NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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martedì 28 maggio 2013

Perché i Grillini hanno perso parecchi sacchi di voti



In molti si chiedono perché i Grillini abbiano perso tanti consensi. La risposta diretta è molto semplice: perché non sanno parlare.
E non dico non sanno parlare al popolo, difetto che non li differenzierebbe granché dagli altri; no, questi nuovi deputati non sanno proprio parlare, e il Parlamento dove sono entrati da poco è il luogo dove si deve parlare, possibilmente anche bene, cioè in maniera efficace e persuasiva.
L’elettore, per quanto sprovveduto possa essere, e molti non lo sono, perde fiducia in un deputato, uomo o donna che sia, giovane o vecchio che sia, se costui, o costei, non sa parlare. Questi neoeletti hanno poco di proprio da dire, e quel poco non sanno esprimerlo. Grillo dovrebbe imporre loro non il silenzio ma la lettura di molti libri buoni perché questi poveretti, intendo culturalmente, imparino delle idee e sappiano a esprimerle, correttamente, politicamente, e pure - perché no? - retoricamente. I Greci distinguevano gli educati dai male educati, dagli ineducati, loro stessi dai barbari, con il criterio della facoltà verbale.

Il parlare male, fa male all'anima. Lo afferma Socrate nel Fedone: "euj ga;r i[sqi… a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene… Ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
Fa male a chi parla e fa male a chi ascolta.
Non faccio nomi poiché non ho ancora sentito nemmeno un parlamentare grillino capace di parlare: questi poveri di lingua balbettano qualche luogo comune imparato a memoria, poi si allontanano. Al popolo questo non è mai andato bene. Né ai Greci, né ai Latini, né ai razionalisti, né ai religiosi.


Partiamo da questi. Nelle prime parole del suo Vangelo l’apostolo, Giovanni identifica il
lovgo~, il verbum, la parola insomma con l’ajrchv, con il principium, con l’Essere primo: "  jEn ajrch'/  h\n oJ lovgo", kai; oJ lovgo~ h\n pro;" to;n qeovn, kai; qeo;" h\n oJ lovgo". ou|to" h\n ejn ajrch'/ pro;" to;n qeovn. pavnta di' aujtou' ejgevneto, kai; cwri;" aujtou' ejgevneto oujdevn. In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum et Deus erat Verbum. Hoc erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt, et sine ipso factum est nihil (1, 1-3), in principio c'era la Parola e la Parola era con  Dio e la Parola era Dio. Questa era in principio con Dio. Tutto fu fatto tramite lei e senza lei nulla fu fatto.
Quindi il verbo si fece carne: "kai; oJ lovgo" savrx ejgevneto" (14). Io collego questa affermazione, del tutto arbitrariamente se volete, alla facundia persuasiva che attira gli ascoltatori che possono essere le donne, poiché è in corpo di donna che il verbo si fa carne, ma in generale affascina ogni fruitore della parola bella.
La parola brutta, ossia pedestre, vuota e insignificante, ripugna e respinge.
Lo sapeva benissimo don Milani che ha capito questa verità quando afferma: "Bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchirsi la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola"[1].
E’ importante anche ascoltare, per carità, una facoltà collegata, a quella del parlare poiché si impara a parlare leggendo e ascoltando e chi non dà importanza alla parola, non legge né ascolta. Costui parla a vanvera e  pochi lo ascoltano.

Torniamo ai Greci.
Ulisse se la cava sempre grazie alla forza e alla bellezza delle sue parole. Odisseo come eroe e artista della parola viene individuato già da Omero: nella teicoskopiva [2] del terzo canto dell'Iliade, Priamo chiede a Elena di identificare i capi dei guerrieri Achei visibili dalla torre presso le porte Scee; uno gli pareva "meivwn [3] me;n kefalh'/   jAgamevmnono"   jAtreïvdao, / eujruvtero" d  j w[moisin ijde; stevrnoisin ijdevsqai" (vv. 193-194), più piccolo della testa di Agamennone Atride, ma più largo di spalle e di petto a vedersi. La maliarda risponde che quello era Odisseo esperto di ogni sorta di inganni e di accorti pensieri (v. 202).
Quindi Antenore aggiunge che egli l'aveva visto una volta a Troia, in ambasciata con Menelao, e quando i due erano seduti, era più maestoso Odisseo, ma, come si alzavano, Menelao lo sovrastava delle larghe spalle ("stavntwn me;n Menevlao" uJpeivrecen eujreva" w{mou"", v. 210).
Odisseo, in piedi, se stava zitto, sembrava un uomo ignorante o addirittura uno furente e pazzo, ma, quando parlava, dal petto mandava fuori parole simili a fiocchi di neve d'inverno (Iliade, III, v. 222), ossia manifestava la potenza della natura.
Nell’XI canto dell’Odissea Alcinoo dice all’ospite itacese che ha morfh; ejpevwn, bellezza di parole kai; frevne~ ejsqlaiv e saggi pensieri e che il suo racconto è fatto con arte, come quello di un aedo (vv. 367-368). 
Nel Filottete di Sofocle, Odisseo chiarisce al giovane Neottolemo il percorso che l'ha portato a prediligere la glw'ssa (lingua) rispetto agli e[rga (le azioni): "ejsqlou' patro;" pai', kaujto;" w]n nevo" pote;- glw'ssan me;n ajrgo;n, cei'ra d j ei\con ejrgavtin:-nu'n d j eij" e[legcon ejxiw;n oJrw' brotoi'"-th;n glw'ssan, oujci; ta[rga, panq j hJgoumevnhn" (vv. 96-99), figlio di nobile padre, anche io da giovane un tempo avevo la lingua incapace di agire, la mano invece operosa; ora però, giunto alla prova, vedo che per gli uomini la lingua ha la supremazia su tutto, non le azioni. 
La capacità di parlare è preziosa in tutti i campi, da quello dell’avvocato, a quella del medico, del prete, dell’esteta, del seduttore.
"Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes / et tamen aequoreas torsit amore deas", bello non era, ma era bravo a parlare Ulisse, e pure fece struggere d'amore le dee del mare, scrive Ovidio nell'Ars amatoria (II, 123-124).
Sono versi non per caso citati da Kierkegaard nel Diario del seduttore.

