domenica 14 dicembre 2014

"La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel" di Remo Bodei. Parte II della presentazione del libro

Presentazione del libro di Remo Bodei

La civetta e la talpa
Sistema ed epoca in Hegel

Il Mulino, Bologna 2014
Seconda parte


Vediamo il sesto paragrafo dell’introduzione.
Bodei si è interrogato “su cosa sia cambiato in profondità e in estensione rispetto alla documentazione disponibile “ nel 1975, quando uscì Sistema ed epoca in Hegel, il nucleo originario di questo grande lavoro.
Da allora sono stati pubblicati nuovi “inediti delle lezioni hegeliane”, trascrizioni di lezioni da parte degli studenti dei corsi di Heidelberg e di Berlino, e appunti manoscritti dello stesso filosofo.
Negli ultimi decenni per giunta c’è stata “la cosiddetta Hegel Renaissance” (p. 14) e una revisione del sommario giudizio di condanna delle “presunte fumisterie metafisiche.” (p. 15)

 Faccio un esempio di questi giudizi risalendo alla polemica di Schopenhauer contro i professori di filosofia, e Hegel in particolare " Sino a che si andrà ancora avanti con la pseudo-filosofia legalizzata, oppure con costruzioni vuote di parole, con ghirigori che non dicono nulla, e offuscano con la loro verbosità perfino le verità più comuni e più comprensibili, o infine con le assolute assurdità hegeliane? E d’altro canto, anche se giungesse davvero dal deserto l’onesto Giovanni vestito di pelli e nutrito di cavallette, imperturbabile di fronte a tutta questa confusione, e con cuore puro e completa serietà si fosse occupato della ricerca della verità offrendone ora i frutti, ci si potrebbe immaginare quale accoglienza egli avrebbe da quei mercanti di cattedre prezzolati dallo Stato, i quali debbono vivere sulla filosofia con mogli e figli, e la cui parola d’ordine è “primum vivere deinde philosophari”, mercanti che di conseguenza hanno preso possesso della piazza e già si sono presi cura che quivi nulla abbia valore se non quanto essi fanno valere, e che quindi esistano meriti solo in quanto piaccia a loro e alla loro mediocrità di riconoscerli"[1].

Bodei procede notando che “nella cultura italiana ed europea si è poi distolta l’attenzione del rapporto di Hegel con Marx, allora canonico (…) In misura minore, si è attenuato l’interesse per il decostruzionismo e l’ermeneutica, mentre persiste quello per Heidegger e Nietzsche, oltre che per Habernas e Foucault”.

Anche la cultura alta, difatti, presenta un andirivieni di mode, come tanti altri aspetti del costume e della vita.
E’ l’orbis di Tacito: "Nisi forte rebus cunctis inest quidam velut orbis, ut quem ad modum temporum vices ita morum vertantur" (Annales , III, 55), a meno che per caso in tutte le cose ci sia una specie di ciclo, in modo che, come le stagioni, così si volgono le vicende alterne dei costumi.
Pure l’attenzione e l’interesse per l’uno o per l’altro autore vanno e vengono come le stagioni,

Passiamo al settimo paragrafo dell’introduzione .
L’autore non rinnega il nucleo originario di questo libro: “Non credo, poi, di aver trovato ragioni sufficienti per scostarmi dall’impostazione di allora” (p. 15). Naturalmente in questo volume rinnovato “(che ha come sottotitolo il vecchio titolo)” sono presenti “-assieme a interventi minori a intarsio- interi blocchi nuovi che traggono spunto non solo dai materiali venuti più recentemente alla luce e dallo stato dell’arte negli studi sugli argomenti esposti, ma anche-e soprattutto- dalle ricerche condotte e dalle riflessioni in me maturate durante tutto questo arco di tempo” (p. 15).
Infatti è impossibile che quasi quaranta anni passino, come le nuvole in cielo, su una persona intelligente, sensibile e colta, senza portare cambiamenti con accrescimenti.
Bodei ha “largamente aggiornato la bibliografia grazie all’assidua frequentazione di istituzioni e biblioteche di eccellenza”. Queste, situate in Europa e negli Stati Uniti, sono ricordate “con gratitudine” dall’autore per “l’enorme massa di materiali” che gli “hanno permesso di consultare, selezionare e mettere a frutto” (p. 16)
La civetta e la talpa è corredato da “un corposo apparato di note” che potranno essere utili a “chi desidera esaminare da vicino il tessuto dell’argomentazione, verificare la natura delle fonti, saggiare la natura delle prove o sviluppare ulteriormente alcuni punti accennati”.
Tuttavia, aggiunge l’autore, tale strumento potrà essere ignorato da chi vorrà invece” godere il vantaggio di una lettura più fluida”. Trovo simpatica questa libertà di scelta lasciata da chi scrive a chi lo legge.
Bodei conclude questo paragrafo menzionando Schopenhauer. “Se è vero quanto dice Schopenhauer, che ognuno di noi non fa altro per tutta la vita che sviluppare una sola idea o scrivere un unico libro, questo è l’intimo prolungamento del primo” (p. 16)

