lunedì 15 dicembre 2014

L’allegra brigata di stravaganti. Debrecen 1966, X capitolo

con Fulvio ad Atene, 2005

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Debrecen 66
X capitolo


Riprendo il racconto di quell’estate lontana. Cercherò di elevare l’elemento personale e anche personalissimo all’eternamente umano. Come sanno fare pochi tra i tanti che scrivono dei fatti loro.
Saffo, Catullo, Orazio, Leopardi e non molti altri. I più, anche certi poeti insigniti dal Nobel, accozzano parole in libertà, spesso prive di senso, sganciate dalla vita e tali che non riguardano nessuno, perciò nessuno le legge.
I personaggi di cui sto per scrivere sono tipi eternamente umani.
Quanto scrivo sarà utile agli infelici e spassoso per i felici.
L’inserimento nell’allegra brigata dei compagni di camera mi era riuscito e mi curava l’anima dalla tristezza accumulata colpevolmente negli ultimi sciagurati tre anni di vita, una vita da anacoreta piuttosto sordido che santo. Ricordo quei ragazzi ancora con gratitudine, siccome il bene ricevuto sopravvive nei decenni se sappiamo apprezzarlo, e continua ad agire. Se lo dimentichiamo invece, è come se non lo avessimo mai avuto dentro.
Vediamoli questi ragazzi del ’66, messi in goliardica e benevola caricatura.
Erano buffi assai ma per niente cattivi. Io ero probabilmente più buffo e meno buono di loro.

Danilo
Danilo ogni mattina a colazione beveva un litro di birra, e se gli facevamo notare che era un po’ troppo presto per darsi all’alcol, rispondeva alterato: “Cossa vu to, kiss polgar[1]? Questo è un inocuo birin, ed è tutta salute, perché lui, caro da Dio, impedisce al mio tasso alcolico salito alle stelle durante una notte di vino meraviglioso e di graspe divine, di precipitare troppo in fretta nell’orrendo burrone del nulla annientando anche me poveretto!”
Gli chiedevo che cosa volesse dire.
Allora l’amico veneto chiariva l’enigma malsano spiegando che aveva imparato ad amare gli alcolici per difendersi dal freddo agghiacciante di un inverno passato nell’eroica città di Leningrado assediata dal gelo. Quando raccontava queste peripezie lo chiamavamo “Von Danilus”.
E giù due risate.
Si scherzava insieme, giovanilmente vezzeggiando, eppure quel ragazzo esposto al freddo e al gelo come Gesù bambino, il re del cielo sceso nelle grotte, aveva contratto un vizio da schivare fuggendone a gambe levate. Tuttavia non mi dispiaceva, forse perché la visione della sua ebbrezza colorata di rosso, era meno depressiva e pericolosa del velenoso, nero rancore verso la vita, gli umani e verso me stesso, che avevo respirato, come un miasma quasi mortale, negli ambienti di persone dogmaticamente borghesi e bigotte che mi avevano inculcato sensi di colpa e di inferiorità siccome ero del tutto diverso da loro.
Danilo nonostante il troppo bere era buono, intelligente e colto.

Luigino
Luigino la mattina veniva a lezione con noi; il pomeriggio invece non ci seguiva nella piscina, ma indossava un vestito di lino azzurro e andava all’Aranybika o al Palma a “puntare” i ragazzi carini, per ottenere quella sconfinata intimità, della quale sentiva urgente il bisogno, con gli sdilinquiti cinedi o i malandrini interessati, simili ai ragazzi già frequentati nelle torbide periferie romane. Una volta tornò in collegio tenendo per mano un ricciolino dal sorriso maliardo.
“Vuoi proprio corromperlo?”, gli domandai, retoricamente.
“Sì-rispose-è un sacco caruccetto: pensa che mi ha regalato una foto con dedica. Ha scritto che mi vuole una puszta di bene. Anche io gli voglio un bene senza confini”. E alzò gli occhi al cielo tirando un sospiro grande grande.
Dopo il ’66 non venne più a Debrecen poiché durante un viaggio in Grecia si innamorò sul traghetto di un mozzo turco-cipriota che poi lo lasciò per sposare un’ereditiera dell’Anatolia. Lo incontrai a Roma alcuni anni più tardi: ricordava il suo amore perduto con gli occhi umidi, come una cerva ferita dalle frecce uncinate del crudele fanciullo Cupido.
Anche Luigino era buono, intelligente e colto. Gli volevamo bene.