Odisseo non usa sempre questa facoltà in maniera etica: Pindaro lo colpevolizza per il fatto che ha ingannato Aiace l’incapace di parlare
/a[[glwsso~ [4] che poi si è ucciso.
Quindi la lingua può essere un’arma a doppio taglio e può trarre il suo fuoco dalla Geenna, come afferma l’apostolo Giacomo[5]
Questo è vero, ma è pure vero che l’assenza della capacità di parlare danneggia la vita. Isocrate sottolinea il valore anche etico del lovgo"  inteso come parola e come pensiero: "to; ga;r levgein wJ" dei' tou' fronei'n  eu\ mevgiston shmei'on poiouvmeqa, kai; lovgo" ajlhqh;" kai; novmimo" kai; divkaio" yuch'" ajgaqh'" kai; pisth'" ei[dwlovn ejstin" (Nicocle, 7) il parlare come si deve, lo consideriamo segno massimo del saper pensare, e un discorso veritiero, legittimo e giusto è l'immagine di un'anima buona e leale.
Potrei ricordare tanti altri autori che celebrano il valore della parola, e la onorano come una dea[6]
Invece concludo tornando agli a[glwssoi, ai Grillini privi di eloquenza.
Mi rivolgo anzi direttamente a loro, a voi Grillini a[glwssoi, e lo faccio non senza un poco di simpatia venata di compassione dopo il vostro insuccesso di ieri del quale non ho gioito: imparate a parlare, e, se avete delle idee, e forse le avete, imparate a esprimerle, prima con chiarezza e scioltezza, poi con eleganza.
Leggete i Greci e i Latini, possibilmente in lingua. Dante ha imparato a scrivere da Virgilio, Virgilio da Omero, da Euripide e da altri autori greci.
Orazio nell’Ars poetica prescrive: “vos exemplaria Graeca / nocturna versate manu, versate diurna” (vv. 268-269), voi leggete e rileggete i modelli greci, di notte e di giorno.
Concludo con Ovidio, uno dei cinque poeti che Dante indica tra gli autori della bella scuola di Omero[7]: "Iam molire animum qui duret, et adstrue formae: / solus ad extremos permanet ille rogos. / Nec levis ingenuas pectus coluisse per artes / cura sit et linguas edidicisse duas" (Ars amatoria, II, vv. 119-122), oramai prepara il tuo spirito a durare, e aggiungilo all'aspetto: solo quello rimane sino al rogo finale. E non sia leggero l'impegno di coltivare la mente attraverso le arti liberali, e di imparare bene le due lingue.

Il latino e il greco ovviamente. Senza con questo disprezzare altre lingue.

Giovanni Ghiselli  g.ghiselli@tin.it

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[1]Lettera a una professoressa, p. 95. 
[2] Osservazione dalle mura, spettacolo dalle mura. 
[3] Cfr. latino minor. 
[4] Nella Nemea VIII , Pindaro ricorda il torto subito da Aiace a[glwsso~ (v. 24), privo di eloquenza. 
[5] La lingua  è un piccolo membro e si vanta di grandi cose (mikro;n mevlo"  kai; megavvla aujcei'). Eppure essa è un fuoco, è il mondo dell'iniquità (oJ kovsmo" th'" ajdikiva") e contamina tutto il corpo e incendia la ruota della nascita e trae la sua fiamma dalla Gehenna (kai; flogizomevnh uJpo; th'" geevnnh")… Ogni specie di fiere e di uccelli e rettili e animali marini si doma ed è stata domata dalla razza umana, ma la lingua nessuno degli uomini può domarla, è un male inquieto, pieno di veleno mortifero (Epistola di Giacomo, 3, 2-8). La mancanza della lingua è un grave handicap, ma la lingua ingannevole produce il male e la morte. Lo scita Anacarsi che andò ad Atene nel 591 e fu ospite e amico di Solone, interrogato che cosa fosse insieme bene e male per gli uomini, rispose “la lingua” Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 8. 
[6] O poeta, divina è la Parola;
Ne la pura Bellezza il ciel ripose
Ogni nostra letizia 
e il Verso è tutto (D’Annunzio, L’Isotteo) 
[7] Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire.
Quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vène;
Ovidio è il terzo, e l’ultimo è Lucano

Così vidi adunar la bella scola
Di quel signor dell’altissimo canto
Che sovra li altri com’aquila vola (Dante, Inferno, IV, 87-90; 94-96)

domenica 26 maggio 2013

In memoria di don Andrea Gallo, un uomo buono, come deve essere un uomo

Voglio onorare la memoria di don Andrea Gallo, con quella di don Pino Puglisi,  di don Lorenzo Milani, non senza menzionare l’opera di don Ciotti e degli altri preti  benemeriti come loro.
Non farò un elogio legato al momento, infarcito dei luoghi comuni della circostanza, come se ne leggono tanti. Risalirò invece ai miei antichi per inserire questi uomini belli e buoni (kalokajgaqoiv) nel gruppo eletto dei magnanimi, ossia le persone dall’anima grande, le quali non possono che stare dalla parte degli ultimi, dei poveri, dei disadattati, degli sfortunati. E’ un capovolgimento della graduatoria formulata dalla volgarità della gente ordinaria, dal buon senso ottuso e reazionario dei più.
Una graduatoria che è stata ribaltata in primis da Cristo, e chi si professa cristiano non può seguire quella opposta, quella degli ottenebrati che disprezzano i deboli, i diseredati, gli ultimi insomma.

