lunedì 7 luglio 2014

Minima Mercatalia, presentazione del libro di Diego Fusaro


Presentazione del libro di Diego Fusaro: Minima Mercatalia, Filosofia e capitalismo (Bompiani, Milano, 2013)

Ho ascoltato Diego Fusaro al festival della Popsophia di Pesaro giovedì 3 luglio 2014.
E’ un giovane eccezionalmente preparato, tenendo conto di quello che sa, di come sa dirlo, e pure del suo essere ancora praticamente un ragazzo: il suo è un caso in cui l’età verde è un pregio in quanto si rivela dotata di capacità che più frequentemente si accompagnano all’età provetta di una vita passata a studiare, imparare, capire, operare.
Non posso dire altrettanto dei giovani messi a governare l’Italia da Berlusconi in qua.
Ma veniamo al libro che ho letto stimolato da quanto ho sentito dire dall’autore e da come lo ha detto.
Il primo capitolo si intitola Fenomenologia dello spirito del capitalismo (p. 29-75). Le pagine sono impreziosite da una collana di citazioni belle che danno luce ai pensieri.
 L’epigrafe è data da alcune parole di Karl Marx che denuncia il tempo in cui “virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc.-tutto divenne commercio. E’ il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore” (Miseria della filosofia).
Non si può non applicare tale critica a questo tempo, al nostro.
Nella pomeridiana “sezione diatribe” della Popsophia il cui tema generale era “Nostalgia del presente”, Fusaro ha discusso animatamente con Simone Regazzoni il quale sosteneva, senza ricorrere a eufemismi o litoti, che “bisogna farla finita con la critica poiché non c’è più la verità”.
Tale affermazione che ha la pretesa tirannica di inibire l’uomo kritikovς, ossia capace di giudicare (krivnein), corrisponde a quello che Fusaro nella sua replica ha chiamato “l’assolutismo monoteistico del mercato”.
Il capitolo in questione, nel primo paragrafo di Minima Mercatalia (1.1) ricorda casi di opposizioni al potere che si possono emblematicamente riassumere con queste parole di Lucano: “victrix causa deis placuit, sed victa Catoni[1].
Fusaro dunque fa propria e attualizza la critica al capitalismo “elaborata da Marx e da alcuni suoi allievi novecenteschi (da Antonio Gramsci a Ernst Bloch, da György Lukács a Theodor Wiesengrund Adorno, da Herbert Marcuse a Costanzo Preve)” e nello stesso tempo rifiuta il “comunismo storico novecentesco in tutte le sue varianti “(p. 30). L’autore riconosce che tale sdoppiamento “può sembrare paradossale”. 
Il giovane professore dell’Università San Raffaele di Milano non crede “con Lukács che il peggior socialismo reale sia comunque sempre da preferire al miglior capitalismo”. Il movente di questo docente trentenne, dei suoi studi, dei suoi libri è “la passione durevole della critica”, una passione “antiadattiva sotto il segno dell’obstinate contra”.
Contro che cosa?  Sia contro il capitalismo dunque, sia contro il comunismo storico che “era formalmente costruito nel nome dell’uguaglianza e, per ironia della storia, ha generato, dalla Russia all’Albania, una delle più subdole attuazioni della disuguaglianza che l’umanità abbia mai sperimentato”[2] (p. 31).
