lunedì 14 luglio 2014

dedicato a Roberto Faenza, II parte

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Quanta Stella c’è nel cielo di Edith Bruck (Garzanti, Milano, 2000)


Voglio scrivere qualche riga sul libro di Edith Bruck dal quale il film è tratto. Il titolo del romanzo, Quanta stella c’è nel cielo, è un verso di Petöfi Sándor, il lirico ungherese che morì per la libertà della terra dei Magiari, combattendo contro i Russi nel 1849.
Il libro della Bruck è un inno alla Vita, la Vita incarnata nella protagonista del romanzo una quindicenne scampata al campo di sterminio di Auschwitz. Negli interventi dei giorni scorsi avevo assimilato questa ragazzina, Anita, all’ Antigone di Sofocle, ma leggendo Quanta stella c’è nel cielo, oltre le analogie, ho trovato una fondamentale differenza: la figlia di Edipo vuole morire, pur essendo la principessa di Tebe, e avendo la prospettiva sicura di divenirne regina; Anita invece vuole vivere, nonostante il passato tragico, il presente insicuro e il futuro oscuro.
Nasce in una famiglia di ebrei ungheresi poveri, da un padre fallito nel lavoro, umiliato, e da una madre che deve tenere in piedi la baracca sgobbando dalla mattina alla notte.
Eppure Anita è una bambina vivace, fantasiosa, capace di giocare e gioire con poco, e nello stesso tempo è riflessiva, desiderosa di apprendere, capace di ricordare.
Conserva memoria di tanti particolari che l’hanno colpita: visioni di cose brutte o belle, più belle che brutte, gesti veduti, frasi sentite, magari senza volere.
Per esempio:”Una ragazza povera, che Iddio la protegga. Se si sporca prima del matrimonio non troverà mai un marito” diceva la madre alle sorelle maggiori (p. 8).
Scampata al campo di sterminio dove ha perduto tutti i suoi, viene presa in casa da Monika, una giovane zia, sorella di suo padre, e da suo marito Aron. I due hanno avuto da poco tempo un bambino, Roby. Da loro vive Eli, fratello di Aron, un giovane venticinquenne , che parla a stento la lingua di Anita, eppure la provoca sessualmente e la seduce, dato il bell’aspetto di lui e l’enorme bisogno d’affetto di lei . La ragazza dunque si è sottratta presto all’intimidazione sessuale impartita dalla madre. Ma il giovane, di una decina d’anni più attempato, si comporta da donnaiolo anaffettivo e la giovinetta ne soffre. Anche la zia è un personaggio poco profondo, sicché Anita parla con se stessa e con il bambino che è troppo piccolo per capirla, se non emotivamente, e può risponderle soltanto con i sorrisi e con il linguaggio del corpo.
Ma vediamo qualche particolare .
Citerò alcune frasi chiave che aprono la porta alla comprensione del libro più di qualunque commento.
Nelle prime pagine si racconta il viaggio in treno di Anita e di Eli che è andato a prenderla all’orfanotrofio e la porta in Slovacchia nella casa dove la ragazza dovrà vivere con lui, con suo fratello Aron, con la zia Monika e con il cugino neonato.
Anita è attirata dall’accompagnatore che le si strofina contro e le mette presto le mani addosso, senza sapere né voler parlare: “Non parliamo” dice. “Tu non raccontare io non racconto. Adesso vita, vivere capito?” (p. 12).
 L’afasia prima o poi si associa alla violenza, come il parlare troppo è segno di incapacità.
Entrambi vogliono vivere, e vogliono amare. Il fatto è che della vita e dell’amore hanno una visione differente. Il ragazzo vuole escludere la parola e separare il sentimento dal sesso che intende solo come piacere e come ginnastica: “Uomo tira giù e tira su i pantaloni, finito. La donna vuole sentimento” (p. 23)
 Anita si consola osservando il mondo bello e variopinto, quando si sente troppo triste e le si riaprono antiche ferite nel notare l’insensibilità del prossimo suo. Le fa molto male quella di Eli che le rievoca ricordi orribili: “ Vai” Via via! Aspetta…” . Mi respinse da sé Eli con un gesto che avvertii violento, e dalle mie cellule, dai miei organi, come fossero accumulatori di memoria, riecheggiarono le ultime parole pronunciate dalla mamma: “Vai! Via via via”! frammiste con : “”Gehen. Los los los” di un soldato tedesco che mi strattonava per staccarmi dalle vesti, dalla carne di mia madre, durante la selezione, all’arrivo (….) A volte le rimproveravo quel “”Vai! Via via via!” altre volte alla vista del sole che sorge, della neve che cade, dell’albero che fiorisce, sono felice di essermi salvata e la vita sembra un dono grandioso in confronto alla miserabile morte che vedevo attorno, che mi giaceva a fianco, che mi si rovesciava addosso con tutto il suo freddo profondo” (p. 16).

Viene in mente una pagina di Guerra e pace: “Dalla dura corteccia secolare erano spuntate, sprovviste di rami, fresche, giovani foglie, tanto che non riusciva a credere che le avesse generate quel vegliardo.
“Sì, è proprio quella stessa quercia” pensò il principe Andrej, e di colpo senza alcun motivo lo assalì un senso primaverile i gioia e di rinnovamento…No, la vita non finisce a trentun anni”, pensò a un tratto il principe Andrej con decisione ferma e immutabile” (III, 3).

I due giovani, messi a dormire nella stessa stanza dunque diventano amanti per l’attrazione reciproca, ma le discrepanze rimangono, né si attenuamo.
Anita, che crede nella vita e crede nell’amore, cerca di convertire l’arido compagno di letto : “Il male è grande e il bene è piccolo ma c’è, devi farlo crescere tu, devi dare luce anche a te, dentro” .
Ma lui le risponde: “Anita tu molto bella per pensare, sapere, parlare, mi fai nervoso, mi piace donna zitta, gioca, siediti, fammi calmo” (p. 36).

La ragazza dunque conosce non solo la persecuzione razziale del tanghero sanguinario e dei suoi ottusi, criminali seguaci, ma anche quella di genere dell’insensibile amante maschilista.

Anita non ottiene comprensione nemmeno dalla sorella del padre.
Una sera, nel mandarla a dormire, la zia le dice: “Buona notte. Dormi bene. E chiudi il cervellino a ogni pensiero”
“Io vorrei studiare”, replica la nipote
E Monika, troppo realisticamente: “Studiare? Non è tempo di studiare, Caso mai potrai seguire un corso di cucito gratuito, organizzàti ovunque, anche qui dentro, da ebrei” (p. 50)
Ma il desiderio più grande, il bisogno di Anita è quello di parlare.
Aron prova a dire alla moglie: “Auschwitz rischia di annientare la verità dell’accaduto stesso se l’orrore non è raccontabile o non è ascoltabile, capisci?” E Monika gli risponde: “Anita non farebbe altro che parlarne, avvelenare il mio latte per Roby” (p. 61).
Anita dunque non può parlare con Eli e non deve parlare con la zia.
Allora parla con Roby, un infante che non è in grado di risponderle a parole ma sa contraccambiare sorrisi, espressioni, gesti d’affetto.
Anita gli dice tante parole e gli canta: “una cosa popolare vecchia, ungherese, versi lamenti scritti da qualche emigrante come me, senti che belli
Elmegyek, elmegyek,
hosszú útra megyek,
hosszú út porából
köpenyeget veszek” (p. 65).
Mi permetto una nota personale, e chiedo scusa, ma voglio manifestare la mia gratitudine alla nazione magiara che mi ha dato molto quando ero giovane. Ora è un vecchio che scrive, un vecchio che non ha dimenticato perché ha fatto tesoro delle esperienze belle e ha saputo utilizzare anche le meno belle.
Sono stato borsista a Debrecen, nella Università estiva di quella cittadina dell’Ungheria orientale per qualche mese tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Un periodo di maggiore cordialità tra gli umani. Vi ho passato alcuni tra i giorni più belli della mia vita. Ho conosciuto studenti che venivano da tutto il mondo. Ho apprezzato la gente e la cultura ungherese.
Anche per questo il libro di Edith Bruck e il film di Roberto Faenza mi sono cari, mi stanno a cuore.
Traduco le parole della strofe trascritta sopra con parole mie
Vado via, vado via
Vado per una lunga strada
dalla polvere della lunga strada
ricavo un mantello

