D’altra parte  gli onesti
e i ladri ci sono, e sono ripugnanti, tanto a destra quanto a sinistra.


Ai
sindaci non è permesso essere ladri, non a lungo, in quanto vengono controllati
dal voto dei loro concittadini.


“Ci
vorrebbe l’ostracismo” ho pensato “con cui la democrazia diretta degli Ateniesi
poteva cacciare un capo indegno, o anche solo malvoluto, da un momento all’altro.
Qui a volte bisogna aspettare anni per esautorare un farabutto insediatosi nel
potere”.


Tosi
non vuole entrare nei vertici del potere nazionale: il ruolo pù bello è quello
del sindaco che viene eletto dalla gente e con la gente rimane in contatto. A una
domanda su Formigoni, Tosi ha risposto che il governatore della Lombardia è
condannabile sul piano etico, mentre la rilevanza penale deve essere stabilita
dalla magistratura. Comunque se il pio Celeste venisse rieletto lui, il sindaco
di Verona, non ne sarebbe contento.


Se
l’è cavata così.





Quindi
ha ripreso la parola Orlando che ha proclamato la necessità di una
svolta. “I partiti tradizionali sono morti-ha detto- e il governo Monti
costituisce la loro sepoltura”. “Senza elogio funebre- ho pensato- anzi, quasi
con un biasimo sulla tomba, una damnatio
memoriae
.  


Il
partito di ciascuno dei sindaci è la sua città. Il partito di Leoluca Orlando è
Palermo: il 74 per cento dei Palermitani ha votato per lui ridicolizzando i risultati
elettorali  dei partiti, anche del suo. E
allora: il partito del premier nazionale deve essere l’Italia.


Il
sindaco siciliano ha rivendicato alcune sue opere meritorie: la
pedonalizzazione di Mondello e il fatto che il comune di Palermo si è
costituito parte civile contro le sospettate trattative fra Stato e mafia.


“Il
modo migliore per opporsi a un nemico è non comportarsi come lui”, ho pensato
ricordando di nuovo Marco Aurelio[5],
con qualche adattamento alla fattispecie.


Formigli ha chiesto ancora
dei pareri sul tribuno Grillo
.


De Magistris, il più tribunizio dei
sindaci,  ha risposto che il Movimento a
5  stelle fa bene al paese. Grillo magari
sbaglia a non confrontarsi con altri, a non dialogare. Comunque ha successo
poiché costituisce un’alternativa all’ammucchiata dei liberisti. Il sindaco di
Napoli ha aggiunto che non vuole assolutamente il ritorno di Monti in quanto
lui, Luigi de Magistris, è contrario alle privatizzazioni come è contrario ai
poteri forti dei finanzieri e delle mafie.


Orlando ha aggiunto: “ Grillo è il
termometro che misura la febbre del paese. Dobbiamo apprezzare i mondi vitali,
e tra questi ci sono le persone che votano per Grillo”.


Nella
letteratura spesso la febbre, la contaminazione del paese viene attaccata dal
capo malato alla terra. Talora perfino al cielo.


 Faccio un paio di esempi


Nell'Oedipus
di Seneca,
il protagonista si accusa dicendo "fecimus coelum nocens ( v.36), abbiamo reso colpevole il cielo. Nel
 Macbeth,
un nobile scozzese, Lennox, riferisce quanto si dice sia avvenuto nella notte
dell’assassinio del re:"some say the earth was feverous, and did shake"
(II, 3), la terra era febbricitante e ha tremato. 


 Quindi un altro nobile, Ross, fuori dal
castello del delitto fa notare a un vecchio che il cielo, quasi sconvolto dal
misfatto umano (as troubled with man's act), minaccia la sua scena
sanguinosa, e il giorno è buio come la notte. Infatti, risponde l'old man:"
'Tis unnatural, Even like the deed that ' s done" (II, 4), è
innaturale, come l'azione che è stata perpetrata.





Sono seguiti altri interventi. Se questi
riferiti sopra vi bastano, potete smettere di leggere.


Doria ha escluso che l’esperienza di un sindaco
sia trasportabile a livello nazionale. Per il governo dell’Italia nel 2013 si
andrà a votare ed è auspicabile che vinca il centrosinistra. Lui si è schierato
e dovranno farlo anche gli altri.


E’ giusto, necessario e possibile cambiare,
ma bisognerà farlo con gentilezza, senza alzare la voce. La mutazione dovrà
forse essere una danza più che una lotta. Ci vorrà anche della fantasia per
immaginare e formulare i contenuti. Certamente non pensare solo alla crescita
del PIL. Ma ci vogliono anche concretezza e realismo: si dovranno presentare
proposte praticabili.


Pisapia ha replicato dicendo che bisogna costruire
una coalizione vasta ma con steccati a destra. Comunque una coalizione in grado
di governare, diversa da quella di Romano Prodi. Per quanto riguarda la vexata quaestio delle coppie
omosessuali, il sindaco di Milano è favorevole alla loro facoltà di adottare.