Mi permetto una critica al critico troppo giovane per avere avuto esperienza diretta, autoptica, dei regimi comunisti dell’Europa dell’est: io[3] ho frequentato con borse di studio estive l’Ungheria di Kádár (e di Lukács) e non ci ho trovato la profonda miseria, né le colossali disparità, né le abominevoli ingiustizie dell’Italia di questi ultimi anni. Lo stesso Fusaro, del resto, nella diatriba pesarese ha fatto notare che nella storia del mondo non ci sono mai state disuguaglianze enormi, mostruose, come quelle di oggi, di questa epoca che ha fichtianamente definito “della completa peccaminosità”[4].
Fusaro distingue Marx dal marxismo: quanto è marxiano, di Marx, da quanto è stato attribuito a Marx, e assume come “punto di riferimento... il pensiero critico di un Marx non marxista”. E’ un poco come distinguere Cristo dal cristianesimo dogmatico e dalla degenerazione terroristica delle Chiese che prendono il nome da lui, spesso usurpandolo.
Usurpazione subita troppe volte anche da Marx, dai suoi detrattori e pure dai suoi seguaci.
Comunque Fusaro non nega gli “aspetti positivi” del comunismo storico: “come la liberazione dell’Europa dal nazismo, l’influenza sulle lotte di liberazione nazionale contro il colonialismo dei popoli oppresso dell’Africa, dell’Asia, e dell’America latina, e la stessa formazione del welfare state nei paesi capitalistici occidentali come ‘reazione obbligata’ alle logiche sociali del ‘comunismo reale’” (p. 32).
L’altro versante, non meno antiumanistico e antiumano del comunismo degenerato, è quello del capitalismo reale.
Questo offre una libertà apparente, mentre di fatto impone ai più “la ‘schiavitù salariata’ di individui che, in una condizione di privazione totale e di oscena riduzione dell’umano a merce, sono costretti ad alienare la propria ‘forza lavoro’ e a vendersi quotidianamente…Contro la retorica oggi dilagante, con la caduta del Muro e con il seppellimento sotto le sue macerie del marxiano ‘sogno di una cosa’[5] non hanno trionfato le democrazie, ma l’economia di mercato fondata sull’alienazione universale, sulla globalizzazione degli egoismi, sull’estorsione schiavistica del pluslavoro dei lavoratori precari e sullo sfruttamento della manodopera degli immigrati di tutto il mondo” (Minima Mercatalia, p. 32).
Bene ha fatto Fusaro durante la diatriba della Popsophia a rifiutare la scelta che Regazzoni voleva imporgli tra il nazismo e la democrazia attuale[6]: l’autore di questo libro ha messo in rilievo, non senza ricordare Pasolini[7], che la violenza  criminale di Hitler, evidente e conclamata, lasciava più moventi e stimoli  all’opposizione di quanto ne rimangano dopo il lavaggio del cervello di chi vuole imporci l’idea che quello del mercato onnipotente sia il migliore dei mondi possibili, anzi l’unico mondo possibile, quello globalizzato.
Un globo di continenti peccaminosi, per dirla con Shakespeare[8].
Un inganno programmato, insistente, continuo, il cui fine è dare da intendere che questa epoca che Diego Fusaro chiama “del capitalismo assoluto” sia il punto più alto e la meta finale della Storia.
Esso sarebbe oramai destinato a rimanere eijς a[panta to;n aijw̃na, per tutta l’eternità.
Fa parte dell’inganno, la parte più ripugnante per lo studioso di una civiltà logocentrica, cambiare, capovolgere, stravolgere i significati delle parole, quindi delle idèe, imbarbarendo le menti degli uomini.
A me che sono un classicista, e vedremo più avanti che in questo libro i classici greci sono presenti e fondanti, viene in mente la transvalutazione lessicale compiuta dal “carnevale sinistro”[9] della stavsiς, la guerra civile, nel racconto di Tucidide.

