Dopo l’utima ora dell’ultimo giorno di scuola, dovevo andare in una pizzeria per incontrare i miei allievi e quelli di Lucia con la sua classe. Ifigenia era altrove. Non insegnava più.
Passeggiavo nel centro di Bologna, la città che mi aveva dato dolori grandi e pure gioie non piccole da quando ci ero arrivato da matricola, desolato, male alloggiato, nell’ottobre del 1963.
Le strade erano rallegrate da adolescenti che festeggiavano la liberazione. Mi comunicavano la loro contentezza. La prospettiva dell’estate con il tempo libero per lo studio, l’abbronzatura e lo sport rendeva allegro anche me. Erano finiti i consigli di classe, i collegi dei docenti e altre seccature del genere. Tempo sottratto allo studio senza alcuna contropartita. Perdita di tempo senza alcun profitto.
Quel pomeriggio il Giro d’italia avrebbe affrontato lo Stelvio: su per l’attorcigliata salita dovevano contendersi il primato Hinault e Battaglin di Marostica al quale i miei alunni della limitrofa Carmignano avevano detto che il loro professore di lettere era capace di batterlo in salita. L’atleta rispose che dovevo “almanco” provarci. Allora mi diedi ad allenarmi su per i tornanti del monte Grappa partendo da Romano di Ezzelino dove il caro Danilo mi incoraggiava con ebbro ottimismo.
La sfida non si realizzò perché Battaglin doveva fronteggiare avversari ben più degni di lui, davvero competitivi.
Mangiata la pizza dunque, mi stavo muovendo per andare a vedere l’agone ciclistico trasmesso dalla televisione. Mi interessava molto perché avevo i miei tempi da confrontare con quelli dei campioni: 1 ora e 45 da Bormio al passo dello Stelvio; 1 ora e 58 da Prato alla cima della salita. Tempi non lontani da quelli di alcuni professionisti, non i più egregi nelle salite invero. Moser, per esempio. Ma quelli erano tutti più giovani di me e non facevano altro nella vita. Coppi, il mio idolo ciclistico, quando aveva la mia età di allora, sui trentacinque anni, diceva: “Sento che perdo potenza”.
Vinse l’ultimo giro d’itala nel 1953 a 34 anni non ancora compiuti. Avevo oramai anche io un’età decadente per un ciclista.
Salutai gli allievi e domandai se volevano venire a correre verso sera. Risposero che faceva troppo caldo per loro.
Mi venne in mente che i ragazzini di Carmignano mi apostrofavano con “marochin!” quando li facevo arrabbiare. Ero molto più scuro di tutti in effetti. Fin da bambino ho raccolto con il mio corpo i raggi del sole più che ho potuto. La mamma, che teneva molto all’aspetto da civetta qual era, mi aveva insegnato che l’abbronzatura è la cosmesi migliore. Abbronzatura e ginnastica.
Non mi costava fatica perché il sole mi piaceva, lo amavo. E pure la bicicletta e la corsa.
Mentre andavo a recuperare la bici, mi raggiunse Lucia dicendo che lei sarebbe venuta al campo sportivo Baumann per vedermi correre.
Trattenni l’emozione e dissi: “Bene, ti aspetto verso le otto”
“Ti prego- fece lei allora- facciamo le sette: alle 8 e mezzo mi aspettano a casa”.
“Chissà chi è che le fa fretta” mi domandai mentre la vana emozione si raffreddava.
Quindi citai due versi di Dante per spiazzarla:
“Già non attendere’ io tua dimanda
S’io m’intuassi, come tu t’immii”[1]
La ragazza si aspettava una spiegazione ma io ero troppo indispettito, sicché conclusi
“Alle sei e cinquanta sarò al Baumann” perché se ne andasse.
Temevo di non poter seguire il “Processo alla tappa” fino alla conclusione. In fondo quell’agone mi stava a cuore non meno di Lucia.
Come vedete una con il carattere come il mio fa molto bene a non cercare una moglie. Farebbe l’infelicità di entrambi. L’assoluta indipendenza si paga con la solitudine. Il giusto prezzo per un bene tanto grande.
Comunque volevo sfruttare l’occasione di rinnovamento che la bella collega, spesso desiderata, mi offriva. Nelle ultime ore Ifigenia mi aveva annoiato assai.
Bologna 7 gennaio 2024 ore 10, 51 giovanni ghiselli
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