Il carattere buono di Anita, quel daivmwn o trovpo~ che è anche il destino di ciascuno di noi, si manifesta nei suoi ricordi rivolti non solo alle sofferenze subite e capite ma anche, ma ancora di più alle gioie godute, sentite a fondo, anche se causate da piccoli eventi: “Per noi bambini bastava niente per gioire, e le gocce d’acqua che filtravano dal tetto e facevano disperare la mamma per noi erano manna, ciliegie da acchiappare con la bocca spalancata” (p, 75),
Oppure, finita in prigione cecoslovacca come clandestina, “la guardiana che apparve dicendomo “Dobrý den” (“Buongiorno”) sembrava un oceano di bontà che, invece della sua acqua salata, mi diede tè caldo e pane nero…Al prigioniero basta uno sguardo umano per credere nell’umanità intera, come a un bambino una foglia per giocare”.
Per questo riconoscimento del bene è necessario, però, avere il bene dentro di sé. Quelli che non ce l’hanno, coloro nei quali prevale il male, vedono e riconoscono solo il male nel mondo.

Carattere in greco si dice anche trovpo~, un sostantivo che significa pure la direzione, il verso al quale uno volge (trevpei) la propria attenzione. C’è chi è indirizzato al bene e chi al male.

Il male fa male non solo alle persone che lo subiscono ma anche, e soprattutto, a quelli che lo sentono e lo infliggono: “Tutto questo odio fa male a te non a loro” (p. 84), dice Anita a Eli. Il ragazzo parla poco e male, dicendo parole quasi sempre cattive, anche alla propria amante quindicenne che gli domanda: “Cosa posso fare per renderti meno rabbioso, più contento?
E lui risponde: Letto, sfottere (…) Tu non entrare mia storia mia vita”.
Anita ricorda spesso quanto le diceva la mamma, una donna religiosa, affaticata, delusa: “la mia mamma, gli uomini così, li chiamava cani di legno” (p.100). Anita è incline al bene ma impara a distinguere il male.
Ha imparato dai nazisti e impara dal suo primo amante.
Ma tutto il male e il dolore subito non l’hanno impregnata, non l’hanno resa malvagia: “Se gli assassini devono trasformare in assassini anche noi, vincono di nuovo loro, ci fanno perdere l’innocenza, l’anima” (p. 117) dice a un personaggio che suggerisce di “affrontare i nemici a testa alta e mano armata”.
Dopo qualche tempo Anita viene mandata a fare un lavoro di cucitrice in un luogo seminterrato, oscuro e freddo e che la intristisce. Ma il datore di lavoro le fa coraggio: “Un giorno, spero non lontano, sarai in un luogo caldo e galleggerai sul Mar Morto” (p. 120).
Rispetto alle utopie classiche, prive di luogo, talora anche di tempo (utopie e ucronie) questa terra promessa degli Ebrei è invece reale nello spazio e nella storia.
Nel luogo di lavoro Anita trova anche un’amicizia con una ragazza ebrea di estrazione borghese, Emma dalla cui presenza trae conforto attraverso una comunicazione affettiva.
Nella casa dove vive con i parenti l’unico calore umano lo trae non dall’amante né dalla zia ma dal bambino: “L’amore di cui scoppiavo lo riversavo sul bambino che un giorno, al mio ritorno dal lavoro, pronunciò la prima parola chiamandomi “mamma mamma” (p. 133).
Anita ne viene “stordita dalla felicità” in quanto si sente “ricambiata da quel piccolo tesserino tutta vita” (133). L’amore per la vita, la commozione davanti a ogni forma di vita è la forza e la bellezza di questa ragazza e di tutto il libro.
Finalmente arriva la primavera che “aveva risvegliato alla vita anche i mattoni delle case con i loro colori rossastri, illuminati da un sole dal calore tenero che scioglieva le membra, i sensi, i musi e le labbra finora chiuse al saluto” (p. 141). Tutto viene osservato con sguardo benevolo, attento alla vita: cose, piante, animali e persone.
Alcune delle persone, pur congiunte ad Anita, pure sue consanguinèe sono del tutto estranèe alla sua sensibilità. Eli, dolorosamente e anche la zia che allontanava “da sé tutti gli argomenti seri, per incapacità di capirli o per paura che potessero turbare la sua voglia di leggerezza” (p. 144).
E tratta la nipote come una serva: “E tu, pensatrice”, guardà me, “pensa ai panni da lavare”.
A tre quarti del racconto si giunge alla resa dei conti. Anita scopre di essere incinta e lo dice all’uomo che l’ha ingravidata.
Lui reagisce da bruto, da stupratore: “Tu pazza bugiarda, non incinta di me” (p. 149). Anita ribatte che nessun altro uomo l’ha toccata, ma Eli replica rincarando la dose: “Tu piccola idiota grande puttana se davvero incinta perché nascosto? Perché non lavata dopo? Io non voglio te non voglio bastardo. Scandalo se dici Monika o Aron, ti ammazzo io! Abortire!”

Mi viene in mente un film di Fassbinder, Lilì Marlen, che scopre il male non solo imperante con tracotanza fra i nazisti, ma annidato anche nella borghesia ebraica ricca e colta. Il male non distingue le razze che infatti non esistono.

Anita dunque dopo la violenza che le è stata inflitta dagli hitleriani, subisce questa di un congiunto mascalzone, un uomo cui aveva donato tutta se stessa. Ma nemmeno questa volta diventa cattiva, né perde fiducia nella vita. Ha un ottimismo di fondo, un ottimismo del resto ragionato e razionale che le fa superare tutte le prove.
Ricorda che la madre le aveva detto che gli uomini nascono per tenere le briglie sul collo delle donne e che nascere è una disgrazia.
E lei aveva risposto: “Ma se io non fossi nata non vedrei il sole, gli alberi, la neve e non mangerei il tuo pane, mamma” (p. 152).
La reazione brutale dell’amante alla notizia del concepimento la mette comunque in crisi: “La gravidanza, invece di rendermi più forte, mi rendeva estremamente fragile, inerme, anche nei confronti dell’uomo che aveva deciso per l’immediato aborto. Da padrone di me e di nostro figlio aveva pronunciato la parola “aborto” subito, alla maniera del selezionatore, che con la parola “sinistra” aveva mandato ai forni mia madre. “E’ un nazista”, avrei voluto urlare, e uccidere in me ogni briciolo di sentimento per l’uomo che mi aveva sedotta con il primo abbraccio protettivo e il primo membro maschile che mi aveva penetrato” (p. 153)
Lui vuole farla abortire, nonostante l’opposizione di lei e il fatto la gravidanza sia già piuttosto avanzata.
Un briciolo di comprensione le giunge da Aron, lo zio acquisito che le dice: “Sei una ragazza molto speciale, peccato che non vi capite con la zia: Tra voi due, la bambina è lei, credimi. A me puoi dirlo, cosa ti ha turbato a tavola. Dovresti essere felice, finalmente vai a Praga. So che vi presteranno anche un appartamento” (p. 159).
Ma in questa fase Anita è troppo turbata per parlare del suo sconvolgimento, mentale e fisico. Eli ha preso un appuntamento con un medico di Praga per farla abortire. Anita lo rifiuta e lo detesta: “Preferirei un cane piuttosto che te, mi dà nausea anche il tuo respiro” gli dice quando lui cerca di toccarla. Confronta l’oscurità mentale di lui con la radiosità del cielo di fine maggio: “Come per verificare i miei sentimenti, guardai il mio seduttore alla luce di un maggio ridente che si avvicinava a giugno, e mi parve una figura buia (…) perché era oscurato dalla propria stupidità ottusa” (p. 162).
I due vanno dal medico che dovrebbe farla abortire. Anita viene salutata in ungherese e la ragazza da questa delicatezza capisce che questo dottor Heller è una persona buona.
“Oh grazie al cielo, grazie!” balbettai guardandolo come fosse un’apparizione, una luce nel buio come il cuoco vicino al campo di Dachau, che mi aveva chiesto come mi chiamavo e mi aveva regalato un pettinino per i capelli appena spuntati dopo la rasatura ad Auschwitz” (p. 168).
Faenza mette una figura di cuoco buono nel campo di concentramento dove si trova Jona del suo film.
 Basta poco a rallegrare un infelice, un atto di cortesia, un momento di attenzione, un gesto anche solo simbolico di generosità.