Sentiamo lo storiografo ateniese, l’inventore della storia politica
Nei conflitti interni molti valori si capovolgono: a proposito della stavsi" di Corcira[10], Tucidide afferma che ci fu una transvalutazione generale e le stesse parole cambiarono il loro significato originario:"Kai; th;n eijwqui'an ajxivwsin   tw`n ojnomavtwn ej" ta; e[rga ajnthvllaxan th'/ dikaiwvsei. Tovlmame;n ga;r ajlovgisto" ajndreiva filevtairo" ejnomivsqh" (III, 82, 4), e cambiarono arbitrariamente l'usuale valore delle parole in rapporto ai fatti. Infatti l'audacia irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni di partito. 
Queste parole sono commentate da Montaigne nel capitolo XXIII[11] dei Saggi: "Si leggono nelle nostre stesse leggi, fatte per rimediare a quel primo male[12], l'insegnamento e la giustificazione di ogni sorta di cattive imprese; e ci accade quel che Tucidide narra delle guerre civili del suo tempo che per favorire i pubblici vizi li battezzavano con nuovi nomi più dolci, per scusarli, temperando e ingentilendo la loro vera qualità"[13].

Voglio fare altri esempi di degenerazione del linguaggio e di deriva nichilistica dei valori.

 Nel Bellum Catilinae di Sallustio, Catone, parlando in senato dopo e contro Cesare, il quale aveva chiesto di punire i congiurati "solo" confiscando i loro beni e tenendoli prigionieri in catene nei municipi, denuncia questo cambiamento del valore delle parole:"iam pridem equidem nos vera vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur, eo res publica in extremo sita est " (52, 11), già da tempo veramente abbiamo perduto la verità nel nominare le cose: poiché essere prodighi dei beni altrui si chiama liberalità, l'audacia nel male, coraggio, perciò la repubblica è ridotta allo stremo.
Nel cambiamento dei valori il giudice supremo è il successo, capace di rendere onorevoli certi delitti: “honesta quaedam scelera successus facit” (Seneca, Fedra, 598)

Nella Pharsalia di Lucano è il potere delle armi rabbiose che porta a questa trasfigurazione delle parole: "Imminet armorum rabies, ferrique potestas/confundet ius omne manu, scelerique nefando/nomen erit virtus, multosque exībit in annos/hic furor" (I, 666-669), incombe la rabbia delle armi, e il potere del ferro sfigurerà ogni diritto con la violenza, e virtù sarà il nome di delitti nefandi, e questo furore durerà molti anni.

 E ancora: nel Macbeth di Shakespeare la moglie di Macduff, invitata da un messaggero a fuggire prima che arrivino i sicari del tiranno, risponde: “Whither should I fly?/I have done no harm. But I remember now./I am in this earthly world where to do harm/is often laudable; to do good, sometime-accounted dangerous folly” (IV, 2), dove dovrei scappare? Io non ho fatto del male. Ma ora ricordo. Io sono in questo basso mondo dove fare il male è spesso lodevole; fare il bene, talora è considerata pericolosa follia.

Il potere attuale, rispetto al quale apprezzo molto l’essere “inattuale” di Fusaro, cambia il significato di parole chiave come “democrazia”, “costituzione”, “libertà”, “uguaglianza”.
 In sintesi: potere del demos viene annichilito dallo strapotere del mercato.
 La nostra Costituzione, che riprende un tratto della democrazia periclea[14], dovrebbe “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del paese”[15].
Un’ottima intenzione mai attuata del tutto. Oggi meno che mai[16].