A proposito di Gesù, tre righe sopra  ho scritto “in primis” non per usare una locuzione colta, anzi pseudocolta, oltretutto oramai abusata, ma per significare che il Cristo non è stato il solo nell’antichità a dichiarare questo amore, a professare il culto dovuto da chi è umano ai poveri e agli infelici.
Faccio un primo esempio risalendo al più antico poeta europeo, quello di cui Giacomo Leopardi scrisse che "tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia"[1].
Allora vediamo il collegamento tra l’antichissimo aedo, il Cristo, e i preti che ho nominato sopra. Li chiamo “preti sublimi”, come faceva mia mamma, eppure non sono cristiano.
Nel XIV canto dell’Odissea,  Eumeo, il guardiano dei porci, accoglie nella sua capanna Ulisse trasformato da Atena in un mendicante vecchio e molto mal ridotto. Il porcaio che, dunque, non può aspettarsi niente in cambio da tale ospite, lo tratta con generosità, riguardo, cortesia signorile e afferma che si comporta in tal modo poiché gli ospiti e i poveri vengono tutti da parte di Zeus (pro;~ ga;r Diov~ eijsin a[pante~/ xei`noi te ptwcoiv  te, vv. 57-58)
Più avanti Eumeo ribadisce che intende ospitare quello che crede un mendico e vuole averne riguardo siccome ha timore di Zeus ospitale e sente compassione ("ejleaivrwn", v. 389) di lui che è un misero vecchio.

Per elogiare l’umanissima virtù  della compassione mi avvalgo un’altra volta di Leopardi: “Ma la compassione che nasce nell’animo nostro alla vista di uno che soffre è un miracolo della natura, che in quel punto ci fa provare un sentimento affatto indipendente dal nostro vantaggio o piacere, e tutto relativo agli altri, senza nessuna mescolanza di noi medesimi. E perciò appunto gli uomini compassionevoli sono sì rari, e la pietà è posta, massimamente in questi tempi, fra le qualità più ragguardevoli e distintive dell’uomo sensibile e virtuoso”[2].
Faccio un altro esempio tratto dai classici, pascendomi e pascendovi ancora “di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui”[3].
Ricordo quello che  il vecchio Sofocle fa dire a Teseo  nell'Edipo a Colono: "e[xoid  j ajnh;r w[n [4]"(v.567), so di essere un uomo. E' la coscienza della propria umanità senza la quale ogni atto volgare o violento è possibile.
Il sapere di essere uomo che cosa comporta?
Significa incontrare una creatura come Edipo, cieco, esule e mendico, malfamato, rifiutato da tutti, compresi i due figli maschi, provarne pietà, incoraggiarla ponendo domande, chiedendo di che cosa abbia bisogno: kaiv s  j oijktivsa"-qevlw  jperevsqai, duvsmor j Oijdivpou, tivna-povlew" ejpevsth" prostroph;n ejmou' t j e[cwn,-aujtov" te chj sh; duvsmoro" parastavti".", (vv. 556-559), e sentendo compassione, voglio domandarti, infelice Edipo, con quale preghiera per la città e per me ti sei fermato qui, tu e l’infelice che ti aiuta[5]...
Quindi vuol dire ascoltare, mettersi nei panni del supplice e comprenderlo con simpatia poiché tutti noi mortali siamo effimeri, sottoposti al dolore e destinati alla morte.
"Fammi sapere - continua l’umano re di Atene - poiché anche io sono stato allevato da straniero, come te, e in terra straniera ho affrontato più di ogni altro uomo lotte rischiose per la mia vita, sicché non rifuggirei dal salvare nessuno straniero, come ora sei tu, in quanto so di essere uomo e so che del domani nessun attimo appartiene più a me che a te"(vv.560-568).
Teseo pratica contro l’egoismo che minaccia sempre tutti, quella “terapia del rovesciamento”, ossia di mettersi al posto dell’altro, che fa parte dell’umanesimo che è amore per l’umanità, filanqrwpiva ,
Nella tragedia Antigone, la figlia di Edipo  afferma questa filantropia con le parole: "ou[toi sunevcqein ajlla; sumfilei'n e[fun", (v. 523), io non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore.

Tale umanesimo si diffonderà in età ellenistica e partorirà l'humanitas latina che Terenzio interpreta quale interesse per l'uomo e disponibilità ad ascoltarlo: nell’Heautontimoroumenos, il punitore di se stesso, Menedemo,  chiede al vicino Cremete perché si occupi di fatti e persone che non lo riguardano. Allora quella persona umana che  aveva cercato di offrirgli amicizia e gli aveva posto domande premurose per aiutarlo, risponde: "Homo sum: humani nil a me alienum puto" (v. 77), sono uomo e tutto ciò che è umano mi riguarda. E’ il contrario del “me ne frego” fascista, è l’“I care” di Don Milani: “Cercasi un fine. Grande. Che non presupponga nel ragazzo null’altro che d’essere uomo. Cioè che vada bene per credenti e atei… Il fine giusto è dedicarsi al prossimo”[6].
Nell'Eneide di Virgilio, Didone incoraggia i Troiani, giunti naufraghi sulla costa africana, ricordando che anche lei è esperta di sventure le quali l'hanno resa non solo attenta e diffidente, ma pure compassionevole verso i disgraziati: "non ignara mali miseris succurrere disco "(I, 630), non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati. Tanta humanitas non verrà contraccambiata da Enea. Eppure questo è uno degli insegnamenti massimi dei nostri autori e dovrebbe esserlo  nella scuola: "E infine, possiamo imparare la lezione fondamentale della vita, la compassione per le sofferenze di tutti gli umiliati, e la comprensione autentica"[7].