Il dottore è una persona per bene e non se la sente di fare abortire una ragazzina gravida di cinque mesi e non consenziente.
Le chiede come abbia fatto a innamorarsi di un tipaccio del genere.
E’ questa sicuramente una domanda venuta in mente a parecchi lettori
Sentiamo cosa risponde Anita: “Forse perché non mi amo, forse per amare qualcuno, forse per punirmi perché vivo, forse per sentire che vivo” (p. 173). E’ un momento di grande confusione nell’animo della fanciulla, è una fase di crisi della sua identità.
Il medico suggerisce che possono simulare l’abortimento facendo credere a Eli che è stato effettuato. Anita accoglie la proposta come una salvezza: “Allora non me lo farà?” quasi gridai di gioia” (p. 170)
Il dottore si offre di aiutarla anche in seguito :”Ti scrivo il mio numero di telefono e il mio indirizzo. Elsa ti porterà un altro bel bicchiere di latte, poi chiameremo il tuo cattivo ragazzo che è senza anima, se non vuole una fanciulla così bella come te e un figlio che bussa alla porta del mondo. Ti scriverò una poesia, io faccio anche lo scrittore, per hobby. Il tuo indirizzo?”
Quest’uomo dà come un’indicazione un segno del destino alla ragazza che gli risponde: “Non so se rimarremo lì a lungo. Le scriverò anch’io una poesia. Io farò la scrittrice, ma chissà in quale lingua e dove”, mormorai” (p. 173). Un destino che deve ancora precisarsi ma è già indirizzato a una meta.
Il buon medico per giunta mette di nascosto nella borsetta di lei il denaro ricevuto da Eli per l’aborto.
Trecento dollari che il seduttore a sua volta ingannato ha la spudoratezza di rinfacciare alla sua vittima con queste parole: “Tu stupida costata molto, non vali tanto. Adesso riposo. Io vado cercare mangiare”.

Non solo è vero, come dice Platone, che parlare male fa male all’anima: è altresì vero che chi parla male ha l’anima malata, o come ha detto il buon dottore, ha una grave carenza di anima.

Durante l’assenza di Eli, Anita fugge da lui e gira per Praga osservando ogni cosa con attenzione, ascoltandone le voci: “ Per me Praga era una città parlante, al contrario di Dresda e Berlino piangenti e Budapest piena di lamenti (…) Praga mi pareva tutta un museo dove convivevano il vecchio con il nuovo, il piccolo con il grande, il sontuoso con il semplice, come fossero l’uno figlio dell’altro e tutti ugualmente pieni del proprio fascino” (p. 185).

A un certo punto sente chiamare il suo nome e teme di essere stata rintracciata da Eli. Invece è un uomo conosciuto a casa della zia: “Mi sorrise Avner, l’agente che chiamavo il nuovo Mosé che organizzava e propagandava l’immigrazione clandestina per la Palestina” (p. 186)
Questo è un altro di quegli “eventi fatali” che segnano il destino delle persone.
Avner le propone appunto il ritorno nella terra degli avi.
“Tu sei delusa…eh? Ma se io ti trovo un posto su uno dei camion che partono stanotte alle due, che ne dici?”
Anita capisce che queste parole contengono l’eco di una voce forse sovrannaturale. E risponde: “Che il dottor Heller con Gesù sul muro, che ha salvato il mio bambino, ha un pezzetto di Dio dentro, un altro pezzetto ce l’hai tu, un altro pezzetto devono avere avuto quei tedeschi che mi hanno dato o buttato qualche avanzo del loro cibo. Dio forse è diviso in pezzettini tra le persone migliori, ma sono poche” (p. 191).
Approvo il fatto che l’autrice non si sia lasciata prendere dal razzismo antitedesco, odioso come ogni altro razzismo.
Anita (Edith Bruck?) vede il proprio destino con precisione sempre maggiore e dice all’uomo che l’aiuta quale sia il suo sogno: “il mio sarà realizzabile appena imparerò l’ebraico: io voglio scrivere, poesie, racconti, romanzi, favole, inventare un mondo che non c’è, rovesciare quello che sento sulla carta” (p. 192).
Alla fine del romanzo, la ragazza in partenza da Praga sa quello che non vuole e quello che vuole: “Io non voglio essere mantenuta, posso pulire anche i cessi e scrivere” (p. 191).
“Della politica” dice “non so quasi niente, ma la Storia l’ho ereditata” (p. 192). Tutti noi abbiamo avuto l’eredità della storia, ma pochi vogliono conoscerla e avvalersene. Avner aiuta Anita a salire sul camion diretto a un porto dove ci sarà una nave che la porterà con altri in Palestina
“Ti cercherò, ti troverò, non avremo che una manciata di paese” promise Avner. Il camion partì e poco dopo si levarono le voci “degli indistinguibili viaggiatori, che cantavano una canzone imparata nei vari centri di preemigrazione nell’Europa di Auschwitz”.
Anita si unì al coro

Alla Terra siamo ascesi alla Terra siamo ascesi
L’abbiamo già arata
L’abbiamo anche seminata
Ma il raccolto non l’abbiamo ancora avuto” (p. 196)