Tosi ha ribattuto che la nostra Costituzione
prevede che la famiglia sia costituita da un uomo e da una donna e prima di
concedere il matrimonio ai gay si deve rivedere la legge fondamentale dello
Stato.


Poi ha ripreso la parola de Magistris. I sindaci possono colmare
le lacune legislative. A Napoli si è data la cittadinanza onoraria ai figli
degli immigrati, se nati a Napoli.


Lui è favorevole a tutti legami di affetto
e di amore poiché l’amore è il legame universale, l’amore muove il sole e le
altre stelle[6]. E
dunque: “
omnia vincit Amor, et nos cedamus amori "[7].


Orlando ha ricordato che a Palermo c’è il registro
delle unioni di fatto e che i figli sono di chi li fa crescere. Anche questo
sindaco crede nella legge dell’amore, da cristiano non clericale poiché il
clericalismo è un insulto alla sua fede cristiana.


Un’altra visione del mondo non ignobile, in
effetti quella dei Vangeli degli apostoli di Cristo..


Ma era già passato mezzogiorno e Formigli ha chiesto una risposta secca a
questa domanda: “che cosa si può fare che Monti non ha fatto?”


Orlando: una bella patrimoniale sui grandi
patrimoni


Doria: la patrimoniale, poi un taglio alle spese
militari e a quelle politiche


Tosi: una patrimoniale ben fatta e un taglio
delle spese che si può ottenere con la mobilità degli impiegati pubblici
mandando quelli in esubero dove ce n’è carenza.


Pisapia: taglio delle spese militari e
patrimoniale


de
Magistris
: abolire ogni
legge ad personam,  fare una
patrimoniale, ridurre le spese militari.


 In
questa eletta schiera di sindaci, ciascuno è stato bravo a suo modo, ma alla
fine erano, più o meno, tutti d’accordo.


“ Sono d’accordo con loro su tante cose, ma
l’evasione fiscale?” Mi ha fatto mia sorella Margherita, lì presente.


Ad
impossibilia nemo tenetur
“, ho risposto. Forse per eliminare quella ci
vorrà la rabbia della gente disoccupata e affamata, l’assalto ai forni e altre
cose del genere. Se aumenta o persiste questo accentramento della ricchezza
nelle mani di pochi, questi, sempre di meno, non riusciranno più a tenere
buoni, a rimbecillire, o ad ammazzare, a mettere in galera la massa dei senza
lavoro, dei senza scuola, dei senza casa, dei disperati. Allora il furore,
figlio prediletto del Caos, darà la spallata finale a questo sistema morente. 





Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it











[1] Chi  controllerà gli stessi controllori? Giovenale,  Satire
VI,  347-348.








[2] Il
motto dei liberti del Satyricon può
essere una sentenza dello stesso Trimalchione:" credite mihi: assem
habeas, assem valeas; habes, habeberis
" (77), credetemi, hai un asse,
vali un asse; hai, sarai considerato.








[3] Cfr. The
Waste Land
:243: And I Tiresias have
foresuffered all
.





[4] Cfr, probavllw, “getto davanti”





[5] Cfr. a[risto~
trovpo~ tou` ajmuvnesqai  to; mh;
ejxomoiu`sqau, A se stesso VI, 6.








[6] Cfr. Dante, Paradiso, XXXIII, 145, l’ultimo verso
del poema cui hanno posto mano cielo e terra.





[7] Virgilio,
Ecloga X, v. 69, tutto vince Amore e
noi all'Amore cediamo.




venerdì 21 settembre 2012

Remo Bodei al Festival delle cose - di Giovanni Ghiselli






La lectio magistralis di Remo Bodei al festival della filosofia di
Modena (14-16 settembre 2012)





Ho seguito il primo pomeriggio
del festival della filosofia sulle cose:  una festa di popolo e di studiosi che
parlano, nelle piazze, a tante persone che vengono a Modena, Carpi e Sassuolo
per imparare.







Ascoltano con attenzione, poi, dopo gli applausi, fanno domande
generalmente pertinenti. Ero nella piazza grande del capoluogo e ho pensato
all’agorà di Atene con i discorsi di Pericle e al suo “amiamo il bello con
semplicità e amiamo la cultura senza
mollezza (filokalou'mevn
te ga;r met  j eujteleiva" kai;
filosofou'men a[neu malakiva",
Tucidide, II, 40, 1).



Gli studiosi che conoscono
bene e possiedono l’argomento con la mente, ne hanno una visione chiara e sanno
parlarne con semplicità competente, quella prudens
simplicitas[1] che è complessità risolta in frasi belle e piene di
significato.


Nelle
Fenicie di Euripide, Polinice afferma
che il discorso della verità è semplice:" aJplou'" oJ
mu'qo" th'" ajlhqeiva" e[fu" (v. 469) e una causa giusta non ha bisogno di
spiegazioni maculate (kouj pokivlwn dei' ta[ndic j eJrmhneumavtwn,  v. 470).