Per quanto riguarda la negazione della libertà e dell’uguaglianza lascio la parola a Fusaro: “Per un altro verso, il capitalismo tende a produrre fughe individuali e collettive dalla libertà in direzione di adattamenti, conformismi e adesioni a mode temporali, superficiali e seriali, che sembrano configurarsi come il capovolgimento della libertà in coazione al livellamento e all’omologazione. Nel fosco regime dell’apartheid planetario, ogni anelito di riconoscimento e uguaglianza si perverte puntualmente in mortificante omologazione di massa (l’“uguaglianza dell’irrilevanza”, secondo la formula del giovane Hegel). Nella nostra società completamente egualizzata dalla disuguaglianza capitalistica, la condizione dell’individuo diventa, per dirla con Lukács, la sintesi tragica di onnipotenza astratta e di impotenza concreta: da un lato, la società odierna si presenta come il coronamento del trionfo dell’individuo, emancipato contemporaneamente da Dio e dalla tradizionale vita comunitaria; da un altro lato, però, l’individuo è dominato da forze economiche e tecnologiche che non può in alcun modo controllare e che assumono sempre più i tratti di quell’imposizione sistematico-planetaria che Heidegger aveva designato nei termini di un anonimo Gestell[17]. (…) Nella “gabbia d’acciaio” del mercato globale, l’individuo è tale solo nel contesto alienato di un individualismo atomistico che ha preventivamente reciso i legami comunitari. Promotore di istanze livellanti non meno dei comunismi novecenteschi, il capitalismo non premia i talenti né i meriti, ma riconosce solo ciò che è “monetizzabile”, generando a propria immagine e somiglianza un mondo la cui mercificazione onnipervasiva e il potere alienato del denaro fanno sì che i soggetti non siano riconosciuti se non come “valore di scambio” vivente perché –come sapeva Marx- “le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità”[18] (Minima Mercatalia, pp. 33- 34)
Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 che ascrivo all’umanesimo, ossia all’amore per l’umanità[19], Marx commenta Shakespeare[20] scrivendo che nel denaro il grande drammaturgo inglese rileva:"la divinità visibile, la trasformazione di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l'universale rovesciamento delle cose"[21].  
L’ultima parola però spetta a Fusaro: “La nostra si presenta come la società in cui, in nome di una liberalizzazione integrale funzionale alle logiche della valorizzazione del valore, è vietato vietare qualsiasi cosa, e la sola cosa vietata è la lotta per una società diversa rispetto a quella che ha assunto la forma merce a orizzonte unico” (Minima Mercatalia, p. 34).
 

Per oggi mi fermo qui. Riprenderò presto a presentare quanto scrive questo giovane amatissimo del sapere[22].