Concludo con Fabrizio De Andrè i cui canti hanno accompagnato e aiutato la crescita della mia generazione. Ci ha insegnato la pietà per i diseredati e per i vinti dalla vita. Per collegarlo  a questo mio intervento con affetto e gratitudine  riferisco alcune sue parole di un'intervista trasmessa l’11 gennaio del 1999 dalla televisione, poco dopo la sua morte: "Ho cercato di analizzare il motivo per cui quando facevo le medie mi ero schierato dalla parte dei Troiani piuttosto che da quella degli Achei che vincevano, mentre vedevo che i coetanei e i miei compagni di scuola si schieravano dall'altra parte. Credo che siano fenomeni addirittura genetici, forse ereditati da qualche avo; non riesco a spiegarmi esattamente perché".
Il motivo della scelta dei vinti da parte di Fabrizio è quello che ho scritto nelle prime righe di questo pezzo: gli uomini onesti e generosi, gli uomini veri non possono che stare dalla parte di chi subisce oppressione e violenza. Anche io fin da bambino stavo istintivamente per i Troiani e per gli Indiani dei film western.
E non ho cambiato partito: il mio rimane e rimarrà sempre quello di chi subisce ingiustizia.

Giovanni Ghiselli  g.ghiselli@tin.it
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[1]Zibaldone ,  58.
[2] Leopardi, Zibaldone, 108.
[3]Niccolò Machiavelli,  Lettera a Francesco Vettori.
[4] Questa espressione può essere un ottimo punto di partenza per spiegare il participio predicativo a dei ragazzi e nello stesso tempo dare loro una lezione di morale. La grammatica e la sintassi, per riuscire interessanti, vanno “condite” subito con il sapore delle idee.
[5] E’ la figlia Antigone che accompagna. Molti tra i “rifiuti umani” aiutati da don Gallo erano dunque ancora più desolati di Edipo.
[6] Lettera a una professoressa, p. 94.
[7] E. Morin, La testa ben fatta, p. 49.

sabato 25 maggio 2013

Elogio della corsa

Riprendo il tema della bellezza e della necessità dell’ascesi somatica, di quell’esercizio sportivo senza il quale si rimane, o si diventa, "più molli del necessario"[1].
Dovevo vincere una gara allo stadio, ancora quello di Debrecen, ma quell’estate, era il 1980, ci ero andato con Ifigenia, la giovane collega e amante italiana. Era tornato nella cittadina universitaria ungherese anche Fulvio, stanco delle sue  nozze diventate con gli anni tediose e dolorose.

L’agone era quello dei 1500 metri per i quali non avevo allenamento né talento specifico. La mia distanza infatti era, ed è, quella dei 5000, 12 giri e mezzo di pista. Eravamo otto agonisti. Il più vecchio ero io. Il più temibile era un francese ventiduenne allenato a quel percorso, tre giri e trecento metri, troppo breve  per le mie caratteristiche fisiche e per quelle mentali, che poi sono connesse. Io ho bisogno di tempi e distanze lunghe. Mi manca lo scatto, fisico e psichico. Tra gli altri c’era un centometrista, Diego, che se avesse resistito alle mie spalle fino all’ultimo rettilineo, mi avrebbe stracciato. Dovevo imporre un ritmo elevato sin dall’inizio, senza però arrivare sfiancato nella parte finale. Nonostante il mio allenamento negli stadi, dove gareggia velocità di piedi e vincono vertici ardimentosi di forza[2] intelligente, non ero sicuro di me: troppo breve era quella competizione  rispetto ai miei mezzi, ai miei ritmi, perfino ai miei gusti. Nello sport e nella vita ho bisogno del beneficio del tempo per utilizzare la mia tenacia e la mia resistenza alla fatica e al dolore. Anche per questo prego, oltrepassando Solone[3], che il destino di morte mi colga per lo meno novantenne.
Ifigenia faceva il tifo per me, mi incoraggiava: diceva che avrei vinto di sicuro, e quando quella creatura mi dava fiducia, preferivo morire che demeritarla.
Al momento della partenza ero nervoso: andavo nel bagno degli spogliatoi a orinare ogni cinque minuti, tutte le volte volta nella speranza di perdere qualche grammo aggravante di peso superfluo la nobile gara. Lo sforzo mi provocò perfino una goccia di sangue, con terrore e presagi di qualche sfacelo forse nemmeno abbastanza remoto[4].
Ma oramai ero quasi in ballo, ossia in corsa e dovevo correre.