"Veritatis
simplex oratio est
" traduce Seneca (Ep. 49, 12).





Mi
è piaciuta in modo particolare la lectio
magistralis
di Remo Bodei, che è
professore di filosofia presso la
UCLA
e Presidente del Comitato Scientifico del festival.


Espone
con chiarezza  le sue vaste conoscenze,
le riflessioni che ne ricava,  e parla
con entusiasmo suscitando entusiasmo.


Bodei
ha distinto la cosa dall’oggetto attraverso dotte e interessanti etimologie.


Ha
collegato “cosa” con il latino causa,
come una questione che ci dà un motivo e ci sta a cuore, mentre “oggetto”   viene da obiectum
che è participio passato di obicio,
“getto davanti”, “contrappongo”. Quindi l’obiectus,
nel latino medievale obiectum,  è un impedimento, una barriera.


Bodei
ha poi ricordato che un significato analogo ha il greco
provblhma, da probavllw, “getto davanti”.


L’oggetto
dunque ci ostacola, mentre la cosa-causa
ci dà motivi, ci spinge. Causa
rimanda anche a responsabilità e a causa legale, a discussione, e richiama il
tribunale, l’assemblea, la dimensione pubblica, la discussione, al pari di res il significato della cosa che,
mentalmente posseduto, suggerisce le parole, secondo
il motto di Catone "Rem tene, verba
sequentur"
[2]: la res
divenuta cosa mentale fornisce i verba
che sono collegati etimologicamente a rhetorica,
all’arte del parlare in pubblico e a
parrhsiva, la libertà di parola senza la quale non c’è democrazia. Anche dal
nome latino dello Stato, res publica,
si vede come la “cosa” faccia parte della collettività della politica e della
storia


Nelle cose infatti
si depositano le idee e le azioni degli uomini. Conservano le nostre res gestae e quelle di chi ci ha
preceduto.


Le rovine sono
ancora cosa viva, certo più viva dei troppi oggetti che vanno a finire nelle
discariche.


 Se riusciamo 
a liberare le cose, a farle emergere dal fango dei luoghi comuni, a
ripulirle  dalla polvere e dalla sabbia
della banalità, i nostri orizzonti, il mondo stesso si allarga. Le cose
conservano e mostrano  gli affetti umani
in loro riposti. Possiamo redimere gli oggetti in cose salvandoli dalla loro
insignificanza. Tante cose sono simboli (
suvmbola): segni di riconoscimento,  metà di tessere che rappresentano periodi
della nostra vita, mantengono vivi ricordi di persone, di affetti, di gioie, di
dolori anche, dai quali possono sempre nascere intelligenza e comprensione.
Queste metà di tessere vanno riuniti con l’altra metà che è dentro di noi. Così
la nostra visione si amplia e la memoria, la vita stessa si allunga.





Le parole di Bodei
evocano alcune “cose” della letteratura piene di significati: il letto di
Odisseo che vale come chiaro segno di riconoscimento tra due coniugi separati
da vent’anni
[3]; il tappeto rosso dell’Agamennone di Eschilo[4] l’ ambiguo segno teatrale che, steso
davanti al re vincitore, "non è affatto, come egli immagina, la
consacrazione quasi troppo alta della sua gloria, ma un modo di consegnarlo
alle potenze infere, di votarlo senza remissione alla morte, questa morte
"rossa" che viene a lui nella stessa "sontuosa stoffa"
preparata da Clitennestra per prenderlo in trappola come in una rete"[5].


Altro oggetto ambiguo, simbolico di guerra cavalleresca e di morte
disperata è la spada a borchie d’argento che Aiace riceve in dono da Ettore[6].
Con questa stessa arma il Telamonio si ucciderà nella tragedia di Sofocle
dopo averla ricordata
come
e[cqiston
belw'n
(Aiace,
v. 658), la più odiosa tra le armi, e avere sentenziato che sono non doni, i
doni dei nemici e non sono vantaggiosi:"
ejcqrw'n a[dwra dw'ra koujk ojnhvsima" (v. 665).


Virgilio riprende il topos con l'ensis lasciata[7]
da Enea e impiegata da Didone, quale dono richiesto non per essere usato in
quel modo[8],
ossia  per il suicidio. L’ambiguità di
questa spada è totale: infatti essa è “oggetto” in quanto si oppone alla vita
ed è nello stesso tempo “cosa” carica di ricordi anche belli.


Le armi hanno spesso questa funzione simbolica:
si può pensare pure allo scudo di Archiloco che non si pente di averlo
abbandonato se ha salvato la vita
[9], o a quello dei Germani
di Tacito che viceversa si impiccano dalla vergogna se lo hanno abbandonato
[10].


Alcune
di queste cose, come abbiamo visto per la spada, vengono impiegate in vari
testi da autori diversi, come topoi o
loci, ossia
  "argumenta quae transferri in multas
causas possunt
"[11].


