martedì 8 agosto 2017

Ifigenia. La amavo e la odiavo

Catullo

Odi et amo

La amavo e la odiavo, ancora una volta, come mi accadeva da bambino con la madre mia. Dai sentimenti contraddittori e rigurgitati da oscuri fondi antichi cercavo di ricavare pensieri nuovi e chiari.
Dai fatti dolorosi dovevo risalire alle cause, o addirittura alle ajrcaiv, ai princìpi primi, come ero riuscito a passare dalle noiose tevcnai grammaticali del greco e del latino al pensiero degli autori, a sentire e assorbire la bellezza, la carne sempre viva dei loro testi.
“Sai quanto potresti crescere meglio se avessi una compagna che ti infondesse stati d’animo buoni e coerenti! Ifigenia che cosa è? Una ragazza geniale e pura, un angelo venuto a elevarmi beandomi, oppure una donna corrotta da vizi turpi che la faranno precipitare nell’abisso del caos traendomi con sé?
O perfino l’una e l’altra cosa?"
Mi venne in mente che pochi giorni prima della mia partenza per Debrecen mi aveva detto di essere stata corteggiata e fatta oggetto di proposte poco belle da un cavaliere del lavoro con tanto di Ferrari e yacht, un uomo attempato cui aveva replicato ridendo sonoramente.
“Una risata - avevo pensato - può significare anche consenso o almeno un prendere tempo, soprattutto se è seguita da un sorriso. Insomma non è un rifiuto deciso”. Mi vennero in mente alcune parole e note del Don Giovanni di Mozart-Da Ponte: “Resta, resta! E’ una cosa molto onesta: faccia il nostro cavaliere cavaliera ancora te”. Poi però mi era venuto in mente che alcuni anni prima, nel tempo di Kaisa, la figura del seduttore di donne altrui, di tutte le donne, era il mio ideale e il mio modello. Forse la conversione all’amore serio e monogamico non mi si confaceva. E probabilmente mi meritavo le corna secondo la legge del contrappasso: "rimane saldo, finché Zeus rimane nel trono/ che chi ha fatto subisca: infatti è legge divina"[1], ricordai

Questi pensieri provocavano nuove emozioni dalle quali nascevano nuovi pensieri. E coì via per tutto quel pomeriggio remoto.
Se Ifigenia era tanto pericolante, e io ero davvero convinto che un rapporto di fedeltà fosse una cosa buona, non potevo aiutarla? Non dovevo indurla a correggere i giri viziosi della sua testa secondo le circolazioni e le armonie belle del cielo?
In fondo non si era rivolta a me perché dirozzassi la sua natura tellurica, fatta di terra vulcanica e sismica per giunta?
Ma come potevo aiutarla se mi faceva soffrire?
Se inebetito dal dolore mi fermavo a fissare il suo abisso, potevo caderci anche io. Dovevo essere lucido.
Mi vennero in mente di nuovo i dolori provati da bambino quando non mi sentivo amato dalla madre mia, non tanto quanto pensavo di meritarmi.
Eppure mia madre mi aveva fatto il più grande dei doni, pensavo anche, mi aveva dato la vita senza la quale non avrei sofferto molto ma nemmeno goduto e gioito tanto, e l’anno prima in autunno quella ragazza che tacciavo di infamia mi aveva ricaricato di vita in una fase difficile del mio lavoro, perseguitato com’ero da un preside fascista, ignorante e assecondato da colleghi servili.
Mi avevano aiutato gli allievi di una terza liceo persino con manifestazioni pubbliche, ma soprattutto mi aveva risollevato Ifigenia, la bella supplente che, appena arrivata, si schierò coraggiosamente con i pochi che mi sostenevano. Anche lei, con l’offerta del suo amore, mi aveva arricchito di vita. Senza tali due donne benedette non ci sarebbe stato niente per me: né male, né bene, né dolore né piacere, perché non ci sarebbe stata la vita. Non potevo farne a meno.
Pensavo con simpatia alla vita in generale, a come si era manifestata in me, quanto l’avevano potenziata le mie donne, e sorridevo pensando alla vita della madre terra che nutre noi, gli animali, le piante, o a quella del mare il quale ci fa capire, con il moto ondoso, che respira, aspirando ed espirando come gli uomini e gli animali. L’angoscia mi stava passando. Riuscivo a redimere i sentimenti cattivi scaturiti dalla telefonata, in amore per la vita e in gratitudine per chi me l’aveva donata e accresciuta via via. Molta riconoscenza dovevo alla madre mia, e non poca alle mie amanti: dalle due Elene, a Kaisa, a Päivi, a Faina, a Jousiane, di cui ho già raccontato, e ultimamente a Ifigenia anche se mi stava tradendo. Camminavo nel bosco fitto di alberi antichi; li ascoltavo mentre parlavano al vento con fronde vocali, e osservavo l’acqua del laghetto che sorrideva immillando i raggi del sole con le sue increspature. Non faccio metafore: le fronde parlavano davvero e l’acqua sorrideva davvero.
 Sussurravo e sorridevo anche io pensando alle donne, al solco del loro corpo che ci mette nella luce, in luminis oras, come gli arati solchi della terra fanno nascere grano, pensavo agli amici, ringraziavo l’artista creatore di questo mondo vivo, bello e variopinto. Io volevo contribuire alla stabilità, se possibile all’accrescimento di tanta bellezza e non dovevo rabbuiarmi spandendo tenebra e malumore per la sceneggiata napoletana che avevo immaginato nella casetta di Rimini. Dovevo prenderla appunto come una farsa messa in scena per divertirmi e farmi pensare, forse creare. Vedevo una relazione di simpatia tra tutte le parti del mondo e io non dovevo “nelle fata dar di cozzo”[2], andare contro l’ordine dell’universo, se non volevo innescare l’esplosione che mi avrebbe fatto precipitare nell’inferno del caos. Capire dovevo, redimere il dolore in comprensione e bellezza. Capire quello che ci voleva per la conservazione e l’accrescimento della vita. Ero naturalmente connesso con il cosmo e non dovevo recidere questo legame, anzi.



giovanni ghiselli . 7 agosto 2017. Il blog è arrivato a 557951 visite tutte gradite.




[1] Eschilo, Agamennone, 1563-1565. Se lo volete in greco: “mivnmnei, de; mivmnonto" ejn qrovnw/ Dio;" - paqei'n to;n e[rxanta: qesmion gavr”.
[2] Cfr, Dante, Inferno, IX, 97

1 commento:

Il caso Vannacci e la doverosa difesa della parresia.

  Sono in disaccordo su tutto quanto dice,   scrive e forse pensa il generale Vannacci, eppure sostengo la sua libertà di parola, come...