Sul traguardo, con  Ifigenia, c’era Fulvio, l’amico più caro, e una ventina di conoscenti, persone assai meno importanti. Anche con loro però avrei fatto una bella figura oppure una figura grama, da senescente fallito. Indossavo una maglietta gialla con il nome del nostro liceo dove avrei trionfato anche sui malevoli, vecchi[5] colleghi se avessi vinto quell’agone latore di auspici. Sotto la maglia avevo un paio di calzoncini rossi, aderenti, leggeri, regalo ben augurante della mia bella compagna. Partii dunque in testa imponendo un’andatura veloce per stancare subito Diego, il ragazzo napoletano dal temibile scatto finale. Invero dopo solo trecento metri, ossia all’inizio del terz’ultimo giro, avevano perso terreno tutti, tranne l’antagonista francese che mi restava attaccato alle spalle, e, a giudicare dal respiro,  sembrava più sciolto e meno affaticato di me. Ifigenia intanto, al primo passaggio sul traguardo, saltava e gridava incoraggiandomi assai. Procedemmo nella stessa maniera per tutto il giro seguente: io davanti, sperando di sentire affannata la  lena del transalpino, lui dietro, continuando a tallonarmi e a respirare senza fretta, quasi senza fatica. Dal suo fiato più lento e disteso del mio, capivo che, se voleva, poteva imporre un ritmo più alto. Infatti, all’inizio del penultimo giro mi superò.
Ifigenia non smetteva di incoraggiarmi, fiduciosa nella mia, nella nostra vittoria.
Tutti gli altri, distanziati parecchio, erano ormai fuori gioco.
L’unico antagonista dunque, agli ottocento metri dalla linea d’arrivo mi superò, poi proseguì nel suo attacco: come il fiato, anche il passo aveva agile e sciolto, e io stentavo a rimanergli dietro. Mi sembrava di ciabattare rigido, contratto, appesantito; mi sentivo pure macchiato di sangue appiccicoso e oneroso nelle mutande , mentre il rivale  pareva divinamente a suo agio: come se si allenasse per gioco, in tranquilla attesa di darmi la botta finale, l’implacabile colpo di grazia. Pensavo alla sconfitta come a un presagio sinistro, un triste preannunzio di danni futuri[6].
 Ai cinquecento metri dall’arrivo, poco prima di passare per la terza volta davanti a Ifigenia che mi incitava a gran voce e mostrava di credere in me, nella mia vittoria, nonostante fossi già prossimo allo stremo, volli fare la prova dello sprint che avrebbe risolto la gara dopo un altro giro, in fondo agli ultimi 400 metri. Per non correre il rischio di restare chiuso all’interno, mi spostai all’esterno, raccolsi buona parte delle forze residue e feci uno scatto con il quale oltrepassai il rivale e, per la penultima volta, il traguardo. Ifigenia gridò: "bravo, bravo!" e fece due salti battendo freneticamente le mani. Mancavano ancora quattrocento metri però, e io avevo dato quasi tutto. Meta erat longe[7] rispetto a quanto mi restava di forza fiato.
Dopo una trentina di metri infatti il rivale tornò a superarmi, e non con uno  scatto repentino e inopinato, come avevo fatto io prima impiegando una dose spropositata di energie, ma con l’alzare progressivamente il ritmo delle sue  lunghe, potenti falcate. Aveva quattordici anni meno di me ed era una decina di centimetri più alto. Ali sembravan le sue gambe snelle[8].
Ali del divino uccello di Zeus[9].
Parevano sollevarsi e distendersi senza troppa fatica, quasi con negligenza sovrana, mentre le mie, per reggere il nuovo ritmo, arrancavano rigidamente con rabbia pesante, con stento, fatica, dolore, umiliazione.
Secco usciva l’affanno dalla mia bocca aperta e stremata[10].

Per non rimanere turpemente staccato, dovevo adoperare tutta quanta la forza che potevo trovare frugando a fondo nella mia persona, tutte le energie positive accumulate in trentacinque anni e mezzo di vita.
Pensai a Ifigenia che mi aveva sempre apprezzato anche per come correvo i 5000 metri. Poi mi feci venire in mente che in luglio avevo scalato il Pordoi con una bici pesante, vecchia, arrugginita, eppure a una media di 18 chilometri all’ora,  che con tre anni di studio intelligente ero diventato un professore egregio e avevo fatto innamorare di me, non bellissimo, non ricco, del tutto privo di ogni potere, la più bella, giovane e corteggiata supplente del liceo classico più frequentato della dotta città di Bologna. Ebbene quella ragazza sarebbe rimasta delusa se fossi arrivato secondo. Probabilmente mi avrebbe disprezzato e lasciato. Infatti la donna che può scegliere in un mazzo di pretendenti, non perdona l’insuccesso[11] al prescelto, ed è giusto così. Dopo tanta prosopopea, debole e  imbecille mi sarei rivelato arrivando secondo.
Non mi voltai, poiché non sentivo nessuno dietro di me: il secondo posto era assicurato, per carità, ma cosa me ne facevo? Non potevo rassegnarmi a non vincere senza avere spremuto me stesso fino all’ultima goccia di forza, di sangue, di vita, di tutto. Ifigenia da me si aspettava almeno il primo posto. Meglio ancora, del tutto degno di tanta amante sarebbe stato che io vincessi con cento metri di vantaggio. Ma questo non era possibile. Mentre pensavo e mi spronavo come potevo, dovevo usare tutte le energie rimaste per non perdere metri preziosi. Ho scritto sopra che mi manca lo scatto in partenza, però quando arrivo in fondo a un percorso meno stanco degli altri, posso avvalermi di questa relativa freschezza negli ultimi metri. Quindi, se riuscivo a rimanergli dietro fino all’ultima curva, sfruttando oltretutto la scia, nel rettilineo finale potevo cercare di superarlo mettendo in lizza tutto quanto di vivo poteva esserci ancora in me. "Oh mia bella mora, no, non mi lasciare, non mi devi abbandonare, no, no, no, no, no, no!", canticchiai mentalmente, per sdrammatizzare, il ritornello di una canzoncina della mia prima adolescenza.

L’ultima curva fu atroce. Il rivale mi attaccò ancora, scattando a ripetizione. Prese un vantaggio di tre-quattro metri. Quando sbucai sul rettilineo dell’arrivo, vidi Ifigenia. Agitava le braccia alzate sopra la testa e gridava: "Dai Gianni, non cedere amore, non cedere!"
Mi vennero in mente le tante volte che avevo corso gli stadi: prima per meritarmi l’amore di donne giovani e belle, poi per conservarlo. La più bella, la vera borsa di studio e di ogni erculea fatica era lì, e mi incitava con tutta la forza, e pretendeva che il suo uomo non fosse soltanto il secondo.
"Non cederò[12] - pensai - prima crepo. Senza l’aurea Afrodite non potrei vivere più".
Richiamai alla memoria i faticosi successi della mia travagliosa esistenza per ottenere il consenso, l’ammirazione e l’amore delle femmine umane: dagli ottimi voti scolastici con i quali volevo conquistare la mamma, la nonna, le zie, la bruna compagna di scuola Marisa,  alle citazioni di Leopardi o di Dante, di Petronio, di Eliot, di Pavese per colpire Elena Sarjantola, alle conversazioni intelligenti, con Päivi, al matto, eppure non disperato impegno nelle materie di insegnamento che mi avrebbe procurato l’agognata borsa di studio incarnata nella splendidissima supplente Ifigenia che era lì a Debrecen con me, presente e viva.
Poi pensai di nuovo alle fatiche fisiche: gli allenamenti a piedi e in bicicletta, le nuotate nel mare di Pesaro; ricordai l’impiego tedioso del tempo: le ore passate in solitudine a prendere il sole, disidratato sulla sabbia rovente, o scorticato dal freddo sulla neve delle montagne battute da soffi acuti di vento ghiacciato, rabbrividendo fino alle viscere, in solitudine immobile per ricavarne l’abbronzatura che mi rendesse più piacente e  gradito alle femmine umane. Poi i digiuni, la fame a volta crudele, talora insonne,  per conquistare, o recuperare, o mantenere la linea da asceta, la forma stilizzata che mi soddisfaceva e mi rendeva in termini di rapporti umani. Nell’itinerario lungo e difficile c’erano molti sacrifici, fino alla spietatezza verso me stesso, c’era del dolore, c’era qualche frustrazione, ma c’erano anche diversi successi.
Potevo vincere ancora.