Anche
le vesti possono assumere significati simbolici.


Il Cristo tribolato, l'ecce homo già prossimo alla morte,
quando viene esposto da Pilato è vestito di porpora
[12], e Dario III, mentre si trovava a capo
dell' esercito persiano schierato a Isso contro Alessandro, era riconoscibile
per il suo sfarzo cui non mancava la porpora, ancora una volta un segno
sinistramente ominoso: "purpurae
tunicae medium album intextum erat
"[13],
la tunica di porpora era intessuta d'argento nel mezzo. Il grande  re di lì a poco si sarebbe capovolto in
farmakov~, come Edipo e altri
personaggi della tragedia greca
. Si potrebbero fare tanti esempi di cose piene di significato, dalla
veste di lino e di lana, volendo restare ai tessuti
[14], alle coppe di Alceo
colme di vino e simboliche di amicizia conviviale.


Ma
preferisco tornare a Bodei, il quale del resto quando sono intervenuto, in fase
di dibattito, con una rassegna breve di tali “cose” in letteratura, mi ha
signorilmente ringraziato per il contributo. Un contributo suggerito da lui.


La
seconda parte della lectio magistralis
è stata più politica.


Dobbiamo
riscoprire il valore degli affetti che il PIL e i suoi fautori fanatici hanno
la pretesa di inumare. Ritrovare i piaceri della convivialità, i conforti della
solidarietà e della carità.


Il PIL
non può crescere all’infinito, e, fissare un’attenzione totale, esclusiva, sui
dati economici, può farci dimenticare la quintessenza della nostra umanità che
è l’amore per gli altri uomini. Marco Aurelio scrive che il compito dell’uomo,
come quello degli alberi, degli uccelli, delle formiche, dei ragni e delle api
è contribuire all’ordine del cosmo (
sugkosmei`n
kovsmon
[15]); ebbene, l’auspicata
crescita infinita del PIL può invece provocare il caos.


I devoti
guardiani del PIL mortificano le cose, le svuotano di bellezza, storia e poesia
trasformandole in oggetti da discarica. I nostri governi sii comportano come il
Prometeo del Protagora di Platone
(322d). Il Titano distribuiva
agli uomini oggetti e tecnica, senza fornire arte politica, rispetto e
giustizia. I mortali si uccidevano a vicenda finché Zeus impose la presenza di
questi valori politici
[16].


 


Bodei ha
denunciato con forza l’espropriazione operata dall’economia nei confronti della
politica oramai esautorata.  


La
stessa democrazia viene avvelenata dal predominio tirannico del mercato e del
capitale. L’infezione è già in fase avanzata.


Nello
stesso tempo la tecnica dilagante tende a cambiare il mondo allontanando l’uomo
dalla natura con danno di tutti.


 Aleggia un mivasma, una contaminazione,
come nella Tebe dell’
Oijdivpou~ Tuvranno~  di Sofocle[17], o peggio dell’Oedipus di Seneca che ammette: Fecimus
coelum nocens
" (v. 36),  io ho reso colpevole il cielo[18].
   


Mi fanno
sperare Bodei e altri studiosi che hanno parlato a tante persone desiderose di
ascoltarle, attente e partecipi.


L’anno
prossimo il tema del festival sarà “amare”. Spero di esserci.





Giovanni
Ghiselli
g.ghiselli@tin.it










[1]  Marziale, 10, 47, 7




[2]
Fr. 15 Jordan.




[3]
nu'n d j, ejpei; h[dh shvmat'
ajrifradeva katevlexa~-eujnh'~ hJmetevrh~…peivqei~ dhv meu
qumovn
, Odissea , XXIII, 225-226, “ma ora poiché mi hai detto il
segno chiaro del letto nostro…convinci il mio cuore”, dice Penelope a Odisseo
dopo la diffidenza iniziale.




[4]
porfurostrwvto"
povro"
, v. 910, la via
coperta di porpora
.




[5]
J. P. Vernant, Mito e tragedia nell'antica Grecia, p. 91.




[6] 
xivfo~ ajrgurovhlon, Iliade , VII, 303.




[7] Eneide, IV, 507.




[8] Eneide IV, 647.




[9]
Frammento6D.:


"uno dei Saii si vanta dello scudo, arma incensurabile


che, senza volere, lasciai presso un cespuglio.


Ma ho salvato la vita: che mi importa di quello scudo?


Vada in malora, presto me ne
procurerò uno non peggiore" .







[10]
Scutum reliquisse praecipuum
flagitium…multique superstites bellorum infamiam laqueo finierunt
( Tacito,
Germania VI).


Del resto i doni nuziali, iuncti boves, paratus equus, data armant, significano (denuntiant) che la sposa dovrà condividere
le fatiche e i pericoli del marito.




[11]
Cicerone, De inventione 2, 48,


 argomenti che si possono utilizzare per molte
cause.   




