mercoledì 25 febbraio 2015

La storia di Didone XIV parte

Rovine di Cartagine

Didone riconosce a se stessa delle capacità realizzative che l'avrebbero anche resa felice se non avesse incontrato Enea: "Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi, /ulta virum poenas inimico a fratre recepi: /heu nimium felix, si litora tantum/numquam Dardaniae tetigissent carinae " (vv. 655-658), ho fondato una città splendida, ho visto mura mie, vendicato il marito, ho punito il fratello nemico: oh troppo felice, se solo le le navi della Dardania non avessero mai toccato le nostre coste! "I tre perfetti statui, vidi, recepi scandiscono orgogliosamente le sue res gestae…Ulta è participio congiunto con valore temporale, inimico a fratre anastrofe. L'esclamazione successiva felix, heu nimium felix è, in termini sintattici, l'apodosi ellittica del seguente periodo ipotetico dell'irrealtà"[1]
 Il rimpianto della non conoscenza del seduttore che ha sconvolto la vita, il desiderio di annullare la tragica storia d'amore appartiene già alla Medea di Euripide (v. 1 e ss. ), a quella di Apollonio Rodio ( Le Argonautiche, IV, 32-33), a quella di Ennio (246-9 Vahlen 2) e all'Arianna dell'opus maximum di Catullo: "utinam ne tempore primo/Gnosia Cecropiae tetigissent litora puppes " (64, 171-172), oh se mai fin dal primo momento le navi cecropie non avessero toccato le rive di Cnosso! "Un modo sottile di richiamare le proprie radici culturali è nella poesia di Virgilio quella che Pasquali ha chiamata "arte allusiva". Il poeta, riecheggiando un passo o un verso o parte di un verso di un poeta greco o latino, presuppone che il lettore riconosca il passo riecheggiato e talvolta confronti l'originale colla rielaborazione di Virgilio, che talvolta innova e affina l'originale: infatti il poeta dell'età augustea non "imita", ma "emula" i poeti da cui si ispira, gareggia con essi"[2].
Segue un topos gestuale, tra l’erotico e il disperato, il bacio della donna al letto, anzi al letto della propria morte per amore. Vediamo i precedenti.
Alcesti poco prima di morire vi si getta sopra, lo bacia e lo riempie tutto del torrente di lacrime che le sgorga dagli occhi (kunei' de; prospivtnousa, pa'n de; devmnion-ofqalmotevgktw/ deuvetai plhmmurivdi, Alcesti, vv. 183-184. ).
Nelle Trachinie di Sofocle le ultime parole di Deianira sono rivolte al letto: “w\ levch te kai; numfei' j ejmav, -to; loipo; n h[dh caivreq j wJ~ e[m j ou[pote –devxesq j e[t j ejn koivtaisi tai'sd j eujnhvtrian” (vv. 920-922), o letto mio e stanza nuziale, addio per sempre oramai, poiché non mi accoglierete più come sposa nel vostro giaciglio.
 La Medea di Apollonio Rodio invece bacia il letto della sua camera di ragazza nell’abbandonarla: “Kuvsse d j eJovn te levco~” (Argonautiche, 4, 26), quindi baciò anche i battenti, accarezzò le pareti, e dopo essersi strappata un ricciolo lo lasciò nella stanza della madre, ricordo della sua vita di vergine.
Un gesto ripetuto da Didone la quale muore dopo avere baciato il letto (os impressa toro, Eneide, IV, 659).
 “La donna che si getta sul letto coniugale, che invoca le dulces exuviae e bacia il letto, è la donna innamorata che non può liberarsi dal ricordo delle dolcezze del suo amore (sono note le ascendenze sofoclee, cioè i vividi riflessi di Deianira)[3].
Leggiamo dunque questi versi: “Dixit et os impressa toro “Moriemur inultae, /sed moriamur”, ait “sic iuvat ire sub umbras” (vv. 659-660), disse, e, premuta la bocca sul letto, “Moriremo non vendicate, ma dobbiamo morire-disse- così mi va di scendere tra le ombre.
Questi versi sono ampiamente commentati da Leopardi: “ Virgilio volle qui esprimere (fino e profondo sentimento e degno di un uomo conoscitore de’ cuori, ed esperto delle passioni e delle sventure, come lui) quel piacere che l’animo prova nel considerare e rappresentarsi non solo vivamente, ma minutamente, intimamente, e pienamente la sua disgrazia, i suoi mali; nell’esagerarli, anche, a se stesso, se può (che se può, certo lo fa) nel riconoscere, o nel figurarsi, ma certo persuadersi e procurare con ogni sforzo di persuadersi fermamente, ch’essi sono eccessivi, senza fine, senza limiti, senza rimedio né impedimento né compenso né consolazione veruna possibile, senza alcuna circostanza che gli alleggerisca; nel vedere insomma e sentire vivacemente che la sua sventura è propriamente immensa e perfetta e quanta può essere per tutte le parti, e precluso e ben serrato ogni adito o alla speranza o alla consolazione qualunque, in maniera che l’uomo resti propriamente solo colla sua intera sventura”[4].