Feci uno scatto a novanta metri dall’arrivo: ai settanta avevo raggiunto la schiena dell’antagonista. Temporeggiai per dieci metri, onde lenire un momento l’affanno, quindi mi portai sulla destra e scattai di nuovo: lo superai, poi vidi che guadagnavo terreno; allora, con gli occhi chiusi e il collo tutto teso all’indietro, senza pensare più a niente, quasi non respirando, mi scagliai sul traguardo impiegando e impegnando allo spasimo tutto quanto di vivo mi restava dentro.
Superata la meta, respirai e riaprii gli occhi. Ifigenia esultava. Mi buttai boccheggiante sul prato interno alla pista. Il francese arrivò distanziato di cinque o sei metri. Diego di un centinaio. Gli altri dopo di lui.
Quando ebbi ripreso fiato e piena coscienza, Ifigenia venne a dirmi: "Bravo, non mi aspettavo meno da te". Fulvio disse che avevo fatto un figurone con quei ventenni. Ero felice.
Quella sera io e la mia donna capimmo che il nostro rapporto aveva valore finché l’uno dava all’altro la spinta verso le cose egregie. La gara vinta era un segno, un gran buon segno. La sera, non avendo in collegio una stanza comune,  facemmo l’amore diverse volte nella nera Volkswagen tra gli alberi antichi dell’antica foresta. Non sentivo il desiderio né il rimpianto di donne migliori. "Finché mi fa vincere - pensai - l’ottima è lei".
Naturalmente dovevo, e volevo, a mia volta incoraggiarla a primeggiare sempre, a essere egregia tra tutte le altre[13].

Giovanni Ghiselli. g.ghiselli@tin.it

Nella foto: io in Grecia nel 2009, sotto lo spruzzo dell'acqua di un parco dopo una giornata di sport 
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[1] Nella Repubblica (410d), Platone rappresenta suo fratello Glaucone che conversa co Socrate e sostiene che coloro i quali praticano la sola e pura ginnastica sono ajgriwvteroi tou` deevonto~, più rozzi del necessario, ma quelli che non praticano l’esercizio fisico sono malavkwteroi, più molli del necessario. Parole sante. Si può pensare da una parte a tanti calciatori, dall’altra agli umbratici doctores  alle talpe che si acciecano nel buio e nella polvere delle biblioteche.
[2] Cfr. Pindaro, Olimpica I, vv.95-96
[3] ojgdwkontaevth moi`ra kivcoi qanavtou, (fr. 22D, v. 4),  il  destino di morte mi colga ottantenne.
[4] "Essi fuggono via/da qualche remoto sfacelo;/ma quale, ma dove egli sia,/non sa né la terra né il cielo" (Giovanni Pascoli, Myricae, Scalpitìo,  vv. 9-12)
[5] Cfr. Terenzio, Andria, 6-7.
[6] Cfr. Dante, Inferno, XIII, 10-12: "Quivi le brutte Arpìe lor nidi fanno, / che cacciar delle Strofade i Troiani / con tristo annunzio di futuro danno".
[7] Cfr. Ovidio, Metamorfosi, X, 665, la meta era lontana. Il poeta peligno racconta la gara  tra Atalanta e  Ippomene che vince la corsa grazie all’astuzia dei pomi d’oro.
[8] Cfr. Dante, Inferno, XVI, 87.
[9] Cfr. Pindaro, Olimpica II, 88.
[10] Cfr. Ovidio, Metamorfosi, X, 663: "aridus e lasso veniebat anhelitus ore". Ippomene non ce l’avrebbe fatta senza l’aiuto di Venere che gli aveva dato le mele d’oro. Né io senza l’incoraggiamento, l’aiuto mentale di Ifigenia.
[11] Cfr. Čechov, Il gabbiano, II. "Le donne non perdonano l’insuccesso", dice Kostantin che poi si uccide.
[12] Cfr.  Iliade, XIX, 423 ouj lhvxw. E’ Achille che risponde a Xanto, il cavallo fatato che, abbassato il capo e tutta la chioma, gli ha predetto la morte vicina.
[13] Cfr. Iliade,  VI, 208  "aije;n ajristeuvein kai; uJpeivrocon e[mmenai a[llwn".

venerdì 24 maggio 2013

Il referendum di Bologna sulle scuole



A Bologna infuria il dibattito sui fondi comunali alle scuole materne paritarie. Continuare a darli o toglierli? Il problema è questo. La cittadinanza potrà esprimere il suo parere attraverso un referendum.

Vediamo alcune ragioni degli uni e degli altri.

Romano Prodi
è il più autorevole sostenitore del mantenimento dei finanziamenti alle paritarie. Il professore ha scritto nel suo blog che il referendum si doveva evitare poiché apre in modo improprio un dibattito che va oltre i ristretti limiti del quesito. Lui comunque voterà l’opzione B, quella del finanziamento "per una semplice ragione di buon senso". Infatti, "perché bocciare un accordo che ha funzionato bene per tanti anni?" Domanda il professore, e aggiunge: "Credo che le restrizioni che oggi limitano drammaticamente l’azione del Comune (per cui non tutti coloro i quali vogliono mandare i figli alle scuole comunali e statali possono farlo) siano dovute a una errata gerarchia nella soluzione dei problemi del paese, e non solo ad accordi di questo tipo".