Siamo giunti all’ottava e ultima parte dell’introduzione.
Rispetto agli anni Settanta del secolo scorso dunque il clima “intellettualmente e moralmente è decisamente cambiato” , e “ il futuro collettivo, di per se stesso incerto, si è oggi ancor più oscurato, in particolare nella nostra porzione di mondo”.

Chi scrive questa presentazione ricorda, degli anni Settanta, non senza rimpianto, dovuto anche all’età di allora, soprattutto le maggiori cortesia, cordialità e simpatia nei rapporti umani: almeno in quelli tra i compagni di studi, di lavoro, di viaggio, di simposi, di alloggio. L’uomo non era così diffidente come ora nei confronti dell’altro uomo, e della donna, e di se stesso. Poi, certo, il lavoro era meno difficile trovarlo, anzi con una laurea in mano un impiego era pressocché assicurato, quindi non era, come ora, quasi necessaria una lotta feroce di ciascuno contro tutti. Il mio rimpianto maggiore di quel tempo è per la benevolenza reciproca tra gli umani, consolazione grande alle difficoltà, alla brevità della vita, e alla morte.

Ma torno al libro di Remo Bodei. L’autore ci segnala gli argomenti sui quali si è maggiormente soffermato ampliando il nucleo originario.
Si tratta delle idee “di lavoro appunto, di disoccupazione e di miseria in una civiltà dominata dalle macchine e dal Kapital, un “animale selvaggio” che si sottrae a qualsiasi tentativo di addomesticamento e diventa sempre più una potenza “indipendente” dagli Stati” (p. 17).
I critici del capitalismo attuale denunciano una regressione che tende a ripristinare i rapporti sociali dell’Ottocento.
“Hegel descrive infatti-in maniera quasi dickensiana-un’economia contraddistinta dall’elevatissima concentrazione della ricchezza in poche mani e del conseguente crearsi di una immensa massa di lavoratori poveri e disoccupati (brotlose Arbeiter), esseri umani sospinti dalla miseria più spaventosa nell’umiliazione e nell’abruttimento, una situazione alla quale gli Stati cercano inutilmente di porre rimedio con dei “palliativi”, come l’emigrazione nelle colonie” (p. 17).
Oggi c’è la Caritas, ci sono i medici senza frontiere, c’è il volontariato di tante persone generose, ma questi sono rimedi parziali e precari.
E’ in atto una drastica riduzione della classe media che Euripide considera necessaria alla sopravvivenza della polis, quindi della vita civile.