Infine Didone vuole mandare a Enea un messaggio letale e un annunzio di futuri danni: "Hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto/dardanus et nostrae secum ferat omina mortis " (661-662), beva con gli occhi questo fuoco il crudele troiano dal largo, e porti con sé i presagi della mia morte.
Quindi l'atto del suicidio: "Dixerat, atque illam media inter talia ferro/conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore/spumantem sparsasque manus. It clamor ad alta/atria; concussam bacchatur Fama per urbem" (vv. 663-666), aveva detto e in mezzo a tali parole le compagne la vedono caduta sul ferro e la spada spumeggiante di sangue e le mani cosparse. Sale il grido fino agli alti atri; la Fama va infuriando per la città sconvolta. -spumantem: prefigura la schiuma di sangue che, secondo la profezia della Sibilla del sesto canto, arrosserà il Tevere: "Bella, horrida bella/et Thybrim multo spumantem sanguine cerno" ( vv. 86-87), guerre, guerre raccapriccianti e il Tevere spumeggiante di molto sangue io vedo. -bacchatur: al v. 301 era la donna abbandonata che baccheggiava infiammata per la città messa in moto dalla Fama spietata; ora è la stessa Fama che, presa la fiaccola da Didone, smania attraverso Cartagine sconvolta.
La morte della regina prefigura la distruzione della sua città: "Lamentis gemituque et femineo ululatu/tecta fremunt, resonat magnis plangoribus aether, /non aliter quam si immissis ruat hostibus omnis/Karthago aut antiqua Tyros flammaeque furentes/culmina perque hominum volvantur perque deorum " (vv. 667-671), gli edifici fremono di lamenti e di gemiti e di ululati femminei, l'etere risuona di grandi pianti, non altrimenti che se Cartagine tutta o l'antica Tiro[5] crollasse, entrati i nemici, e le fiamme furiose si avvolgessero sui tetti degli uomini e degli dèi.
Didone che muore furente preannunzia la fine del suo Stato per la connessione organica tra il capo e la comunità e per l'assimilazione della donna non solo alla terra, come abbiamo visto, ma anche alla città.
Tolstoj afferma che è impossibile non sentire la femminilità di Mosca: "Ogni russo, guardando Mosca, prova la sensazione di trovarsi al cospetto di una madre, ogni straniero, guardandola e ignorandone il carattere materno, deve però almeno sentirne la femminilità: questo accadde anche a Napoleone. . . "Una ville occupèe par l'ennemi ressemble à una fille qui a perdu son honneur " pensava"[6].