Il referendum si terrà domenica 26 maggio. Si voterà dalle 8 alle 22. Possono votare i maggiorenni residenti mostrando un documento di identità.

Il sindaco Virginio Merola ha chiarito che il risultato del referendum è solo consultivo e non gli farà cambiare opinione rispetto al suo programma di mandato che prevede il finanziamento. Credo che un sindaco eletto dai cittadini di Bologna, dovrebbe tenere conto dell’opinione della maggioranza dei Bolognesi.
Dalla stessa parte è schierato il cardinal Carlo Caffarra e tutta la destra politica. Le loro ragioni sono la libertà di scelta dei genitori e l’insufficienza dei posti nella scuola pubblica.

Sull’altro fronte si trovano diversi personaggi locali e nazionali: Francesco Guccini, Gino Strada, Stefano Rodotà, Michele Serra, Sergio Cofferati, e altri più e meno famosi.
Riferisco le parole  di alcuni dei soliti noti locali, quelli che voteranno domenica.
Guccini
, che potrebbe influire parecchio sul risultato referendario grazie alla sua popolarità,  sostiene, con parole a dire il vero un poco generiche, che "la scuola dell’infanzia, pubblica, laica e plurale, è uno dei luoghi fondamentali dove l’uomo prende forma e inizia il suo viaggio". Poi cita Calamandrei: "Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale".

Io dico che tali difese possono essere condotte efficacemente da insegnanti preparati, onesti, capaci e che le qualità morali e intellettuali non dipendono da etichette di nessun genere. Oggi si guarda troppo ai cartellini con il nome delle persone classificate magari per genere o per età, senza tenere conto della sostanza.
Pullulano i dibattiti, i confronti, le manifestazioni  degli uni e degli altri. Ieri, nella sede del quotidiano "la Repubblica" si è tenuto un forum sul Referendum: un duello oratorio tra Zamagni e Bonaga.
Il primo sosteneva la paritaria affermando che questa non è scuola privata ma anch’essa pubblica e che "Lo Stato assolve il suo dovere di fornire istruzione pubblica anche affidandola a soggetti non lucrativi che accettino le regole e i parametri della legge".
Bonaga ha denunciato: "il livello indecoroso del finanziamento pubblico all’istruzione: in Italia metà della media europea".
Poi ha aggiunto: "Anche in tempo di crisi, il contadino non risparmia sulla semina, dobbiamo investire di più sulla scuola pubblica, non di meno".
Su questo punto non si può non essere d’accordo. Io lo sono del tutto.

Zamagni sostiene che "le scuole paritarie costano 6 milioni. Il Comune ne versa solo uno, quindi ha un risparmio di cinque milioni in ben 27 scuole paritarie". E conclude: "E' quello che gli economisti chiamano ‘costo opportunità’".
I contrari, come Ivano Marescotti, ribattono che "tutti i soldi devono essere indirizzati alla scuola pubblica" e che "le scuole private sono spesso confessionali". Anche questo è vero.

Ci sono ragioni plausibili nell’uno e nell’altro schieramento.
Chi scrive non deve votare, siccome ha la residenza a Pesaro e, dunque, non è costretto a una scelta.
Allora risolve la questione come fece Alessandro Magno con il nodo di Gordio.

Era la primavera del 333 a. C.. Il figlio di Olimpiade e Filippo  non riusciva a sciogliere l’intricatissimo viluppo, e i Macedoni temevano un cattivo presagio. Ma il re disse: “Nihil interest quomodo solvantur” (Curzio Rufo, 3, 1, 18) e tagliò con un colpo tutte le cinghie. Come per l’uovo di Colombo, non è il risultato, ma la novità della soluzione, che porta l’impronta del genio.
Seguendo questo esempio, taglierò via i fuchi, i calamistri e ogni altro elemento ascitizio.
Non parlo in via teorica, bensì usando l’esperienza di una sessantina d’anni passati a scuola. Dopo tanto dibattere e discutere anche da parte di tanti che non si intendono di scuola, dico che il vero problema è quello della preparazione degli insegnanti. Quelli bravi, cioè studiosi, sono pochi, siccome dal potere discende l’avvertenza che l’ignoranza paga e che il non saper niente e il non saper fare niente, purché non dia fastidio a chi comanda, non  è uno svantaggio, anzi aiuta. Basta ascoltare gli incompetenti ultimamente cooptati dai tre maggiori partiti.
Io guarderei al di là del dilemma "pubblico-privato" e lo sostituirei con quello "scuola buona o scuola cattiva". Qui a Bologna ci sono insegnanti bravi, insegnanti meno bravi e pure insegnanti tutt’altro che bravi. Dove insegnano i bravi, la scuola è buona, dove i poco bravi è mediocre, dove i non bravi è pessima.
Andrebbero fatti controlli seri da parte di ispettori bravissimi, ma "quis custodiet ipsos / custodes? "[1]
Comunque un argomento forte e decisivo contro le scuole private o paritarie che dire si voglia, è facilmente trovabile e difficilmente confutabile: i docenti, almeno a livello di superiori di cui ho esperienza, vengono pagati meno nelle paritarie, molto meno, e, per questo motivo, di solito vi si rifugiano quelli che non riescono a entrare nelle statali.

Concludo citando Stefano Rodotà e le sue ragioni:
"La scuola è uno spazio pubblico di confronto, dove ci si abitua a convivere con chi ha altre consuetudini, altro colore della pelle, altra religione, altre abitudini alimentari. Se ciascuno si chiude nel ghetto della propria scuola privata, viene meno la conoscenza dell’altro e si prepara una società della distanza, per non dire del conflitto.
Tra tante difficoltà la scuola produce anticorpi..."