Il carattere buono di Anita, quel daivmwn che è anche il destino di ciascuno di noi[1], si manifesta nei suoi ricordi. Questi sono rivolti non solo alle sofferenze subite e capite ma anche, ma ancora di più, alle gioie godute, sentite a fondo, pur se causate da piccoli eventi: “Per noi bambini bastava niente per gioire, e le gocce d’acqua che filtravano dal tetto e facevano disperare la mamma per noi erano manna, ciliegie da acchiappare con la bocca spalancata” (p. 75)
O quando, finita in prigione come clandestina, l’adolescente fa questa riflessione “la guardiana che apparve dicendomi “Dobrý den” (“Buongiorno”) sembrava un oceano di bontà che, invece della sua acqua salata, mi diede tè caldo e pane nero (…) Al prigioniero basta uno sguardo umano per credere nell’umanità intera, come a un bambino una foglia per giocare”.
Per questo riconoscimento del bene è necessario però avere il bene dentro di sé. Quelli che non ce l’hanno, coloro nei quali prevale il male, i malvagi vedono e riconoscono solo malvagità nel mondo. Carattere in greco si dice trovpo~, un sostantivo che significa pure la direzione verso la quale uno volge (trevpetai) la propria anima. C’è chi la indirizza al bene, chi al male.
Il male fa male non solo alle persone che lo subiscono ma anche a quelli che lo provano per gli altri e lo infliggono al prossimo: “Tutto questo odio fa male a te non a loro” (p. 84), dice Anita a Eli che parla poco e male, dicendo parole quasi sempre cattive. Alla propria amante quindicenne che gli domanda: “Cosa posso fare per renderti meno rabbioso, più contento?”, lui risponde: “Letto, fottere (…) Tu non entrare mia storia mia vita”.
Anita ricorda spesso quanto le diceva la mamma, una donna religiosa, affaticata, delusa: “la mia mamma, gli uomini così, li chiamava cani di legno” (p.100). Anita è incline al bene ma impara a riconoscere il male.
Ha imparato molto dai nazisti e apprende dell’altro dal suo primo amante.
Tutto il male e il dolore subito, però, non l’hanno impregnata, non l’hanno resa malvagia: “Se gli assassini devono trasformare in assassini anche noi, vincono di nuovo loro, ci fanno perdere l’innocenza, l’anima” (p. 117) dice a un personaggio che suggerisce di “affrontare i nemici a testa alta e mano armata”.
Dopo qualche tempo Anita viene mandata a fare un lavoro di cucitrice in un luogo seminterrato, oscuro e freddo e che la intristisce. Ma il datore di lavoro le fa coraggio: “Un giorno, spero non lontano, sarai in un luogo caldo e galleggerai sul Mar Morto” (p. 120).
Rispetto alle utopie classiche, prive di luogo, talora anche di tempo (le ucronie) questa terra promessa degli Ebrei è invece reale nello spazio e nella storia.
Nel luogo di lavoro Anita prova affetto per una ragazza ebrea anche lei ma di estrazione borghese, Emma, dalla cui presenza trae conforto attraverso una corrispondenza di sentimenti umani .
Nella casa dove vive con i parenti, l’unico calore affettivi lo trae non dall’amante né dalla zia ma dal bambino cui fa da maestra e da mamma: “L’amore di cui scoppiavo lo riversavo sul bambino che un giorno, al mio ritorno dal lavoro, pronunciò la prima parola chiamandomi “mamma mamma” (p. 133).
Anita ne viene “stordita dalla felicità” in quanto si sente “ricambiata da quel piccolo esserino tutta vita” (133). L’amore per la vita, la comprensione e la commozione davanti a ogni forma di vita è la forza e la bellezza di questa ragazza e di tutto il libro. E’ un amore, una comprensione e una commozione che ho riconosciuto in tutti i film di Faenza.
Finalmente arriva la primavera che “aveva risvegliato alla vita anche i mattoni delle case con i loro colori rossastri, illuminati da un sole dal calore tenero che scioglieva le membra, i sensi, i musi e le labbra finora chiuse al saluto” (p. 141). Tutto viene osservato con sguardo benevolo, attento alla vita intera: cose, piante, animali e persone.
Alcune delle persone, pur congiunte ad Anita, pure sue consanguinèe sono invece estranèe alla sua sensibilità. Lo è Eli, dolorosamente, e anche la zia che allontanava “da sé tutti gli argomenti seri, per incapacità di capirli o per paura che potessero turbare la sua voglia di leggerezza” (p. 144).
Monika tratta la nipote come una serva: “E tu, pensatrice”, guarda me, “pensa ai panni da lavare”.
A tre quarti del racconto la storia di Anita giunge alla resa dei conti. La ragazzina scopre di essere incinta e lo dice all’uomo che l’ha ingravidata.
Lui reagisce da bruto, da stupratore dell’anima: “Tu pazza bugiarda, non incinta di me” (p. 149). Anita ribatte che nessun altro uomo l’ha toccata, ma Eli replica rincarando la dose: “Tu piccola idiota grande puttana se davvero incinta perché nascosto? Perché non lavata dopo? Io non voglio te non voglio bastardo. Scandalo se dici Monika o Aron, ti ammazzo io! Abortire!”
Mi viene in mente un film di Fassbinder, Lilì Marlen, che scopre il male non solo imperante con tracotante prepotenza fra i nazisti, ma anche annidato nella borghesia ricca e colta. Il male come il bene non è mai l’esclusiva di un popolo, di una classe sociale, o di una persona, nonostante popoli, classi e persone siano stati impiegati come capri espiatori.
 Anita dunque dopo la violenza che le è stata inflitta dagli hitleriani, subisce questa di un congiunto mascalzone, un uomo cui aveva donato tutta se stessa. Ma nemmeno questa volta diventa cattiva, né perde fiducia nella vita. Ha un ottimismo di fondo, un ottimismo del resto ragionato e razionale che le fa superare tutte le prove.
Ricorda che la madre le aveva detto che gli uomini nascono per tenere le briglie sul collo delle donne e che nascere è una disgrazia.
E lei aveva risposto: “Ma se io non fossi nata non vedrei il sole, gli alberi, la neve e non mangerei il tuo pane, mamma” (p. 152).
La reazione brutale dell’amante alla notizia del concepimento la mette comunque in crisi: “La gravidanza, invece di rendermi più forte, mi rendeva estremamente fragile, inerme, anche nei confronti dell’uomo che aveva deciso per l’immediato aborto. Da padrone di me e di nostro figlio aveva pronunciato la parola “aborto” subito, alla maniera del selezionatore, che con la parola “sinistra” aveva mandato ai forni mia madre. “E’ un nazista”, avrei voluto urlare, e uccidere in me ogni briciolo di sentimento per l’uomo che mi aveva sedotta con il primo abbraccio protettivo e il primo membro maschile che mi aveva penetrato” (p. 153)
Lui vuole farla abortire, nonostante l’opposizione di lei, e il fatto che la gravidanza sia già avanzata oltre la metà del percorso. Un briciolo di comprensione le giunge da Aron, lo zio acquisito che le dice: “Sei una ragazza molto speciale, peccato che non vi capite con la zia: Tra voi due, la bambina è lei, credimi. A me puoi dirlo cosa ti ha turbato a tavola. Dovresti essere felice, finalmente vai a Praga. So che vi presteranno anche un appartamento” (p. 159).
Ma in questa fase Anita è troppo scossa per parlare del suo sconvolgimento, mentale e fisico. Eli ha preso un appuntamento con un medico di Praga per farla abortire. Anita rifiuta e detesta l’uomo che l’ha messa incinta : “Preferirei un cane piuttosto che te, mi dà nausea anche il tuo respiro” gli dice quando lui cerca di toccarla. Confronta l’oscurità mentale di lui con la radiosità del cielo di fine maggio: “Come per verificare i miei sentimenti, guardai il mio seduttore alla luce di un maggio ridente che si avvicinava a giugno, e mi parve una figura buia (…) perché era oscurato dalla propria stupidità ottusa” (p. 162). La luce è la più rallegrante delle cose e il buio dell’ottusità è una delle più avvilenti, soprattutto quando lo si constata in un amante.
I due vanno a Praga, dal medico che dovrebbe procurare l’aborto. Anita viene salutata in ungherese e da tale delicatezza capisce che questo dottor Heller è una persona buona.
“Oh grazie al cielo, grazie!” balbettai guardandolo come fosse un’apparizione, una luce nel buio come il cuoco[2] vicino al campo di Dachau, che mi aveva chiesto come mi chiamavo e mi aveva regalato un pettinino per i capelli appena spuntati dopo la rasatura ad Auschwitz” (p. 168). Basta poco a rallegrare un infelice, un atto di cortesia, un momento di attenzione, un gesto, anche solo simbolico, di generosità. Eppure spesso siamo avari perfino di queste piccolezze.
Il dottore è una persona per bene e non se la sente di fare abortire una ragazzina gravida di cinque mesi e non consenziente.
Le chiede come abbia fatto a innamorarsi di un farabutto siffatto.
E’ questa sicuramente una domanda venuta in mente a parecchi lettori
Sentiamo cosa risponde Anita: “Forse perché non mi amo, forse per amare qualcuno, forse per punirmi perché vivo, forse per sentire che vivo” (p. 173). E’ un momento di grande confusione nell’animo della fanciulla, è una fase di crisi della sua identità.
Il medico suggerisce che possono simulare l’abortimento e dire a Eli che è stato effettuato. Anita accoglie la proposta come una salvezza: “Allora non me lo farà?” quasi gridai di gioia” (p. 170)
Il dottore si offre di aiutarla anche in seguito :”Ti scrivo il mio numero di telefono e il mio indirizzo. Elsa ti porterà un altro bel bicchiere di latte, poi chiameremo il tuo cattivo ragazzo che è senza anima, se non vuole una fanciulla così bella come te e un figlio che bussa alla porta del mondo. Ti scriverò una poesia, io faccio anche lo scrittore, per hobby. Il tuo indirizzo?”
Quest’uomo dà come un’indicazione, un segno del destino alla ragazza che gli risponde: “Non so se rimarremo lì a lungo. Le scriverò anch’io una poesia. Io farò la scrittrice, ma chissà in quale lingua e dove”, mormorai” (p. 173). Un destino che deve ancora precisarsi ma è già indirizzato a una meta.
Il buon medico per giunta mette di nascosto nella borsetta di Anita il denaro ricevuto da Eli per l’aborto.
Trecento dollari che il seduttore, a sua volta ingannato, ha la spudoratezza di rinfacciare alla sua vittima con queste parole immonde: “Tu stupida costata molto, non vali tanto. Adesso riposo. Io vado cercare mangiare”.
Non solo è vero, come dice Platone, che parlare male fa male all’anima[3]: è altresì vero che chi parla male ha l’anima malata, o come ha detto il buon dottore, ha una grave carenza di anima.
Durante l’assenza di Eli, Anita fugge da lui e gira per Praga osservando ogni cosa con attenzione, ascoltandone le voci: “ Per me Praga era una città parlante, al contrario di Dresda e Berlino piangenti e Budapest piena di lamenti (…) Praga mi pareva tutta un museo dove convivevano il vecchio con il nuovo, il piccolo con il grande, il sontuoso con il semplice, come fossero l’uno figlio dell’altro e tutti ugualmente pieni del proprio fascino” (p. 185).
A un certo punto la ragazza sente chiamare il suo nome e teme di essere stata rintracciata da Eli. Invece è un uomo conosciuto a casa della zia: “Mi sorrise Avner, l’agente che chiamavo il nuovo Mosé che organizzava e propagandava l’immigrazione clandestina per la Palestina” (p. 186)
Questo è un altro di quegli “eventi fatali” che segnano il destino delle persone.
Avner le propone appunto il ritorno nella terra degli avi.
“Tu sei delusa…eh? Ma se io ti trovo un posto su uno dei camion che partono stanotte alle due, che ne dici?”
Anita capisce che queste parole contengono l’eco di una voce fatale, forse sovrannaturale, e gli risponde: “Che il dottor Heller con Gesù sul muro, che ha savato il mio bambino, ha un pezzetto di Dio dentro, un altro pezzetto ce l’hai tu, un altro pezzetto devono avere avuto quei tedeschi che mi hanno dato o buttato qualche avanzo del loro cibo. Dio forse è diviso in pezzettini tra le persone migliori, ma sono poche” (p. 191).
Approvo il fatto che l’autrice non si sia lasciata prendere dal razzismo antitedesco, odioso come ogni altro razzismo.
Anita (Edith Bruck?) vede il proprio destino con precisione sempre maggiore e dice all’uomo che la sta aiutando quale sia il suo sogno: “il mio sarà realizzabile appena imparerò l’ebraico: io voglio scrivere, poesie, racconti, romanzi, favole, inventare un mondo che non c’è, rovesciare quello che sento sulla carta” (p. 192).
 Edith vuole inventare, trovare, un mondo luminoso e pieni di colori[4].
Alla fine del romanzo, la ragazza in partenza da Praga sa quello che non vuole e sa quello che vuole: “Io non voglio essere mantenuta, posso pulire anche i cessi e scrivere” (p. 191).
“Della politica” dice “non so quasi niente, ma la Storia l’ho ereditata” (p. 192). Tutti noi abbiamo dentro l’eredità della storia, ma pochi vogliono conoscerla e avvalersene, per pigrizia o per viltà. Avner aiuta Anita a salire sul camion diretto a un porto dove ci sarà una nave che la porterà con altri in Palestina.
“Ti cercherò, ti troverò, non avremo che una manciata di paese” promise Avner. Il camion partì e poco dopo si levarono le voci “degli indistinguibili viaggiatori, che cantavano una canzone imparata nei vari centri di preemigrazione nell’Europa di Auschwitz”.
Anita si unì al coro