Stefania
Del nostro gruppo di stravaganti faceva parte pure una ragazza: Stefania che avrei ritrovato a Padova come collega e amica nei primi anni Settanta.
Alla fine di quel decennio, precisamente il 29 giugno del 1979, venne a trovarmi a Bologna, e con, sguardo sconvolto e tono profetico disse: "quella donnetta che tu poverino, improvvido di un avvenire fallace, chiami 'la mia Ifigenia' ti lascerà prima che la faccia della luna si sia riaccesa una dozzina di volte su questa infelicissima terra: anche tu disgraziato, come me sciagurata, pagherai il fio secondo le inappellabili sentenze del tempo e della giustizia!”. Io che stavo vivendo tempi felici, la guardai con aria interrogativa.
Stefania si coprì la faccia con entrambe le mani e cominciò a singhiozzare.
La profezia di sciagura non mi aveva disanimato: sapevo già per esperienza che quando una donna mi lascia, l’amore è finito da tempo, anche il mio, e che il discidium è un bene, un esodo che prelude a un nuovo ingresso nel palcoscenico della commedia della quale noi siamo solo gli attori.
Dobbiamo recitarla con eleganza e pure sapere che non ne siamo i registi.
Stefania non recitava bene poiché le sue pose erano troppo evidenti, la sua affettazione era sovraccarica.
Nel 1966, a Debrecen, l’occasione della scena madre gliela fornì uno jugoslavo che aveva amoreggiato con lei per una settimana, poi era tornato a casa, dalla moglie, senza nemmeno lasciarle l’indirizzo.
Come avrebbe fatto cinque anni più tardi la grande Sarjantola con me. Ma io non la presi male, siccome la bella donna mi aveva dato comunque una nuova, mai provata energia che volevo utilizzare serbandone il ricordo benefico. Lo conservo ancora come un tesoro.
Stefania invece la sera in cui si accorse della fuga dell’amato Croato rappresentò, nel prato davanti al collegio, un monologo tragico di grida, pianti e preghiere nere scagliate alle stelle. Ecate invocava e tutte le divinità infernali perché la vendicassero. Nella notte debrecina l’abbandonata, malediceva il perfido slavo e con le sue grida atterriva anche i cani.
Nei giorni seguenti, fino alla conclusione del corso, quasi avesse perduto un figlio o un genitore, l’amica si aggirava desolatamente nei luoghi più frequentati come uno spettro, muta con ostinazione, con gli occhi cerchiati di nero, bagnati di lacrimae iussae[2]. Durante le affollate feste notturne, se noi compagni di corso e di bevute si provava a dirle qualche parola buona, Stefania, con allitterazione sonora, replicava: “Lasciatemi in pace, non vedete, cialtroni italioti, in quali tremendi, tragici travagli mi trovo?”
Oppure, dopo un paio di palinke, con miglior labbia diceva: “beati voi ragazzi!”, e alla domanda” perché beati?”, rispondeva: “perché non capite un cazzo!”.
Più tardi, quando non c’era nessuno in giro e dormiva il bosco di Debrecen con tutte le sue tortore, e nemmeno più si sentiva l’abbaiare pauroso dei cani, l’abbandonata dal perfido amante era capace di farsi due risate con noi poverini, incapaci perfino di immaginare gli abissi e le vette del dolore suo sconfinato.
Dicevo che tanti anni più tardi Stefania non era cambiata.
Siffatti commedianti non hanno evoluzione ma restano per tutta la vita fanciulli senza innocenza. Anche lei non era cattiva però, né ignorante e sapeva essere generosa.