Giovanni Ghiselli
g.ghiselli@tin.it


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Nell'immagine: "La Scuola di Atene" di Raffaello Sanzio, databile al 1509-1510






[1] GiovenaleVI, 347.348, chi custodirà gli stessi custodi, ovvero chi ispezionerà gli stessi ispettori? Le persone davvero preparate ora in Italia sono pochissime, se pure ci sono.

lunedì 20 maggio 2013

L’ottimo piano strutturale del comune di San Lazzaro di Savena



Il comune di San Lazzaro ha elaborato un piano della sosta  che offre ai cittadini diverse possibilità  alternative all’uso dell’automobile privata.  Questo progetto è inserito in una  strategia strutturale  che punta sul trasporto pubblico e sull’uso della bicicletta, incentivato con le piste ciclabili e con il bike sharing

E’ un’offerta di civiltà e di umanità poiché l’impiego ridotto e meglio ordinato, razionalmente disciplinato delle automobili, è un tentativo sano di rimediare al guazzabuglio del traffico automobilistico, un caos non poche volte omicida.
Il piano di razionalizzazione e riduzione dell’uso delle automobili, dato il numero di morti provocato ogni anno dai veicolo motorizzati, guidati anarchicamente, talora pazzamente e criminalmente, equivale a frenare la vendita di vere e proprie armi che non poche volte finiscono in mano a dei pazzi assassini, autori di stragi. Le vittime delle ecatombi stradali spesso sono bambini, sono vecchi, sono donne che accompagnano i bambini. Omicidi e femminicidi da esecrare e punire quanto quelli perpetrati con fucili, rivoltelle e coltelli. 
Usare le proprie gambe, sui piedi o sui pedali, piuttosto che le macchine  motorizzate è anche una forma di rispetto, di fedeltà alla terra la nostra madre comune .
Rimanetemi fedeli alla terra fratelli miei![1]

Le menti degli infingardi sono pronte ad approvare una pigrizia ingannevole e deleteria piuttosto che un salutare esercizio, ma con il trascorrere del tempo irrevocabile quei corpi ignari di ascesi[2] somatica arrancano verso una vecchiaia malsana, segnata da una calvizie mal dissimulata, oppure da "una canizie vituperosa"[3].
Quando ribolle il fiore della giovinezza, quando i capelli ondeggiano lucidi lungo tutto il dorso tornito, è bene premunirsi per il futuro che, pur-troppo presto, verrà: "to; mevllon h{xei"[4].
"Io non so come sia possibile passare accanto a un albero e non sentirsi felici di vederlo. Parlare con una persona e non essere felici di volerle bene! Oh, io non so esprimere bene i miei sentimenti... Ma quante cose belle vediamo ad ogni pie’ sospinto? Guardate un bambino, guardate l’alba divina, guardate come cresce un fuscello, guardate negli occhi che vi guardano a loro volta e vi vogliono bene."[5].
Chi usa la bicicletta, o va a piedi, può osservare la bellezza del mondo,  che sfugge quasi tutto al forsennato che corre chiuso nell’automobile.

La nostra breve vita mortale è circondata, fuorviata, frastornata dal chiasso e dal cattivo odore dei veicoli a motore. Approvo dunque con entusiasmo il piano del sindaco di San Lazzaro e nello stesso tempo rivolgo un appello al primo cittadino di Pesaro dove pago le tasse: il viale della Vittoria che si trova tra il lungo mare e la piazza centrale, a poco più di cento metri dall’uno e dall’altra, è diventato una pista di corse automobilistiche, e, d’estate, anche motociclistiche: nelle notti di agosto sfrecciano e rombano mostri insonni che tolgono il sonno ai cittadini. Alle due, alle tre, alle quattro di mattina, si svegliano esterrefatti uomini e donne che  abbracciano bambini piangenti, strappati dal riposo mentre dormivano sul loro seno. Le mamme "balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono / nude le braccia su l’amato capo / del lor caro lattante"[6] cercando di attenuare il terrore del piccolo.
Invano: tutta la notte strepitano le motociclette con rumori d’inferno. I tubi di scarico delle moto-arpie scaricano i flussi schifosi del loro ventre laido, foedissima ventris -proluvies [7], con fragore assordante
Quel frastuono ha l’effetto del pugnale di Macbeth: ammazza il sonno, il sonno innocente, balsamo delle anime stanche, conforto delle menti già turbate[8] dai rumori del giorno.
Infatti  se il fracasso del giorno si  lascia fuggire qualche cristiano, su questo si avventa il frastuono notturno.
Allora i guanciali diventano rovi spinosi[9].

Ho usato un poco di letteratura per denunciare la gravità del danno procurato al centro della città dove vivo d’estate, ma questo disagio enorme si può manifestare attraverso parole più semplici e forse non meno efficaci: noi Pesaresi, non ne possiamo più, "cari" amministratori del nostro Comune: cercate anche voi dei rimedi.  


(nella foto, da sinistra: Fulvio, Alessandro, io, Maddalena dopo avere scalato il monte Olimpo - sullo sfondo tra le nubi - fino a quota 2100m)

Giovanni Ghiselli
g.ghiselli@tin.it 





[1]Bleibt mir der Erde teuer, meine Brüder,  F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, prefazione.
[2] Nel senso del greco a[skhsi~, , "esercizio", "allenamento".
[3] Manzoni, I promessi sposi, XIII.
[4] E’ un'affermazione della necessità minacciosa presente nell'Agamennone  di Eschilo (v. 1240), il futuro verrà.
[5] F. Dostoevskij, L’idiota (del 1869) p. 700. E’ il protagonista,  il principe Myškin che parla
[6] Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 109-111.
[7] Cfr. Eneide  III , vv. 216-217
[8] Cfr. Macbeth, II, 2 Macbeth does murder sleep, the innocent sleep, balm of hurt minds
[9] Cfr. "Avrai per guanciali sol vepri o Macbetto!" Macbeth  di Verdi-Francesco Maria Piave (I, 11)