Alla Terra siamo ascesi alla Terra siamo ascesi
L’abbiamo già arata
L’abbiamo anche seminata
Ma il raccolto non l’abbiamo ancora avuto” (p. 196).

Il raccolto prima o poi arriva. Può tardare, ma arriva.





Sostiene Pereira. Il libro di Tabucchi e il film di Faenza.

Tabucchi nel suo libro più noto, Sostiene Pereira (Feltrinelli, 1994)
ci insegna che l’intellettuale, lo scrittore, l’artista non possono sottrarsi all’impegno politico che è anche impegno morale.
Roberto Faenza ne ha tratto un film con lo stesso titolo del romanzo, un film molto bello, che Rai Tre ha riproposto mesi fa, subito dopo la morte dello scrittore.
Il romanzo e la sua trasposizione cinematografica dovrebbero rammentare a tutti noi, quanti studiamo, insegniamo, scriviamo, che la cultura non può essere neutrale e che l’uomo portatore di cultura e di paideia, che è educazione degli uomini, deve schierarsi, e non da una parte qualunque, ma da quella dei deboli oppressi dal potere.
Leggo in una lettera di Tabucchi a Paolo di Paolo: “Essere scrittore non vuol dire solo maneggiare le parole. Significa soprattutto stare attenti alla realtà circostante, alle persone, agli altri”.
Necessità dell’impegno politico dunque. Impegno in favore della libertà e della vita, impegno contro la schiavitù, la violenza e la morte.

Tanti scarabocchiatori libreschi, avidamente chini sul becchime delle loro gabbie, discettano intorno al proprio ombelico, come se fosse il centro del mondo. Se esprimono un dissenso, questo è solo retorico, mai veramente scomodo verso chi riempie di cibo le loro gabbie, greppie e pance. Schopenhauer definiva “boschēmata” simili intellettuali e professori. Una parola greca, non tedesca, e significa bestiame, bestiame che si pasce.
Facciamo un breve excursus su altri autori che hanno trattato il problema.
Il grande storiografo Tucidide, colui che ha identificato la storia con la politica e ha indicato per primo, coraggiosamente, “la verità effettuale” di uomini e cose, aprendo la strada a Polibio, Tacito e Machiavelli, ha ricordato un discorso pubblico di Pericle, il famoso lógos epitáfios, nel quale il grande statista disse che gli Ateniesi consideravano non pacifico, ma inutile il cittadino che non si occupa di politica, ossia della vita della polis.
:"movnoi ga;r tovn te mhde;n tw'nde metevconta oujk ajpravgmona, ajll j ajcrei'on nomivzomen" (Storie, II 40, 2), siamo i soli a considerare non pacifico, ma inutile chi non partecipa alla vita politica.