[12]
Exiit ergo Iesus foras, portans spineam coronam et purpureum
vestimentum. Et dicit eis-Ecce homo!
( Giovanni, 19, 5) 







[13]
Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni,
3, 3, 17.




[14]
In De
Iside et Osiride
Plutarco spiega che il
lino
spunta dal seno della terra immortale e produce una veste semplice e
pura parevcei kaqara;n ejsqh`ta che non pesa ma offre riparo dal calore ed è adatta
ad ogni stagione e non genera insetti 352F.


Nel De Magia Apuleio scrive che la lana è escrescenza di un
pigrissimo corpo segnissimi corporis
excrementum
(56). Già Orfeo e Pitagora la riservavano alle vesti dei
profani. Invece mundissima lini seges,
la purissima pianta del lino, tra i migliori frutti della terra, copre i santi
sacerdoti d’Egitto e gli oggetti sacri.


Erodoto scrive che gli Egiziani considerano empio
entrare nei santuari e farsi seppellire vestiti di lana (II, 81).










[15]
Cfr. A se stesso, V, 1.




[16]
Nel Prometeo incatenato  di Eschilo, il Titano si vanta dicendo pa'sai tevcnai brotoi'sin ejk
Promhqevw"
( Prometeo incatenato, v. 507), tutte le tecniche ai mortali derivano da
Prometeo. Ma riconosce di avere infuso negli uomini cieche speranze. ("
tufla;" ejn aujtoi'"  ejlpivda" katw/vkisa", v.250).


 Egli è divinità solo apparentemente
benefica,  in quanto portatore di
conoscenze pratiche fuorvianti:"
qnhtou;" g j e[pausa mh; prodevrkesqai movron", ho fatto smettere ai mortali di
prevedere il destino"(v.248).







[17]Sofocle,  Edipo
re
, 97




[18]
In La tragedia spagnola ( 1592) di Thomas Kyd 
il nobile portoghese Alexandro, con pessimismo meno assoluto,
dice:"Il cielo è la mia speranza: quanto alla terra, essa è troppo infetta
per darmi speranza di cosa alcuna della sua matrice" (III, 1).



lunedì 17 settembre 2012

"Idolatria" secondo Salvatore Natoli - di Giovanni Ghiselli



Conferenza di Natoli. Carpi 16 settembre.


Il 16 settembre ho ascoltato
Natoli. Il tema della sua lectio
magistralis
era Idolatria.


Il professore di Filosofia
teoretica presso l’Università di Milano-Bicocca è partito dalle definizioni di res, 
pra`gma. Vocaboli che coprono una gamma vasta di significati,
incluso quello di attività.




Pravssw infatti significa “faccio”, “compio”, “conseguo un
risultato”, e pra`gma  “affare”.


Tra le varie res c’è la res  nella quale si manifesta
il divino, la res sacra  che, passato il periodo più antico, poi, con
il giudaismo,  scade nella categoria del
feticismo, quindi nell’idolo. Nella prima fase delle religioni, la fase del
culto, la differenza tra il sacro e il profano era di ordine spaziale: il sacro
era legato a un luogo che poteva essere chiuso da un recinto (e{rko~). Zeus aveva, tra i tanti epiteti, quello di eJrkei`o~[1], protettore del recinto.


Luoghi profani erano invece
quelli legati alla nutrizione: i campi coltivati e da coltivare.


All’interno del luogo sacro
gli oggetti non dovevano essere tanto preziosi, quanto significativi per la
comunità. Ma il significato più grande di tali luoghi era la presenza o il
passaggio del dio. Tuttora la religione cristiana presenta santuari con segni
lasciati da Dio o dalla Madonna, o da qualche santo importante.  


Tra i Greci, lo qei`on significa la potenza divina, una forza
incommensurabile con quella dell’uomo che sperimenta la sproporzione tra le
proprie facoltà e quelle del dio da cui scaturiscono eventi deinav, terribili e meravigliosi nello stesso tempo. La
statua (a[galma) era la dimensione simbolica che ricordava
l’accadimento.


Il feticcio, parola ricavata
dal latino facticius[2], “fatto
artificialmente”, in origine, nel tempo del culto, era res sacra.


Oggi noi siamo neofeticisti
senza culto: adoriamo quello che fabbrichiamo senza ravvisare nell’idolo una
presenza e un accadere sacri.


Nel culto, il manufatto
significa un accadere, da noi indica un eccesso.


Il nostro oggetto può essere
significativo se manifesta la creatività del poihthv~, di chi lo ha fatto.


Sono stati
i monoteismi, inaugurati da Amenofi IV, il faraone eretico del quale Mosè
secondo Freud  era un seguace[3], a spogliare gli oggetti sacri
della loro sacralità, a degradarli in idoli maledetti. Del resto la parola latina sacer è vox media: significa “sacro”, consacrato, e pure “esecrabile”.


