Il 31 maggio corsi i 5000 metri in 19 minuti e 49 secondi sciogliendo il voto. Poco dopo arrivammo all’ultimo giorno di scuola agognato e festeggiato sempre: fin dalla prima elementare alle Carducci di Pesaro. Anche quella mattina del giugno 1980, da eterno studente quale sono tuttora, ne ero contento. Mi venne in mente l’ultimo giorno della prima liceo nel Mamiani di Pesaro nel giugno del 1961. Erano passati diciannove anni da allora. C’era stata la lectio brevis. Più avanti mi sarei accorto che tutta la vita di noi mortali è breve, per quanto longevi si possa essere. Ma da adolescente, quando teminava l’anno scolastico nel liceo classico di Pesaro ero felice senza alcun sospetto. Avevo dovuto studiare molto per ricevere la pagella più egregia con i voti più alti. Soprattutto le materie che non mi piacevano, quelle dei numeri e delle formule, dovevo studiare per prendere buoni voti anche lì.
Non volevo scendere sotto la media dell’otto che in quel tempo era eccezionale in un liceo classico statale. Nelle materie a me poco simpatiche dovevo dare la precedenza alla congerie di nozioni che potevo afferrare solo con la memoria siccome non colpivano il mio sentimento e non diventavano immagini da elaborare con il pensiero e la fantasia. Duravo fatica a impararle. Uno studio solo mnemonico e assolutamente brutale. Carta da memoria poi da gabinetto sono le pagine prive di idèe che fanno pensare, e vuote di sentimenti che aiutano a vivere. Ero tagliato proprio per il liceo classico com’era allora quando la materia principale, quella che faceva la selezione, era il greco come lingua, letteratura, storia politica e filosofia. Poi ero fatto per la corsa e la bicicletta. Ai primi di giugno avevo davanti tre mesi per fare le cose cui ero portato, predestinato: le lettere e le corse.
Prendevo accordi con gli amici riguardo alle nostre imprese ciclistiche. Durante l’anno scolastico il tempo concesso dallo studio a qualsiasi altra attività era poco ma qualche giro breve potevo consentirmelo, magari aggravato da indumenti pesanti che nelle salite si bagnavano di sudore, e in discesa si ghiacciavano gelandomi il sangue e incupendomi il volto con l’umore. Senza contare che mi rimordeva assai, mi dava sensi di colpa trascurare lo studio.
Consideravo i somari svogliati e fannulloni dei delinquenti.
Chi non era bravo in bicicletta era solo spregevole ai miei occhi ma il somarone era un criminale vero e proprio.
Da giugno a settembre dunque potevo pedalare seminudo su per i tornanti del San Bartolo fino a Gabicce monte o verso l’interno fino a Tavullia, Montegridolfo, Saludecio, il Tavollo, dove da bambino le zie mi portavano per le battiture del grano, l’amico grano, il fraterno grano che nasce, viene tagliato, seminato e risorge, quale immagine della vita umana. E’ sempre stato il vegetale più amato anche perché il mantenimento nostro, a quanto capivo, derivava almeno in parte dalla vendita del grano che spettava alla nonna.
In casa mia altri amavano i fiori ma io avevo capito che con tutti i fiori della terra si restava a denti asciutti e magari non avrei potuto nemmeno andare a scuola.
Per fortuna della mia scuola alle zie Rina e Giulia importava molto sicché andavano alle battiture per contare i sacchi di grano che uscivano dalla trebbiatrice e io le aiutavo intrepido dello sferragliare di quel macchinone. Se non avessi potuto studiare, non avrei nemmeno potuto vivere. Con i fiori, figuratevi. Buoni per i morti.
Per me ci volevano centinaia e centinaia di quintali di grano, non senza dell’uva la sorella uva che allietava le colline. Anche alle vendemmie andavo tutto contento.
Nemmeno avere una bicicletta avei potuto senza tali prodotti.
La strada preferita dai nostri giri ciclistici era la panoramica del colle San Bartolo. Percorrendola tutta si poteva vedere ogni cosa come prometteva il suo nome: il mare, la costa marchigiana fino Ancona e la romagnola fino a Ravenna, i monti dell’Appennino fino alla Carpegna, la valle del Foglia, e il cielo pieno di luce e di voli. Nel pedalare mi piaceva lasciare indietro gli amici e osservare la distesa marina striata di scie spumeggianti, screziata da vele multicolori, punteggiata da mosconi celesti, cinta dalla spiaggia variopinta di ombrelloni e capanni. Ogni tanto mi fermavo ad aspettare gli altri ed ero felice. Cantavo: “voglio tornare ancor qui sul mio mare blu, bumbidi aidi, bumbidi aidi , bumbidi aidi bu”
L’avevo imparata durante i campeggi degli scout GEI da “lupetto” sulla Carpegna e al Beato Sante.
Anche oggi sono contento perché le tristi vacanze invernali sono finite e presto riprenderò a tenere conferenze ben preparate, belle, educative a persone desiderose di imparare.
Riprenderò i contatti umani reciprocamente educativi dunque, non solo scrivendo come faccio dal 22 dicembre ma anche parlando prima che mi si secchi la gola.
Se mi riusciranno bene come credo, uscendo canterò, anche sotto la pioggia.
Come la gallina che ha fatto l’uovo o il gallo che l’ha fecondata.
Bologna 7 gennaio 2024 ore 9, 41 giovanni ghiselli
p. s.
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