 Thomas Mann sostiene che l’artista vive una vita simbolica, emblematica, di rappresentanza, come il principe regnante. Lo scrittore, come il re, deve negare a se stesso la banalità del comune borghese per esprimersi solo in maniera simbolica. Chi scrive, ha il dovere, come insegnano il romanzo di Tabucchi e il film di Faenza, di rischiare, di dare un esempio, di mettere in gioco, in un gioco pulito (spielrein) perfino la propria vita. Del resto Pereira mettendo a repentaglio la vita fiacca e dimidiata che viveva, vince la posta e ritrova intera la propria forza vitale: quella di scrittore, di uomo, di intellettuale.
Il rischio talora è bello. Lo ha scritto Platone[5].

 Pasolini ha previsto la propria morte violenta quando ha scritto che" il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi-proprio per il modo in cui è fatto-dalla possibilità di avere prove e indizi"[6].
Infatti nello stesso articolo del “Corriere della sera” del 14 novembre 1974, scriveva anche: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina anche fatti lontani, che mette insieme[7] pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero”. Certamente la sua morte obbedisce a una logica, una logica perversa e criminale, ma pur sempre una logica.
Pasolini fa parte del gruppo degli scrittori martiri, eliminati dal potere. Pereira invece riesce a cavarsela, e senza demerito.
Il film di Faenza nelle ultime inquadrature mostra lo scrittore di Lisbona che rivitalizzato dalla scelta politica e morale compiuta, si allontana dal suo paese oppresso dalla dittatura di Salazar. Continuerà a scrivere politicamente altrove.
Di Pier Paolo Pasolini sappiamo tutti come è andato a finire e perché. Comunque continua a essere letto, e molto più dei pennivendoli che pascolano foraggiati dal regime.
Il potere tollera il dissenso solo se questo è retorico, o ambiguo, comunque non scomodo, talora anzi tale fronda è perfino indirettamente funzionale a chi comanda davvero. Si pensi al finto dissenso dei Fazio e di altri sorridenti prosseneti del genere, pagati a suon di milioni di euro oltretutto.
La chiacchiera degli imbonitori televisivi per lo più è fatta di vuoto: arzigogoli e ghirigori che non dicono nulla e offuscano con la loro verbosità perfino le verità più comuni e più comprensibili, mentre il discorso della verità è semplice, e quanto è conforme a giustizia non ha bisogno di interpretazioni ricamate.

Nelle Fenicie[8] di Euripide, Polinice afferma la parentela della semplicità con la giustizia e con la verità:"aJplou'" oJ mu'qo" th'" ajlhqeiva"[9] e[fu,-kouj poikivlwn dei' ta[ndic' eJrmhneuavtwn" (vv. 469-470), il discorso della verità è semplice per natura, e quanto è conforme a giustizia non ha bisogno di interpretazioni ricamate. Invece l' a[diko" lovgo" , il discorso ingiusto, siccome è malato dentro, ha bisogno di artifici scaltri:"nosw'n ejn auJtw'/ farmavkwn dei'tai sofw'n" (v. 472). Notare che mu`qo~ e ajlhvqeia non sono in contrasto: l’ossimoro è nei termini, non nei dati di fatto.


 Voglio ricordare alcuni storiografi martiri fatti fuori dal potere imperiale di Roma per il loro dissenso vero.
"Del senatore Cremuzio Cordo furono bruciati i libri, per ordine di Seiano, il celebre prefetto del pretorio di Tiberio; ed egli, accusato, s'era lasciato morire di fame. (La sua autodifesa fu un'esaltazione della libertà di pensiero storico)... … Sotto Nerone, il padovano Trasea Peto "la virtù in persona[10]", come lo definì Tacito , si uccise[11] accusato di lesa maestà: aveva scritto una monografia su Catone Uticense. Questi storici capaci di eroismo sapevano benissimo che le loro opere, seppur con varie gradazioni, non solo difendevano l'antico regime, ma in realtà ponevano in questione lo stesso principato"[12].
Ovidio subì un trattamento forse meno pesante: fu mandato a morire di crepacuore sulle rive remote e desolate del Mar Nero. Eppure il poeta Peligno non aveva messo in discussione il potere di Augusto: si era limitato a una polemica da libertino contro il moralismo ufficiale del regime e dei suoi cantori, compreso il pur grande Virgilio. Tale dissenso limitato a un aspetto del costume fu comunque sufficiente per metterlo al bando.

Ma ora, è già tempo, concludo tornando, doverosamente, al bel libro di Tabucchi. Partiamo dal cognome del protagonista eponimo. In una nota finale l’autore chiarisce che “In portoghese Pereira significa albero del pero, e come tutti i nomi degli alberi da frutto, è un cognome di origine ebraica, così come in Italia i cognomi di origine ebraica sono nomi di città”. E aggiunge: “Con questo volli rendere omaggio a un popolo che ha lasciato una grande traccia nella civiltà portoghese e che ha subito le grandi ingiustizie della Storia”. La lettura del libro in effetti suscita simpatia per tutti i perseguitati, per ogni uomo che subisce ingiustizia, e insegna il dovere dell’impegno di ogni persona onesta in loro favore. Ma vediamo alcuni punti cruciali del romanzo. All’inizio, siamo nell’estate del 1938, Pereira è un letterato senescente, grasso, stanco, malato di cuore e di spirito. Dirige la pagina culturale di un piccolo giornale del pomeriggio, traduce romanzi francesi, e vive di ricordi. Soprattutto di quello della moglie morta di tisi.
Ma poi fa degli incontri, con due ragazzi che “gli curano l’anima”, come facevano i bambini con il principe Myskin, l’Idiota di Dostoevskij. Più tardi Pereira conosce un dottore che lo incoraggia a una dieta e, soprattutto, lo aiuta a prendere coscienza di se stesso, a diventare quello che è: un uomo buono e intelligente, capace di staccarsi da quel suo vivere un’esistenza rivolta al passato, oziosa, inutile, impolitica insomma. Il medico esorta a non trascurare quelle ragioni del cuore che i due giovani dissidenti e oppositori del regime filofascista di Salazar hanno messo in moto, chiedendogli aiuto. La stessa letteratura, se è buona, ci dà stimoli verso una vita attiva, impegnata e impiegata per il prossimo. Più della filosofia, suggerisce Tabucchi: a Pereira, mentre dialogava con il giovane Monteiro Rossi che “di solito parlava di filosofia… venne in mente una frase che gli diceva sempre suo zio, che era un letterato fallito, e la pronunciò. Disse: la filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità”. E’ un’espressione di quella antica ruggine[13] tra filosofi e poeti ricordata dal Socrate di Platone o avvertita dall’Ulrich di Musil[14].
La volontà di Pereira si incoraggia e si rafforza negli incontri con i giovani, Monteiro e Martha. La visione della ragazza, della sua “bella silhouette che si stagliava nel sole” contribuisce alla salute psicologica e fisica del letterato senescente.

Pereira fa un altro incontro che lo spinge verso il disseppellimento della propria identità, inumata sotto ricordi e rimpianti, e coperta dalla vegetazione di questi vani pascoli degli spiriti disoccupati. Si tratta di una signora con una gamba di legno, una ebrea-tedesca di origine portoghese, una cosmopolita dunque, incontrata in treno, che lo mette di fronte ai suoi doveri: “lei è un intellettuale, dica quello che sta succedendo in Europa, esprima il suo libero pensiero, insomma faccia qualcosa”. Pereira replica che lui non è Thomas Mann, ma la donna lo incalza: “Capisco, ma forse tutto si può fare, basta averne la volontà”.
Segue l’intesa e l’amicizia con un medico della clinica talassoterapica dove l’anziano valetudinario va a curarsi.
 Il giovane dottor Cardoso, che si diletta di letteratura francese e di psicologia, gli parla dell’evento, un avvenimento imprevisto “che si produce nella vita reale e sconvolge la vita psichica”.
Tali incontri fanno parte di quegli avvenimenti accidentali di cui parla Lucrezio.

