giovedì 16 gennaio 2025

Ifigenia 247. La Malga Peniola con Flavio “lo strullo”, un idiota geniale.


 

Il tre marzo sciai di mattina; nel pomeriggio, per variare le

interminabili ore di solitudine, camminavo verso la Malga Panna.

Quando ci fui arrivato, continuai per il sentiero sdrucciolevole che

porta alla Malga Peniola. Era una giornata piuttosto calda: il

cielo appariva gonfio di nuvole giallognole e acquose; la neve,

corrosa da un vento dolciastro, si liquefaceva.

Procedevo guardando gli alberi madidi e la terra fangosa: cercavo

visioni belle e confortanti: invano. A un tratto vidi il cadavere di una tuta forse appartenuta a uno divorato da un orso. Ai cani ero sempre sfuggito ma con quei bestioni micidiali non avrei saputo come fare per cavarmela. 

 Nell'anima  gocciavano paura  e angoscia. L'ultima telefonata non era valsa ad ammazzare i tarli del mio cervello: continuavo a pensare che di Ifigenia non

potevo fidarmi. Tuttavia noi due dipendevamo l’uno dall’altro in maniera scabrosa e oscura. Nessun ragionamento potente o sottile, diritto o

contorto, valeva a correggere un sentimento così negativo e

profondo. Un sentimento ragionato a lungo: razionale e reale secondo il mio storicismo amoroso e angoscioso.

Sbucato dal bosco in una radura, vidi la Malga e la piccola chiesa

contigua. La prima volta, forse nel '52, mi ci avevano portato le zie.  Ne ero stato contento, tanto che sono tornato tante volte in quel luogo romito nonostante la paura degli orsi ostili. Mi

avvicinai alla cappella. L'uscio era chiavato di sotto, ma l'interno si poteva

vedere da una finestrina quadrata,  sbarra solo di due

ferri corrosi disposti a formare una croce: dentro il


minuscolo tempio, di fronte alla rugginosa inferriata, c'era

un'immagine della deipara vergine.

"La vergine madre – pensai –, sempre la storia dell'imene. Mentre

siamo bambini indifesi e suggestionabili, i preti ci impongono un tale fatto contro natura. La madre perfetta fa i figli senza

l'amore.  Oggi trovo simpatiche, a me congeniali, le ragazze madri che li fanno senza marito. Tale deve essere stata Maria, augusta anche lei.

  Da bambino mi avevano inculcato il rifiuto di tutto quanto è naturale  a partire dalla curiosità e dal desiderio che mi spingevano  verso le bambine, sopra tutte quelle more more.  In parrocchia e in famiglia mi avevano riempito di sensi di colpa per offuscare il mio istinto, la mia intelligenza e sottomettermi.

 Hanno fatto di tutto perché temessi l'amore, me stesso quale ero davvero, e l’umanità   intera a partire dalle femmine”.

A un tratto, dalla malga uscì un giovane uomo di pelle e capelli rossicci;

mi osservava e sorrideva come si fa con un conoscente, poi

mi venne vicino e domandò se avessi bisogno di qualche cosa.

"No, guardo soltanto".

Continuava a sorridermi. Dopo un po’ riconobbi in lui una simpatica immagine ingrandita dell’infanzia lontana.

Venticinque anni prima era un bambino un pò ritardato.

"Ciao Flavio – gli feci –, come stai? ti ricordi di me?"

"No, chi sei?"

"Sono Giannetto di Pesaro; negli anni Cinquanta venivo a Moena in

agosto; abitavo in via Damiano Chiesa 11. Facevamo le corse intorno

alla fontana del Turco. Eravamo piccoli allora. Che strano

rivederci qui da adulti!"

Continuava a sorridere. Teneva le mani in tasca. La stessa

espressione e postura di allora. Probabilmente

anche io: in quel tempo ero un bambino triste; sembravo

sempre in procinto di piangere, dicevano alle due zie.

"Ti posso offrire un bicchiere di vino, Giannetto?"

"Sì grazie, volentieri." Entrammo nella malga deserta e ci

sedemmo. Mi mostrò una bottiglia: Terodelgo Rotaliano , vino del

concilio di Trento. Pensai alla carneficina dei miei sensi e sentimenti

amorosi, ai roghi degli autodafè, al Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov. Lo assaggiai e dissi che mi piaceva molto. Flavio riempì

due bicchieri.

"Raccontami qualcosa di te e degli altri che giocavano con noi. Tu che hai fatto in questi anni?"

Balbettando rispose che aveva servito come facchino in un paio di

alberghi e aveva visto molta gente, persone per bene. Anche allora non diceva male mai di nessuno. Le zie lo definivano "lo strullo" e mi consigliavano di frequentarlo il meno possibile.

A me invece non dispiaceva: mi insegnava qualcosa con quel suo perpetuo sorriso.

Rimasi là un paio di ore: mi raccontò alcune storie di nostri coetanei

moenesi, ex compagni di giochi. Non sentii una parola

malevola. Gli dissi di me, del mio lavoro con i bambini che mi

curano l'anima5.

 Poi gli chiesi se potevo invitarlo a cena, non in

via Damiano Chiesa purtroppo, ché non abitavo più in quella casa.

Rispose che doveva restare lì: custodiva la malga e la

chiesa.

Camminando verso l'albergo mi domandavo se quello "strullo"

non fosse migliore e meno infelice di me.

Però poi camminando verso Moena volli ironizzare su questa mia infelicità intermittente: mi venne in mente uno studente ravennate del tempo dell’universit, Pierino,  che fissando la mia fronte abbronzata sotto i capelli neri, ogni tanto diceva: “Sta’ bon, Ghiselli, zitto per amor di Dio: sono di un infelice!”. Era un omosessuale querulo e buffo. 

 

Bologna  16 gennaio 2025 ore 11, 18 giovanni ghiselli

p. s

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