Natoli ha
individuato tre periodi nella storia: il Neolitico nel quale l’umanità esce
dallo stato ferino dei “primitivi bestioni” vichiani e produce pravgmata. Quindi il politeismo che pensa al
mondo come a un insieme di potenze in conflitto tra loro. Zeus dopo aspra lotta
prevale e cosmizza il caos che però continua a minacciare e deve essere sempre
tenuto a bada come si vede nel Prometeo
incatenato di Eschilo. In questa
stessa tragedia del resto il Titano si consola del proprio martirio affermando
che nemmeno Zeus "potrebbe in alcun modo sfuggire alla parte
che gli ha dato il destino (ou[koun a}n
ejkfuvgoi th;n peprwmevnhn[4])".


Dal politeismo con
le potenze divine in lotta tra loro, come si vede nell’Orestea di Eschilo dove le Erinni della cosiddetta mitologia
inferiore e del matriarcato lottano con Apollo e Atena, figli di Zeus, fautori
del patriarcato, si passa al summoteismo di Zeus dove prevale l’ordine, sia
pure ancora minacciato, poi al  cosmoteismo con potenze ordinate e ritmiche,
quindi al monoteismo che depotenzia la natura.


La nota
espressione di Talete: “tutto è pieno di dèi”[5]
si può interpretare in due modi: il mondo è abitato da potenze soverchianti,
oppure tutti dèi=nessun dio.


Amenofi IV il
faraone del monoteismo, appena morto, riceve una damnatio memoriae da parte dei sacerdoti di Ammone in quanto
ritenuto ateo, o per lo meno eretico.


Il monoteismo comunque mette
dio fuori dal mondo. L’Altissimo del resto lascia all’uomo uno spazio
illimitato.


La fede in un solo Dio nega
la sensibilità e sviluppa l’intelligenza, un processo già iniziato con le Eumenidi di Eschilo dove prevale  Zeus protettore dell’assemblea (ajgorai'o~
, v. 973).


Questo significa
la vittoria della parola colta e persuasiva sul mugolio[6]
e la paratassi ripetitiva, ossessiva[7]
con la quale si erano presentate le Erinni entrando in scena.


 Isocrate nel Panegirico metterà in rilievo che Atene, di cui fa un caldo elogio,
elargisce al mondo intero i doni di civiltà e di religione ricevuti dai suoi
dèi.


Isocrate, principe
della retorica del IV secolo, allievo del grande sofista Gorgia, pratica il
culto della parola.


Il predominio del lovgo~ sulla sensibilità prosegue con il divieto di produrre
immagini tra gli Ebrei. Tra i Greci procede con Socrate e Platone.


Leopardi, come Aristofane, annovera
Socrate tra i sofisti[8].


  Nietzsche considera “Socrate e Platone come
sintomi di decadimento, come strumenti della dissoluzione greca, come
pseudogreci, antigreci ”[9].
E inoltre: "Il cristianesimo è un platonismo per il popolo”[10].


Freud riconosce che gli Ebrei hanno
rotto l'equilibrio tra il sensibile e l'intelligibile, scegliendo comunque la
via migliore.


Per dirla tutta però, l'inventore
della psicoanalisi attribuisce l'invenzione del monoteismo a un egiziano, a un
Mosé egiziano.


George Steiner sostiene che lo ha
fatto per stornare dagli Ebrei il risentimento 
creato dal monoteismo: “ Nel
politeismo, dice Nietzsche, consisteva la libertà dello spirito umano, la sua
poliedricità creativa. La dottrina di una singola divinità…è “il più mostruoso
di tutti gli errori unani” (“die ungeheuerlichste aller menschlichen Verirrungen”).
In una delle sue ultime opere, L’uomo
Mosè e la religione monoteistica
, Freud attribuì questo “errore” a un
principe e veggente egiziano del casato disperso degli Ikhnaton. Molti si sono
chiesti perché abbia cercato di togliere dalle spalle del suo popolo quel
supremo fardello di gloria…Uccidendo gli ebrei, la cultura occidentale avrebbe
sradicato quelli che avevano “inventato” Dio…L’Olocausto è un riflesso, ancor
più completo in quanto lungamente inibito, della coscienza sensoriale naturale,
degli istintivi bisogni politeistici e animistici…  Quando, durante i primi anni di regime
nazista, Freud cercava di scaricare su spalle egiziane la responsabilità dell’
“invenzione” di Dio, stava facendo, pur forse senza averne piena coscienza, una
disperata mossa propiziatoria, sacrificale. Stava tentando di strappare il
parafulmine dalle mani degli ebrei"[11].


Ma torniamo alla lectio magistralis di Natoli.


Si crea dunque questa frattura tra
l'Altissimo scorporato, liberato dal sensibile, e l'uomo legato ai sensi. In
seguito però l'Altissimo è svaporato e l'uomo, cercandone un surrogato, è
caduto nell'idolatria.