 Gli eventa non sono qualità congiunte ai corpi (coniuncta), come il rosso del sangue per esempio, ma sono accidenti che comunque influiscono sulla nostra vita. Lucrezio enumera alcuni di questi eventa: la schiavitù, la povertà, la ricchezza, la libertà, la guerra la concordia. Gli eventi di Pereira sono questi dialoghi con persone significative, che lo colpiscono, cui presta attenzione. Il dottore gli insegna pure che dentro di noi c’è “una confederazione di anime e che ogni tanto c’è un io egemone che prende la guida della confederazione”.

Pereira un poco alla volta perde peso e prende coscienza del suo nuovo io egemone. Intanto il regime di Salazar diventa sempre più spudorato e feroce. Manda in Spagna, a combattere per Franco, un battaglione, detto Viriato[15], usurpando il nome del capo dei Lusitani ribelli ai Romani poco dopo la metà del II secolo a. C.
Il fatto risolutivo però è l’assassinio del ragazzo Monteiro Rossi nel quale Pereira vedeva quasi il figlio mancato suo e della moglie morta, con la foto della quale parlava mentre lei lo guardava “con un sorriso lontano”. Se avessero avuto un figlio il vecchio letterato, l’umbraticus doctor, si sarebbe sentito meno solo e meno desolato. Tre tangheri dunque irrompono in casa di Pereira dove si era rifugiato Monteiro e ammazzano di botte il ragazzo. Quindi intimano al giornalista di non parlare minacciandolo di morte. E’ una sera di fine estate, e il vecchio quella sera dimentica la sua prudenza, le paure, la sua impoliticità, e concede il potere al nuovo io egemone, coraggioso e battagliero, denunciando l’orribile crimine dei sicari del regime con un articolo di fuoco che riesce a fare stampare e pubblicare con uno stratagemma e con l’aiuto dell’amico Cardoso. Le ragioni del cuore e quelle della testa si erano finalmente riconosciute a vicenda e avevano fatto un’alleanza davvero santa.
Nella scena finale del film di Faenza, Mastroianni-Pereira si avvia rivitalizzato verso la libertà, probabilmente in Francia.
Sono grato a Tabucchi e a Faenza poiché con i loro lavori hanno contribuito ad accrescere la mia vita.
I ganascioni servi del regime invece non li leggo e non li ascolto.

Vediamo ora qualche battuta impiegata nella sceneggiatura del film omonimo di Roberto Faenza
Nelle prime immagini si vede Lisbona che sfavilla in una magnifica giornata d’estate. Pereira era rimasto colpito da un saggio comparso su una rivista: La morte per comprendere il senso della vita. Firmato Monteiro Rossi. Il giornalista senescente va a dire a un frate che il pensiero della morte gli gira spesso in testa poiché gli pare che tutto il mondo sia morto o per lo meno in procinto di morire.
Mastroianni appare vecchio, stanco e malato, quantum mutatus ab illo che vedemmo nella Dolce vita di Fellini!
Il senso della morte si è già impossessato di lui, e la morte stessa gli è vicina. Dice poi al religioso, restio ad ascoltarlo, di non credere nella resurrezione della carne. Il suo credo in questa prima parte è la separazione tra letteratura e politica: “noi non vogliamo occuparci di politica”.
Il ragazzo Monteiro autore dell’articolo però muove e scuote qualche cosa nell’anima intorpidita dell’anziano giornalista. A quel giovane interessa la vita, non la morte. Pereira intuisce che da quel ragazzo può ricevere scosse benefiche e decide di aiutarlo, pur avvisandolo e premettendogli: “io mi occupo soltanto di letteratura”. Gli offre quindi una collaborazione con la sua pagina letteraria. Monteiro allora scrive un coccodrillo su D’Annunzio dandogli del fanfarone, del fascista, del razzista che ha esaltato le sanguinose campagne coloniali. Pereira si prende paura e si mostra scandalizzato da tanta audace parzialità. Cerca addirittura di imbastire un’ improbabile apologia del vate del fascismo italiano, il regime che manda i volontari a combattere al fianco di Franco e dei volontari portoghesi.
Il giovane allora gli chiede: “e le sembra giusto?”
E Pereira: “Non lo so e non voglio saperlo”,
Tale rinuncia a prendere una posizione è stampata con grossi caratteri nel corpo e nella faccia dell’uomo grasso, sudato, quasi unto con il proprio sudore.
Mastroianni è molto bravo ad assumere espressioni prive di vita vivace.
Infatti aggiunge: “io voglio solo un necrologio!”.
Il ragazzo allora gli dice: “in verità io ho seguito solo le ragioni del cuore!”
Il vecchio appare colpito da questa frase, e pensa: “le ragioni del cuore portano seri inconvenienti”, ma non esterna questo pensiero, e invece dice: “le ragioni del cuore sono le più importanti, ma bisogna trovare un equilibrio con gli occhi ben aperti”.
Pereira è un uomo solo, sensibile, chiuso in se stesso da tanto tempo.
Parla con la foto della moglie morta di tisi anni prima e le descrive il ragazzo come il figliolo che avrebbero potuto avere loro due. Si immagina pure che il giovane gli assomigli. Nel condominio dove abita c’è una portiera, una specie di spia che tende a controllarlo e minacciarlo, preoccupandolo e irritandolo.
Monteiro che ha avuto degli anticipi grazie al buon cuore di Pereira, gli presenta un altro articolo, questa volta un necrologio elogiativo di Majkoskij che si è suicidato.
Pereira non può accettare nemmeno questo in quanto “Majlkoskij è un sovversivo!”
Il giornalista si mette in viaggio e in treno incontra una donna ebrea che legge Thomas Mann e prova orrore per il dilagare del fascismo in Europa.
Pereira dice che la situazione non piace nemmeno a lui.
Allora la donna lo incoraggia a fare qualcosa, a fare sentire che non è d’accordo a scrivere delle denunce.
Pereira le risponde: “io non sono Thomas Mann”.
E la donna: “tutto si può fare, basta avere la volontà”.
Quando Pereira arriva, va a prenderlo un amico che gli dice: “alla nostra età, se uno ha un po’ di cervello fa meglio a godersi la vita”.
Ma il vecchio giornalista non si trova a suo agio nel luogo di vacanza dove si è recato e dove incontra il suo direttore dallo stile nello stesso tempo prepotente e servile. Sicché torna quasi subito a Lisbona.
La vita nella capitale peggiora di giorno in giotrno. Un negozio di ebrei viene assalito
Ci sono soldati dappertutto. Il Portogallo è una prigione.
Un cugino di Monteiro deve nascondersi e cerca rifugio
Pereira dice “io non parteggio”, ma lo aiuta.
La ragazza di Monteiro lo invita a schierarsi dalla parte giusta, ma Pereira dice: “io non sono né dei vostri né dei loro”.
L’anziano giornalista parte di nuovo per curarsi e Marta va a salutarlo alla stazione. Pereira è imbarazzato, teme la repressione fascista: dice che Marx ed Engels non sono tra le sue letture preferite. La ragazza gli dice che loro sono per la libertà e per questo lui dovrebbe essere con lei e con i suoi amici
E lui: “io non sono né dei vostri né dei loro e del resto non so chi siano i vostri”.
Vuole rimanere chiuso nella sua gabbia di ricordi, di letture, di scarabocchiature che non cambiano niente.
Dice di essere contento per essere passato dalla cronaca alla letteratura.
Marta risponde: “noi non facciamo la cronaca ma la storia”.
Allora Pereira, sempre più evasivo; “la storia è una parola grossa; io adesso devo partire, non mi segua e non mi cerchi più”
In viaggio parla con la foto della moglie,
Arriva in una spiaggia fosca e triste. Nuota con grande fatica.
Poi incontra il dottor Cardoso che deve curarlo. Gli dice che ha un’insufficienza coronaria. E’ il simbolo dell’insufficienza della sua vita.
Il dottore, molto snello, chiede al paziente quando è cominciata la pinguedine. “Dalla morte di mia moglie”, L’uomo da allora ha tratto qualche malsana soddisfazione da dieci limonate al giorno cariche di zucchero,
“Da oggi acqua minerale non gassata” prescrive il medico.
Il rapporto con il cibo è sempre indicativo dell’ordine o del disordine mentale.
Il terapeuta si prende a cuore il paziente e gli fa domande sull’attività sessuale, inesistente, mettendolo in imbarazzo. Pereira non ha la presenza di spirito di rispondere come fece Sofocle.