In effetti anche la sorella Anna identifica la morte di Didone con la fine della città intera: "Extinxti te meque, soror, populumque patresque/Sidonios urbemque tuam " (vv. 682-683), hai annientato te e me, sorella, e il popolo e i patrizi sidoni e la tua città. -Extinxti: forma sincopata per extinxisti. - Populumque patresque: " il Danielino afferma che qui si accenna alle parti in cui era ordinata la cittadinanza cartaginese (oltre alla regia potestas, populus e optimates), ma certo il nesso suggerisce al lettore di Virgilio anche il familiare S. P. Q. R. , e dunque si tratta, come altrove, di un riferimento alla realtà romana"[7]. Si può quindi pensare alla costituzione mista.
Didone muore senza dire altre parole mentre la ferita stride profonda nel petto: "infixum stridit sub pectore volnus " (v. 689). Le ferite spesso parlano: non sempre sono " dumb mouths "[8], bocche mute, come quelle di Cesare assassinato. Gli occhi erranti cercarono, finalmente, la luce, e la regina mandò un ultimo gemito quando l'ebbe trovata (v. 692). L'episodio si conclude con parole, se non di speranza, certo di pietà per la donna la quale " nec fato merita nec morte peribat/misera ante diem, subito accensa furore "(v. 697), moriva né per il destino suo né per morte meritata, infelice, prima del tempo, accesa da un subitaneo furore.
Negli ultimi versi del poema è il dardo di Enea che stride mentre passa attraverso la coscia di Turno: “Per medium stridens transit femur” (XII, 926).
"Nonostante la presenza corale del popolo, nonostante l'affetto e l'assistenza affettuosa della sorella, Didone è sola nella sua infelicità. La profondità della sua ferita non può essere compresa né da Enea né dagli altri; e l'aggravarsi del dramma dall'innamoramento alla rottura, al maturare del disegno del suicidio, al suicidio stesso, è nello stesso tempo un accentuarsi della solitudine, l'ampliarsi di un allucinante deserto. In questo modo di interpretare e cantare l'amore Virgilio restava fedele a un filo costante della sua sensibilità: già nella seconda ecloga, già nelle Georgiche l'amore, questo furore cosmico irrazionale, è infelicità e solitudine: ciò resta vero e importante, anche se nell'Eneide può avere avuto il suo peso la considerazione che rappresentare l'amore come piacere e gioia era indegno della dignità epica e tragica"[9].

All'inizio del successivo canto V Enea, voltandosi a guardare Cartagine dalla sua flotta che prende il largo, vede brillare le mura, ed egli con gli altri fuggiaschi, intuiscono, pur senza saperlo, che quei bagliori sinistri provengono dal rogo di Didone: " Interea medium Aeneas iam classe tenebat [10]/certus iter fluctusque atros aquilone secabat, /moenia respiciens, quae iam infelicis Elissae/conlucent flammis. Quae tantum accenderit ignem/ causa latet ; duri magno sed amore dolores polluto notumque, furens quid femina possit, /triste per augurium Teucrorum pectora ducunt ( vv. 1- 7), intanto Enea già con la flotta teneva risoluto la rotta in mezzo al mare, e sotto la tramontana fendeva i flutti scuri. Intanto guardava indietro le mura che già brillano per le fiamme dell'infelice Elissa. E' oscuro il motivo che ha acceso un fuoco così grande; ma conducono il cuore dei Teucri attraverso un funesto presagio i tremendi dolori di un grande amore violato e il fatto ben noto di che cosa sia capace una donna sconvolta dalla passione. Il primo verso è echeggiato dal primo della Commedia di Dante: Enea e Dante sono entrambi in fuga dal peccato, ma il secondo non è ancora così certus. La fiamma dell'amore è diventata il fuoco del rogo.
Vediamo qualche altro caso, in letteratura, che all'amore connette, il fuoco tragico e distruttivo, la follia e la rovina.
L'amore che infiamma il Nerone di Tacito per Poppea (flagrantior in dies amore Poppeae, Annales, XIV, 1) sarà una delle cause che scateneranno il giovane imperatore spingendolo fino al matricidio. Agrippina a sua volta brucia, ma il suo ardor è smania di conservare il potere che è il fine [11] mentre l'incesto è solo un mezzo: " Tradit Cluvius ardore retinendae Agrippinam potentiae eo usque provectam ut medio diei, cum id temporis Nero per vinum et epulas incalesceret, offerret se saepius temulento comptam et incesto paratam " (Annales XIV, 2) Cluvio[12] racconta che Agrippina, per ardente smania di conservare il potere, era arrivata al punto che in pieno giorno quando Nerone si scaldava col vino e il banchetto, si offriva a lui ubriaco diverse volte, ornata in modo seduttivo e pronta all'incesto.
 Anna Karenina, la quale è un'adultera che inganna e tradisce un marito vivo, è collegata al fuoco nelle varie fasi del suo amore: "Il suo viso splendeva d'un vivido fulgore, ma questo fulgore non era allegro: ricordava il fulgore terribile di un incendio in mezzo a una notte oscura; vedendo il marito, sollevò la testa e, come svegliandosi, sorrise"[13]. Questa è la fase ascendente della sua relazione con Vronskij. Alla fine, nell'epilogo tragico la fiamma diventa quella di un cero funebre: "E la candela alla cui luce aveva letto un libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male, avvampò di una luce più vivida che mai, le illuminò tutto quello che prima era nell'oscurità, crepitò, cominciò a offuscarsi e si spense per sempre"[14].
Il fuoco amoroso di Orazio invece si spegne amabilmente, nelle strofe saffiche del canto di Fillide, l'ultimo amore, che manda un calore di fiamma già lontana: "Age iam, meorum/finis amorum. /(Non enim posthac alia calebo/femina), condisce modos, amanda/voce quos reddas; minuentur atrae/carmine curae " (Odi, IV, 11, vv. 31-36), su, estremo dei miei amori, (infatti non brucerò più per altra donna), impara bene i ritmi da ripetere con voce amabile; si schiariranno con i versi i foschi affanni.
Per quanto riguarda il tema della ferita è notevole che nel V canto dell'Eneide volnus torni come conseguenza di una gara cruenta di pugilato durante i giochi funebri in onore di Anchise: "Multa viri nequiquam inter se volnera iactant, /multa cavo lateri ingeminant et pectore vastos/dant sonitus, erratque auris et tempora circum/ crebra manus, /duro crepitant sub volnere malae " (vv. 433- 436), molti colpi gli uomini si scambiano invano per ferirsi, molti ne raddoppiano sui cavi fianchi e sul petto fanno risuonare vasti rimbombi, va e viene presso le orecchie, intorno alle tempie fitta la mano e crepitano le mascelle sotto i colpi che danno ferite. -nequiquam: il colpo del pugilato è meno implacabile di quello amoroso che non manca mai di ferire.
Si possono accostare i due diversi tipi di ferita pensando al fr. 27D. di Anacreonte: "pro; " [Erwta puktalivzw", voglio fare a pugni con Eros.


