Il tre marzo sciai di mattina; nel pomeriggio, per variare le interminabili ore di solitudine, camminavo verso la Malga Panna. Quando ci fui arrivato, continuai per il sentiero sdrucciolevole che porta alla Malga Peniola. Era una giornata piuttosto calda: il cielo appariva gonfio di nuvole giallognole e acquose; la neve, corrosa da un vento dolciastro, si liquefaceva. Procedevo guardando gli alberi madidi e la terra fangosa: cercavo visioni belle e confortanti: invano. A un tratto vidi il cadavere di una tuta forse appartenuta a uno divorato da un orso. Ai cani ero sempre sfuggito ma con quei bestioni micidiali non avrei saputo come fare per cavarmela. Nell'anima gocciavano paura e angoscia. L'ultima telefonata non era valsa ad ammazzare i tarli del mio cervello: continuavo a pensare che di Ifigenia non potevo fidarmi. Tuttavia noi due dipendevamo l’uno dall’altro in maniera scabrosa e oscura. Nessun ragionamento potente o sottile, diritto o contorto, valeva a correggere un sentimento così negativo e profondo. Un sentimento ragionato a lungo: razionale e reale secondo il mio storicismo amoroso e angoscioso. Sbucato dal bosco in una radura, vidi la Malga e la piccola chiesa contigua. La prima volta, forse nel '52, mi ci avevano portato le zie. Ne ero stato contento, tanto che sono tornato tante volte in quel luogo romito nonostante la paura degli orsi ostili. Mi avvicinai alla cappella. L'uscio era chiavato di sotto, ma l'interno si poteva vedere da una finestrina quadrata, sbarra solo di due ferri corrosi disposti a formare una croce: dentro il minuscolo tempio, di fronte alla rugginosa inferriata, c'era un'immagine della deipara vergine. "La vergine madre – pensai –, sempre la storia dell'imene. Mentre siamo bambini indifesi e suggestionabili, i preti ci impongono un tale fatto contro natura. La madre perfetta fa i figli senza l'amore. Oggi trovo simpatiche, a me congeniali, le ragazze madri che li fanno senza marito. Tale deve essere stata Maria, augusta anche lei. Da bambino mi avevano inculcato il rifiuto di tutto quanto è naturale a partire dalla curiosità e dal desiderio che mi spingevano verso le bambine, sopra tutte quelle more more. In parrocchia e in famiglia mi avevano riempito di sensi di colpa per offuscare il mio istinto, la mia intelligenza e sottomettermi. Hanno fatto di tutto perché temessi l'amore, me stesso quale ero davvero, e l’umanità intera a partire dalle femmine”. A un tratto, dalla malga uscì un giovane uomo di pelle e capelli rossicci; mi osservava e sorrideva come si fa con un conoscente, poi mi venne vicino e domandò se avessi bisogno di qualche cosa. "No, guardo soltanto". Continuava a sorridermi. Dopo un po’ riconobbi in lui una simpatica immagine ingrandita dell’infanzia lontana. Venticinque anni prima era un bambino un pò ritardato. "Ciao Flavio – gli feci –, come stai? ti ricordi di me?" "No, chi sei?" "Sono Giannetto di Pesaro; negli anni Cinquanta venivo a Moena in agosto; abitavo in via Damiano Chiesa 11. Facevamo le corse intorno alla fontana del Turco. Eravamo piccoli allora. Che strano rivederci qui da adulti!" Continuava a sorridere. Teneva le mani in tasca. La stessa espressione e postura di allora. Probabilmente anche io: in quel tempo ero un bambino triste; sembravo sempre in procinto di piangere, dicevano alle due zie. "Ti posso offrire un bicchiere di vino, Giannetto?" "Sì grazie, volentieri." Entrammo nella malga deserta e ci sedemmo. Mi mostrò una bottiglia: Terodelgo Rotaliano , vino del concilio di Trento. Pensai alla carneficina dei miei sensi e sentimenti amorosi, ai roghi degli autodafè, al Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov. Lo assaggiai e dissi che mi piaceva molto. Flavio riempì due bicchieri. "Raccontami qualcosa di te e degli altri che giocavano con noi. Tu che hai fatto in questi anni?" Balbettando rispose che aveva servito come facchino in un paio di alberghi e aveva visto molta gente, persone per bene. Anche allora non diceva male mai di nessuno. Le zie lo definivano "lo strullo" e mi consigliavano di frequentarlo il meno possibile. A me invece non dispiaceva: mi insegnava qualcosa con quel suo perpetuo sorriso. Rimasi là un paio di ore: mi raccontò alcune storie di nostri coetanei moenesi, ex compagni di giochi. Non sentii una parola malevola. Gli dissi di me, del mio lavoro con i bambini che mi curano l'anima5. Poi gli chiesi se potevo invitarlo a cena, non in via Damiano Chiesa purtroppo, ché non abitavo più in quella casa. Rispose che doveva restare lì: custodiva la malga e la chiesa. Camminando verso l'albergo mi domandavo se quello "strullo" non fosse migliore e meno infelice di me. Però poi camminando verso Moena volli ironizzare su questa mia infelicità intermittente: mi venne in mente uno studente ravennate del tempo dell’universit, Pierino, che fissando la mia fronte abbronzata sotto i capelli neri, ogni tanto diceva: “Sta’ bon, Ghiselli, zitto per amor di Dio: sono di un infelice!”. Era un omosessuale querulo e buffo.
Bologna 16 gennaio 2025 ore 11, 18 giovanni ghiselli p. s statistiche del blog Sempre1662849 Oggi129 Ieri419 Questo mese5881 Il mese scorso10218
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
giovedì 16 gennaio 2025
Ifigenia 247. La Malga Peniola con Flavio “lo strullo”, un idiota geniale.
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