Platone rappresenta Sofocle come un vecchio[16] pentito del sesso: Cefalo riferisce di essere stato presente quando un tale domandò al poeta di Colono:"pw'"...e[cei" pro;" tajfrodivsia; e[ti oi|ov" te ei\ gunaiki; suggivgnesqai;", come ti va nelle cose d'amore? sei ancora capace di congiungerti con una donna?
 Quindi il tragediografo rispose: "eujfhvmei w\ a[nqrwpe: aJsmenevstata mevntoi aujto; ajpevfugon, w{sper luttw'ntav tina kai; a[grion despovthn ajpodrav"" (Repubblica , 329c), sta' zitto tu, infatti con grandissima gioia me ne sono liberato, come se fossi fuggito da un padrone furente e selvaggio.
Catone il Vecchio nel De senectute di Cicerone :" Bene Sophocles, cum ex eo quidam iam affecto aetate quaereret utereturne rebus veneriis:"Di meliora! inquit; libenter vero istinc sicut ab domino agresti ac furioso profugi " (14), opportunamente Sofocle quando, già vecchio e fiaccato dagli anni, un tale gli chiedeva se facesse ancora del sesso, disse: dio ne scampi, volentieri invero sono scappato di lì come da un padrone selvaggio e furioso!

Per quanto riguarda i suoi sogni, Pereira dice che la sua visione notturna frequente è quella della spiaggia dove ha conosciuto la moglie e ha passato il tempo più bello della sua vita.
Sta traducendo un racconto di Balzac sul pentimento che lo coinvolge perché anche lui sente di avere qualche cosa di cui pentirsi.
L’evento nuovo della sua vita è che ha conosciuto “due poveri ragazzi romantici, senza futuro”. Il ragazzo scrive necrologi da un punto di vista politico. Questo evento lo ha messo in crisi: “se loro avessero ragione, la mia vita non avrebbe più senso. Io ho sempre creduto che la letteratura fosse la cosa più importante”.
Pereira non ha capito che la letteratura nasce dalla vita e deve potenziare la vita.
Il dottore espone la teoria dell’anima formata da una confederazione di anime guidata da un io dominante che nel tempo può cambiare.
Pereira ascolta il dottore, come medico e come amico filosofo, e torna a Lisbona dimagrito di dieci chili,
Poi incontra di nuovo il frate bizzarro. Il religioso è critico verso il Vaticano che appoggia Franco, mentre lui simpatizza con il clero basco il quale dopo Guernica si è schierato con i repubblicani.
 Bernanos (Diario di un curato di campagna) ha denunciato i massacri del franchismo.
Dunque la letteratura non è politicamente neutra. Si pensi alle Troiane di Euripide.
Il dottore gli dice che ha bisogno di rompere con il passato.
La polizia era dappertutto e cercava i sovversivi
Il direttore, pieno di anelli come Trimalchione, lo sgrida perché ha tradotto un panegirico della Francia, invece che “della nostra patria e della nostra razza”.
“Ma non esiste una razza portoghese-obietta Pereira. Siamo un miscuglio di Celti, Romani, Arabi, Ebrei”
Torna Monteiro a casa di Pereira con l’epitafio di Garcia Lorca. Dice che i nazionalisti spagnoli gridano “Viva la Muerte!”
 Al giovane invece piace la vita.
Pereira nasconde in casa il giovane oramai adottato, ma arrivano tre squadristi che lo trovano e lo ammazzano a furia di botte. Questa è la scossa che fa cambiare vita all’abulico anziano.
Scrive un epitaffio per il ragazzo morto che amava la vita. Denuncia i tre turpi individui che lo hanno ammazzato. E con un trucco riesce ad aggirare la censura e a far pubblicare il pezzo in prima pagina.
Se ne va con uno zaino su una spalla e la giacca su un’altra.
Cammina ringiovanito. Mentre procedeva aveva la sensazione che la sua età non gli pesasse più, si sentiva agile e svelto come se fosse tornato un ragazzo. Ripensò a quella spiaggia e alla fragile ragazza che gli aveva dato gli anni migliori della sua vita. Aveva messo la foto di lei nello zaino
Per ricordare meglio ebbe voglia di fare un sogno bellissimo a occhi aperti. L’avrebbe raccontato a chi ha narrato questa storia.
Dunque Pereira ha seguito molti consigli del dottor Cardoso, ma non quello di cancellare la memoria del passato smettendo di parlare con la foto della moglie

Giovanni ghiselli





[1] Eraclito con il suo stile ieratico e lapidario insegna che l’uomo e il suo destino coincidono: “ h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn”. 
[2] Il gesto buono del cuoco buono si vede nel film Jona che visse nella balena. 
[3] Il parlare male, fa male all'anima. Lo afferma Socrate nel Fedone :" euj ga;r i[sqia[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime. 
[4] Don Pino Puglisi, il prete ucciso dalla mafia, dice, in un altro film di Roberto Faenza, Alla luce del sole: “I sogni colorano il mondo”. Gli autori bravi hanno uno stile proprio, una coerenza stilistica e pure tematica. 
[5] Platone nel Fedone 114d sostiene che è bello il rischio kalo;~ ga;r oJ kivnduno~ di credere nell’immortalità dell’anima.
[6] Scritti corsari , p. 113.
[7] Cfr. suvnesi~ ndr.
[8] Composte intorno al 410 a. C.
[9] Seneca cita questo verso traducendolo così: “ut ait ille tragicus ‘veritatis simplex oratio est’, ideoque illam implicari non oportet” (Ep. 49, 12), come dice quel famoso poeta tragico “il linguaggio della verità è semplice”, e perciò non deve essere complicata.
[10] "Nero virtutem ipsam excindere concupivit interfecto Thrasea Paeto", Annales , XVI, 21, Nerone volle uccidere la virtù in persona con l'ammazzare Trasea Peto.
[11] Nel 66 d. C.
[12]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico , 3, p. 64.
[13] palaia; mevn ti~ diaforav, Repubblica, 607b.
[14] Egli non era un filosofo. I filosofi sono dei violenti che non dispongono di un esercito e perciò si impadroniscono del mondo rinchiudendolo in un sistema”, L’uomo senza qualità, p.243. 
[15] Cui quidem etiam exercitus nostri imperatoresque cesserunt, davanti al quale si ritirarono perfino i nostri eserciti e i nostri generali, ricorda Cicerone in De officiis, II, 40. Viriato Morì nel 138 a. C. fatto uccidere a tradimento dal console Servilio Cepione. Salazar avrebbe dovuto assimilarsi più realisticamente agli assassini di Viriato. 
[16] La Repubblica di Platone è ambientata al Pireo, in casa del meteco Cefalo, padre di Lisia e Polemarco, nella primavera del 408 a. C. quando Sofocle (497-406 a. C.) aveva quasi novant'anni. L'episodio raccontato risalirà a qualche tempo prima.

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