Tra le res è rimasta particolare, singularis,
 la Res
publica
, la cosa fondante che è lo stare insieme tra noi uomini. Essa
comporta discussione e condivisione, altrimenti degenera nello  Stato totalitario, lo Stato idolo mostruoso.
Nel Novecento ci sono stati totalitarismi quali religioni secolari.


Natoli ha concluso leggendo pagine di
Gadda sul periodo fascista, quando le discussioni sulla cosa pubblica giravano
a vuoto, quando la politica era impotente, e l'idolatria del capo sostituiva
l'indagine, l'esame, lo spirito critico, ossia quello del krivnein, del distinguere e giudicare.


in Quer pasticciaccio
brutto de via Merulana
, l’autore ricorda la capacità seduttiva di
Mussolini:"già principiavano invaghirsene, appena untate de cresima, tutte
le Marie Barbise d'Italia, già principiavano invulvarselo, appena discese
d'altare, tutte le Magde, le Milene, le Filomene d'Italia".


Oggi abbiamo un rapporto sbagliato con le cose e siamo
pieni di oggetti dai quali spesso dipendiamo.


Ma non è idolo tanto l’oggetto quanto il piacere del
possesso di oggetti illimitati che poi del resto distruggiamo, come facevano
con il totem i primitivi dell’orda ricordata da Freud nel saggio citato sopra.


Così siamo idolatri senza saperlo, e cadiamo nel
nichilismo.


“Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al
“perche?”. Che cosa significa nichilismo?-che i valori supremi perdono ogni
valore”[12].





Natoli ha ricevuto molti applausi. Sono seguite
delle osservazioni


Riporto le mie.


Collegandomi ai pravgmata menzionati dal
relatore, ho citato l’espressione di Tucidide ta; e[rga tw'n pracqevntwn (I, 22, 2), le azioni, tra i fatti
compiuti. L'altra componente dei pracqevnta della guerra del Peloponneso sono le parole dette dai capi: sul
modo di riferirle Tucidide dichiara le intenzioni e il metodo nella prima parte
del capitolo metodologico (I, 22, 1).


L’azione infatti presuppone il lovgo~ come pensiero e come parola.


Ribalterei il motto di Catone rem tene, verba sequentur,  in verba
tene, res sequetur
. Infatti tra le azioni della guerra, Tucidide nomina ta; pracqevnta solo dopo i lovgoi. Discorsi che possono essere anche dissoiv, contrapposti, in una logica aperta al contrasto
tipica dei Greci preplatonici.


I dissoi; lovgoi sono l’antidoto della
tirannide e dell’idolatria. Il krivnein, il giudicare, lo spirito critico fa parte del lovgo~ che per i Greci valeva
almeno quanto il pra`gma, l’azione. Infatti la civiltà dei Greci è
logocentrica. Tutto per loro era pieno di dèi, e il lovgo~ era uno di questi.


Del resto il Vangelo di Giovanni inizia affermando
l’identità tra il lovgo~ e Dio "  jEn ajrch'/  h\n oJ lovgo", kai; oJ lovgo~ h\n
pro;" to;n qeovn, kai; qeo;" h\n oJ lovgo". In principio
erat Verbum, et Verbum erat apud Deum et Deus erat Verbum.


Natoli ha replicato con interesse a queste mie ossevazioni,
condividendole e avvalorandole.





Notata l’attenzione del pubblico, ho fatto un’aggiunta. Ho ricordato il
nesso stabilito da alcuni autori tra monoteismo e tirannide quale suo
correlativo politico. Ho ricordato in breve le parole che avevo in mente di
Vittorio Alfieri e di Sigmund Freud.


Le riporto qui per esteso, copiandole dai testi di questi autori.


Nel trattato Della tirannide (del 1777) l’Astigiano
distingue la religione cristiana dalla pagana, rilevando l’incompatibilità
della prima con la libertà: “La religion pagana, col suo moltiplicare
sterminatamente gli dèi, e col fare del cielo quasi una repubblica, e
sottomettere Giove stesso alle leggi del fato, e ad altri usi e privilegi della
corte celeste, dovea essere, e fu infatti, assai favorevole al vivere libero…La
cristiana religione, che è quella di quasi tutta la Europa, non è per se stessa
favorevole al viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile
quasi col viver libero…Ed in fatti, nella pagana antichità, i Giovi, gli
Apollini, le Sibille, gli Oracoli, a gara tutti comandavano ai diversi popoli e
l’amor della patria e la libertà. Ma la religion cristiana, nata in popolo non
libero, non guerriero, non illuminato e già intieramente soggiogato dai
sacerdoti, non comanda se non la cieca obbedienza; non nomina né pure mai la
libertà; ed il tiranno (o sacerdote o laico sia egli) interamente assimila a
Dio” (I, 8).





Concludo con
Freud del saggio già più di una volta citato a proposito del monoteismo del
faraone Amenofi IV- Ekhanatòn.