Giovanni Ghiselli



[1] Pharsalia, I, 28, la causa del vincitore piacque agli dèi, ma quella del vinto a Catone. Lucano tratta bella plus quam civilia tra Cesare e Pompeo, suocero e genero. Una guerra nella quale persero tutti, e prima di tutti il popolo, come sempre avviene nei conflitti. Nei primi versi del poema, Lucano annuncia che comincia a cantare (canimus): "bella… plus quam civilia… iusque datum sceleri… populumque potentem/in sua victrici conversum viscera dextra" (I, vv. 1-3), guerre più che civili e il diritto dato al delitto e il popolo potente girato con la destra vincitrice dentro le sue viscere.  Quasi un anti-Eneide che celebrava la pace e l’impero di Augusto.
[2] Cfr. C. Preve, Storia critica del marxismo: dalla nascita di Karl Marx alla dissoluzione del comunismo storico novecentesco, La città del Sole, Napoli, 2007, pp. 10 ss. Cfr. inoltre Id., Il marxismo e la tradizione culturale europea, Petite Plaisance, Pistoia 2009, pp. 75-100.
[3] Sono nato nel novembre del 1944. “Ora è un vecchio che parla” (Pavese, Dialoghi con Leucò, gli Argonauti)
[4]"ovvero della libertà vuota, del feroce conflitto che disgrega ogni ordine, della lotta egocentrica e spietata di tutti contro tutti, dell'anarchia dei particolari sradicati da ogni totalità" C. Magris, L'anello di Clarisse, p. 17.
[5] “Traum von einer Sache”: Karl Marx, lettera a Ruge del settembre 1843; tr. it. a cura di G. M. Bravo, in Annali franco-tedeschi, Massari, Bolsena 2001, p. 75.
[6] Di quella di Pericle, diremo più avanti
[7] I poteri più forti sono quello dei consumi imposto da una concezione edonistica della vita, e quello del conformismo: “le cose si sono aggravate dal ’68 in poi. Perché da una parte il conformismo, diciamo così, ufficiale, nazionale, quello del “sistema”, è divenuto infinitamente più conformistico dal momento che il potere è divenuto un potere consumistico, quindi infinitamente più efficace-nell’imporre la propria volontà- che qualsiasi altro potere al mondo. La persuasione a seguire una concezione “edonistica” della vita (e quindi a essere dei bravi consumisti) ridicolizza ogni precedente sforzo autoritario di persuasione: per esempio quello di seguire una concezione religiosa o moralistica della vita”.
P. P. Pasolini, Lettere Luterane, p. 21.
[8]  Enrico IV, seconda parte, scena IV.
[9] "Un'audacia " ajlovgisto"" prende il nome di coraggio, la prudenza si chiama pigrizia, la moderazione viltà, il legame di setta viene prima di quello di sangue, e il giuramento non viene prestato in nome delle leggi divine, bensì per violare le umane.  Sinistro carnevale, mondo a rovescio, in cui è necessario lottare con ogni mezzo per superarsi e in cui nessuna neutralità è ammessa. Così appare, a Corcira, per la prima volta tra gli Elleni, la più feroce di tutte le guerre (Tucidide, III, 82-84)" (M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, pp. 42-43)
[10]  427-425 a. C.
[11] Della consuetudine e del non cambiar facilmente una legge accolta.
[12] Le prime faziosità (n.d. r.).
[13] Montaigne, Saggi (del 1585), p. 156.
[14] Il paragrafo II, 37, 1 delle Storie di Tucidide ha suscitato più di un eco nella nostra costituzione
Noi, dice Pericle abbiamo una costituzione esemplare (paravdeigma) e degna di essere imitata. Si chiama democrazia è c’è una condizione di uguaglianza (to; i[son) per tutti. Si viene eletti alle cariche pubbliche secondo la stima del valore (kata; de; th;n ajxiwvsin)  né uno viene preferito alle cariche per il partito di provenienza (oujk ajpo; mevrouς) più che per il valore (to; plevon ejς ta; koina; h] ajp j ajreth̃ς), né del resto secondo il criterio della povertà (oujd j au\ kata; penivan) se uno può fare qualche cosa di buono per la città, ne è stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale (ajxiwvmatoς ajfaneiva/ kekwvlutai). Nel Menesseno di Platone, Aspasia dice che nessuno è stato escluso per povertà (peniva/), né per oscurità dei padri, né d’altra parte per condizioni opposte è stato ritenuto degno di onore (238d). Sarebbe stata Aspasia a comporre questo discorso per Pericle.
Sentiamola: “Il popolo assegna cariche e potere a chi gli sembra essere il migliore: nessuno è stato escluso (ajphlevlatai oujdeivς) per debolezza, povertà, oscurità dei padri, né per motivi opposti (oujde; toĩς ejnantivoiς) è stato onorato. C’è un solo limite (ei|ς o{roς): ha il potere e le carichre (krateĩ kai; a[rcei) chi ha la reputazione di uomo saggio o buono (oJ dovxaς sofo;ς h} ajgaqo;ς ei\nai (Menesseno, 238d)
[15] Articolo 3 comma B.
[16] Il pesarese Ivano Dionigi, attuale magnifico rettore dell’Università di Bologna, ha detto, signorilmente, che senza il presalario degli anni Sessanta non avrebbe potuto permettersi gli studi universitari
[17] Das Gestell è la quintessenza dello stellen, del porre, dell’impiantare, dell’azionare.
[18] K. Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, 1932 (1844); tr. it. A cura di N. Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1968, p. 153
[19] “E che cos’era l’umanesimo? Era amore per l’umanità, nient’altro, e perciò era anche politica” (T. Mann, La montagna magica, p. 231)
[20] Il quale nel Timone d'Atene chiama l'oro "comune bagascia del genere umano"; l'universale mezzana che "profuma e imbalsama come un dì di Aprile quello che un ospedale di ulcerosi respingerebbe con nausea" (IV, 3)  
[21] Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 154.
[22] Fusaro stesso nel festival pesarese ha rifiutato l’etichetta di “intellettuale” cui spesso si addice il guinzaglio e il premio dell’osso o delle briciole del banchetto della grossa borghesia, come notò bene anche Pasolini.
Fusaro ha detto di sentirsi piuttosto un filosofo, un amante del sapere.

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