giovanni ghiselli

prossime conferenze: 26 febbraio ore 21 ex cinema Castiglione. Parlerò di Ester

27 febbraio ore 18, 30. Biblioteca Scandellara. Parlerò di Lucrezio



[1]G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p. 276.
[2]A. La Penna-C. Grassi, op. cit. , p. XXVIII.
[3] A. La Penna, Prima lezione di letteratura greca, p. 155.
[4] Zibaldone, 2217-2218.
[5] La madre patria di Cartagine: "Urbs antiqua fuit (Tyrii tenuere coloni) /Karthago", Eneide, I, 12-13, c'era una città antica, la fondarono coloni di Tiro, Cartagine. Da Tiro proveniva anche Cadmo, il fondatore di Tebe (cfr. Euripide, Fenicie, 638-639).
[6]Una città occupata assomiglia a una ragazza che ha perduto il suo onore. Guerra e pace, p. 1311.
 Un'altra assimilazione di un altro tipo di donna, in questo caso la prostituta, alla città si trova nella Cistellaria di Plauto: "Verum enim meretrix fortunati est oppidi simillima; /non potest suam rem obtinere sola sine multis viris " (vv. 80-81), infatti la meretrice è molto simile a una città ricca; non può reggersi da sola senza molti uomini.
[7]G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p. 278.
[8] Shakespeare, Giulio Cesare, III, 2.
[9]A. La Penna-C. Grassi, op. cit. , p. 358.
[10] Questo verso è citato nel Satyricon (68, 4) con intenti canzonatori nei confronti dell'ambiente di Trimalchione: uno schiavo lo grida sbagliando la pronuncia delle lunghe e delle brevi, come fanno gli stranieri incolti, al punto che allora perfino Virgilio risultò fastidioso a Encolpio (68. 5).
[11] Come per Alcibiade.
[12] Storiografo vissuto alla corte di Nerone.
[13]L. Tolstoj, Anna Karenina, p. 148.
[14] Anna Karenina, p. 772. 

1 commento:

  1. Carissimo Gianni ,i classici non mancano mai di farci riflettere...le ferite amorose sono le più difficili a guarire,sono le più dolorose da sopportare,sono quelle che maggiormente influenzano le nostre scelte future. Giovanna Tocco

    RispondiElimina

Il caso Vannacci e la doverosa difesa della parresia.

  Sono in disaccordo su tutto quanto dice,   scrive e forse pensa il generale Vannacci, eppure sostengo la sua libertà di parola, come...