Tra questi compagni cui voglio tuttora bene nonostante la canzonatura, aiutato da Fulvio che all’epoca era il più equilibrato e il più benvoluto di tutti, cercavo la mia identità. Volevo prima di tutto diventare puellis idoneus[3] per poi militare non sine gloria[4]. Osservando le donne di casa mia avevo capito che nell’amore c’è una grande componente agonistica, che Eros si associa a Eris [5] assai spesso, anzi sempre.
Ma se dopo una strenua lotta si trova un equilibrio tra le due forze tese a dominare l’una sull’altra, nel senso che vi rinunciano entrambe, può seguirne una pace rigogliosa, produttiva di bene.
A Debrecen trovavo e osservavo modelli e contromodelli. Per rendermi idoneo alle donne dovevo innanzitutto smettere di deturpare l’aspetto mio e l’immagine non volgare della mia stirpe che il dolore degli ultimi anni aveva quasi fatto sparire. Sentivo che potevo riacquistare le forze per combattere e sconfiggere la mia parte negativa, il nemico di me stesso che era dentro di me, poi dovevo trovare lo slancio per riemergere e risorgere completamente dalle rovine dei tre anni sciagurati seguiti all’esame di maturità. Tutto mi era crollato addosso in quei trentasei mesi.
Ripida, precipitosa era stata la catabasi nell’inferno scosceso, e risalire la china sarebbe stata l’impresa davvero erculea del tempo seguente.
Dovevo spogliarmi del rivestimento suino che non si attagliava allo scheletro minuto e fine del mio corpo né allo schema della mia umanità non ignobile. Con il diventare obeso avevo raggiunto l’antitesi e la ripugnanza di me stesso. Potevo morire di crepacuore per il disgusto che mi ispirava la mia sfigurata figura. “Disgiovanni”[6] o “Agiovanni”[7] ero diventato. Mi ero privato di me stesso e il mio demone buono mi aveva punito secondo natura e secondo giustizia.
Dovevo ritrovare un nesso vivo e forte con il mio essere stato e con tutto il mondo circostante, quando primeggiavo a scuola e in bicicletta, quando a Pesaro guizzavo nel mare e battevo gli adulti scalando la panoramica fino a Gabicce, e in agosto, a Moena, dove non avevo amici, parlavo con le trote dell’Avisio, con i colchici viola dei prati e con le montagne antropomorfe della valle di Fassa.
io e Fulvio al teatro greco di Epidauro, 2012
Dovevo ritrovare la mia riottosità rispetto ai luoghi comuni degli imbecilli che mi condannavano, e, finito il liceo, mi avevano spaventato manifestando il loro risentimento perché li avevo battuti senza sforzo, a scuola, in bicicletta e nella corsa a piedi. Sarei tornato alle mie cose egregie confutando le loro ciance maligne, le loro calunnie malvagie, la loro bassezza d’animo.
“Il volgo denigratore - pensavo - misura ogni grandezza con il proprio metro meschino”. Dovevo smettere di credere nella feccia cattiva, il peggio dell’umanità, e tornare a confidare in me stesso e nei mie autori-accrescitori. Mi avrebbero aiutato a salvare l’individualità senza cadere nell’individualismo. Una volta rimessomi in sesto dovevo trovare le donne, le donne mio dio, perché senza femmine la vita è infelice[8]


Potevo farcela: la stoffa buona sotto il lardo somatico e mentale ce l’avevo ancora.
Dovevo alleggerire il fardello che mi rendeva brutto e infelice, bandire le geremiadi e riflettere sul fatto che quanti mi offendevano senza ragione non pensavano mai alla loro vecchiaia probabile e alla morte sicura di tutti noi, altrimenti non mi avrebbero oltraggiato. Non dovevo più curarmi di coloro e di quanti malevoli avrei sicuramente incontrato in futuro. L’incontro con i benevoli di Debrecen dopo due anni di maltrattamenti continui, cominciava a emanciparmi dalla soggezione ai malvagi. Una soggezione avvenuta non senza una mia perversa complicità
Dovevo ritrovare e rilanciare l’essere egregio a scuola e negli sport, poi estenderlo nel campo degli affetti e dell’amore.
Dovevo farcela e ci riuscii.
Infatti nell’anno di mia salvazione 1968, annus mirabilis non solo per me, ero già tutt’altra persona. Oggi non mi cambierei con nessuno, proprio con nessuno. Amo me stesso non meno del prossimo mio.

giovanni ghiselli

p.s.
il blog ha superato i 200 mila contatti. In questo anno 2014, sempre di mia salvazione, ho tenuto più di sessanta conferenze a giovani, anziani e vecchi, a Bologna, Pesaro, Verona, Assisi, Ragusa. Ne sono molto contento e fiero.
A chi dedico tutto questo? A me stesso e a quanti altri mi vogliono bene.



[1] Cosa vuoi tu, piccolo borghese? Le prime parole sono venete, quelle in corsivo ungheresi.
[2] Lacrime a comando. Cfr. Marziale, I, 33, 2. L’ultimo verso dell’epigramma fa: “ille dolet vere qui sine teste dolet”, soffre sul serio chi soffre senza testimoni 
[3] Idoneo alle ragazze, cfr. Orazio, Carmi, III, 26, 1
[4] Militare non senza gloria. fr, Orazio, Carmi, III, 26, 2 
[5] Competizione che puà essere buona, cioè costruttiva, o cattiva ossia distruttiva, come racconta Esiodo nelle Opere e giorni (v. 19)
[6] Cfr. Iliade, III, 39, dove Ettore apostrofa il fratello Paride chiamandolo Duvspari.
[7] Cfr.  \Iroς [Airoς, Iro, povero Iro, Odissea XVIII, 73
[8] Infatti qhvleia, qhlhv, femina, felix hanno la stessa radice indoeuropea e sono quindi imparentati etimologicamente

1 commento:

  1. Anche a noi piaci così come sei. Con affetto Giovanna Tocco

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