Nelle Supplici ( del 422 a. C circa) Teseo, una specie di Pericle in vesti mitiche, propugna la teoria della classe media.
Tre in effetti sono le classi dei cittadini (treĩς ga;r politw̃n merivdeς, v. 238) dice il “re democratico” di Atene: i ricchi sono inutili e desiderano avere sempre di più, quelli che non hanno mezzi di sussistenza sono temibili ("deinoiv", v. 241) poiché si lasciano prendere dall'invidia e, ingannati dalle lingue dei capi malvagi, lanciano strali contro i possidenti.
 In conclusione:"Triw'n de; moirw'n hJ jn mevsw/ sw/zei povlei"-kovsmon fulavssous j o{ntin j a]n tavxh/ povli"", ( Supplici, vv. 244-245), delle tre parti quella che sta in mezzo salva le città, custodendo l'ordine che essa dispone.
La teoria della bontà della via di mezzo e della classe media si ripropone negli anni successivi. Nell'Elettra[2] di Euripide, Oreste considera la ricchezza un giudice cattivo, ma, aggiunge, la povertà ha una malattia: "didavskei d ' a[ndra th'/ creiva/ kakovn "(v. 375), nel bisogno insegna all'uomo a fare il male
 Poi nell l’Oreste (del 408) abbiamo la formulazione definitiva.“Egli[3] vede negli aujtourgoiv, nei lavoratori in proprio, coloro che soli sono in grado di salvare la polis . Il v. 920 dell'Oreste - "un lavoratore in proprio, di quelli che appunto sono i soli a salvare la patria"[4]-ricorda da vicino Suppl. 244:"delle tre parti quella che sta in mezzo salva le città". La classe media era quindi per Euripide costituita essenzialmente dai contadini che lavorano il fondo di loro proprietà"[5].
Concludo questo excursus con le Leggi di Platone dove leggiamo che la condizione moralmente migliore è quella lontana dalla ricchezza e dalla povertà:"La rappresentazione che Platone dà dei primordi è quella di una condizione essenzialmente pacifica, dove non erano ancora ricchi e poveri, e dove la benigna semplicità degli umani aveva per conseguenza un livello morale più alto[6]"[7]
Vediamo cosa dice l'Ateniese nell’ultima opera del filosofo:"Poveri per questo[8] motivo non erano, né, costretti dalla povertà, divenivano discordi tra loro; e nemmeno ricchi divennero mai in quanto privi di oro e di argento…nella società in cui non sia presente né ricchezza né povertà, direi che i costumi potrebbero essere nobilissimi: infatti violenza, né ingiustizia, né gelosie né invidie possono nascervi. Erano buoni in grazia di questa vita e di quella che si dice semplicità” (679b-c).
La povertà estrema dunque rende perimavchtoς oggetto di contesa, perfino il nutrimento.

“Di fronte a un simile spettacolo, Hegel giunge a dire che l’estrema povertà rende lecito, a chi la subisce, anche il furto finalizzato alla propria sopravvivenza: “tale azione è illegale, ma sarebbe ingiusto considerarla come un furto comune. Sì, l’uomo ha diritto a tale azione illegale”. Il tramonto dell’epoca è quindi per lui connesso, oltre che alla “farsa” della Restaurazione, all’insolubilità di conflitti come questi, che la filosofia deve indagare con i suoi grandi occhi di civetta” (La civetta e la talpa, p. 17)
Ora si sta insinuando “negli animi la percezione della precarietà”, per l’incertezza dell’avvenire che appare buio e privo di segni orientativi visibili.

La presa di coscienza della imprevedibilità degli eventi può dare adito a qualche strana consolazione e illogica speranza quando le previsioni sono fosche.
Euripide conclude l'Alcesti, la Medea, l'Andromaca , l'Elena e le Baccanti con queste parole:
“ molti eventi in modo insperato compiono gli dèi;
e i fatti aspettati non vennero portati a compimento,
mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via.
Così è andata a finire questa azione”

Leggiamo la conclusione dell’introduzione nelle parole di Bodei: “Noi non abbiamo però alcun coerente sistema di idee che pretenda di orientarci a capire il nostro tempo, alcuna civetta filosofica che, con sguardo panoramico, interroghi la sua apparente oscurità. La talpa della storia continua invece, come sempre, a scavare in profondità e in direzioni imprevedibili le sue gallerie, da cui emergerà non si sa quando e non si sa dove, quasi a conferma dell’asserzione di Keynes, secondo cui “l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre”.
Pisa, maggio-giugno2014 RemoBodei

Presentazione di Giovanni Ghiselli









[1] Parerga e paralipomena vol. I , p.210-211,
[2] Probabilmente degli anni intorno al 415.
[3] Euripide.
[4]Aujtourgo;", oiJvper kai; movnoi sw/zousi gh'n.
[5]Di Benedetto, Euripide: teatro e società, p. 208.
[6] Leggi, 678c-e.
[7] W. Jaeger, Paideia 3, p. 406.
[8] Ouj perimavchtoς h\n aujtoĩς hJ trofhv, 678e, il cibo non era motivo di contrasto poiché ce n’era in abbondanza.. 

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