“Si trattava di un rigoroso monoteismo, il
primo tentativo del genere nella storia mondiale, per quanto ne possiamo
sapere; e con la fede in un unico dio nacque inevitabilmente l’intolleranza
religiosa[13],
sconosciuta all’antichità prima di allora e per molto tempo dopo. Ma il regno di Amenofi durò solo
diciassette anni; subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1358, la nuova
religione fu spazzata via, e la memoria del re eretico proscritta…Vorrei adesso
arrischiare una conclusione: se Mosè fu Egizio e se egli trasmise agli Ebrei la
propria religione, questa fu la religione di Ekhanatòn, la religione di Atòn”[14].
Freud cerca di avallare questa tesi con vari indizi : entrambe le religioni
“sono forme di rigido monoteismo”; inoltre “l’assenza nella religione ebraica
di una dottrina concernente l’aldilà e la vita ultraterrena, che pure, sarebbe
stata compatibile col più rigoroso monoteismo” corrisponde al rifiuto di tale
presenza anche nella religione di Ekhnatòn che “aveva bisogno di combattere la
religione popolare nella quale il dio dei morti 
Osiride aveva forse una parte maggiore di quella di ogni altro dio del
mondo superiore”. Terzo indizio: Mosè introdusse presso gli Ebrei “la
consuetudine della circoncisione”. Ebbene: “Erodoto, il “padre della storia”,
ci informa che la consuetudine della circoncisione era da lungo tempo familiare
in Egitto”[15]. Dunque
Mosè “non era ebreo ma egizio, e allora la religione mosaica fu probabilmente
una religione egizia” [16].


  





    Giovanni
Ghiselli g.ghiselli@tin.it


 











  




















[1] Cfr. Odissea XXII, 335; Antigone
487. Il primo recinto sacro è quello della casa e della famiglia. Nella Pharsalia di Lucano, Cesare vincitore,
inseguendo Pompeo, sbarca a Troia e cammina sull’erba alta cresciuta sopra le
rovine. Allora un Frigio gli vieta di calpestare la tomba di Ettore. Poi la
guida gli domanda: “Herceas non respicis
aras
?” (IX, 979, non ti fermi a guardare l’altare Ercèo?


 Nella tragedia Agamennone di Seneca,  Greci salpati da Troia distrutta rievocano
episodi della guerra vinta, e alcuni ricordano sparsum cruore regis  Herceum Iovem (v. 448), l’altare di
Giove Erceo spruzzato dal sangue di un re, quello di Priamo. .







[2] .Nell’Asino d’oro di Apuleio, facticia
lumina
sono lucerne, fiaccole, ceri che la folla della processione di Iside
portava per propiziarsi la dèa (XI, 9).







[3]              S. Freud, L'uomo Mosè e la religione monoteistica ,  in Freud  Opere 1930-1938 , pp. 350 e sgg.




[4] Eschilo, Prometeo incatenato, v. 518.




[5] “Qalh'" wj/hvqh pavnta
plhvrh qew'n ei\nai" Aristotele, Sull'anima, 411a 8







[6] Muvgmov~ (Eumenidi,
117 e 129)




[7] Labe; labe; labe; labev: fravzon (Eumenidi, v, 130), prendi, prendi, prendi, stai attenta!




[8] “E Socrate stesso, l'amico
del vero, il bello e casto parlatore, l'odiator de' calamistri e de' fuchi  e d'ogni ornamento ascitizio e d'ogni
affettazione, che altro era ne' suoi concetti se non un sofista niente meno di
quelli da lui derisi?” (Zibaldone,
3474).







[9] Crepuscolo degli idoli, p. 12.




[10] Di là dal bene e dal male, prefazione.




[11] Gerorge Steiner, Nel castello di Barbablù, p. 39 sgg.




[12] F. Nietzsche, fr. 9 (35)
in Frammenti postumi 1887-1888.




[13] Leopardi nello Zibaldone  (3833-3834)  afferma invece che il culto del sole rende
più umano e più civile chi lo pratica :"Quando gli Europei scoprirono il
Perù e i suoi contorni, dovunque trovarono alcuna parte o segno di
civilizzazione e dirozzamento, quivi trovarono il culto del sole; dovunque il
culto del sole, quivi i costumi men fieri e men duri che altrove; dovunque non
trovarono il culto del sole, quivi (ed erano pur provincie, valli, ed anche
borgate, confinanti non di rado o vicinissime alle sopraddette) una vasta,
intiera ed orrenda e spietatissima barbarie ed immanità e fierezza di costumi e
di vita. E generalmente i tempii del sole erano come il segno della civiltà, e
i confini del culto del sole, i confini di essa (5 Nov. 1823.). Ndr.







[14] S. Freud, Op. cit., secondo saggio,  p. 353.




[15] Nelle Storie
leggiamo che “Colchi, Egiziani e Etiopi si circoncidono dal tempo più antico”
(II, 104, 2). Ndr.




[16] S. Freud, Op. cit.,  p. 355