giovedì 25 luglio 2013

Matteo Marchesini, "Atti mancati"




Matteo Marchesini, Atti mancati, Voland, Roma 2012

Ho letto il libro dell’autore durante un caldissimo pomeriggio di luglio, senza interrompermi dato l’interesse che suscitava. I suoi pregi sono lo stile accurato ed elevato, cioè dotato nello stesso tempo di chiarezza e di eleganza. E’ una storia piena di sofferenza che si comunica a chi la legge.
Ma non è un pavqo~ fine a se stesso: è una  sofferenza che porta alla comprensione, al mavqo~, secondo la splendida sintesi quasi ossimorica di Eschilo: “tw/` pavqei mavqo~[1], attraverso la sofferenza, la comprensione.
Dico quasi ossimorica poiché spesso la sofferenza rende invece più stupidi e più cattivi.

Faccio un esempio tratto dalla letteratura, ma ne ho visti tanti anche vivendo la mia vita variopinta.
In una novella di Pirandello (Va bene) il protagonista è un uomo cui "i diuturni dolori avevano quasi vestito la mente d'una scorza di stupidità". Costui, dopo avere buttato dalla finestra la moglie infedele, fa una richiesta al figlio malato:"figlio mio, questi occhiali… Strappameli dal naso, bello mio… Così… Bravo! Ora non ti vedo più!".

Nel  presentare questo romanzo farò molte citazioni per antologizzarlo fino alla carne viva e, per commentarlo, ricorrerò spesso  ai miei autori classici. Voglio aggiungerli ai moderni che  vengono non poche volta menzionati e talora citati da Marchesini secondo quel metodo che Eliot chiama mitico e che serve a dare una forma e un significato a questo immenso panorama di futilità e anarchia che è il mondo contemporaneo.

I capitolo
Il protagonista dunque, credo un alter ego dell’autore, nato nel 1979,  si presenta così: “A un certo punto, senza accorgertene, hai trentatrè anni. E non puoi nemmeno dire di non aver raggiunto, almeno in parte, ciò che volevi” (p. 9). “In parte” dunque.
Questo giovane, Marco Molinari, è infatti un uomo dimidiato, ossia realizzato a metà:  nel senso che ha lasciato incompiuti  due tentativi importanti: l’amore e un romanzo. Scrive articoli per più di un giornale, fa il ghost writer e svolge altre attività nel campo della parola, ma si sente in qualche modo inconcluso.
Mi viene in mente Guido Gozzano con la sua “trentina- inquietante, torbida d’istinti- moribondi”[2] e con il suo Totò Merumeni, ossia il punitore di se stesso, “tempra sdegnosa,/molto cultura e gusto in opere d’inchiostro”[3]
Una mattina, Molinari riceve l’incarico di andare a intervistare  Bernardo Pagi, un intellettuale e scrittore che gli aveva fatto da maestro.
Alla fine del primo capitolo, fa capolino l’ u{bri~, un termine chiave nella tragedia greca, forse il sostantivo tragico per eccellenza,  una parola dunque che ci preannuncia la tragicità di questo romanzo.
Credo che l’u[bri~ di questo giovane sia la reticenza.
Il romanzo è ambientato prevalentemente a Bologna, nella Bologna dei giovani con aspirazioni o pretese intellettuali, degli studenti, degli aspiranti artisti, insomma non la Bologna dei piccolo borghesi tranquilli, quelli che la sera guardano la televisione.
“Esco nel freddo marzolino di via Castiglione” (p. 11)

II capitolo
L’io narrante ci dice che Bernardo Pagi , frequentato una decina di anni prima, è stato per lui ventenne “qualcosa di assai simile al maestro che al liceo e all’Università mi ero sempre rifiutato di avere” (p. 12).
Un maestro di misura, equilibrio, ironia, antiestremismo, non senza “qualche radice mistica (Simone Weil)”.
Un poco alla volta Molinari aveva preso Pagi come “una specie di guru a cui ispirarsi nella vita quotidiana” (p. 13). Tuttavia il ragazzo utilizzava anche altri modelli, compresi intellettuali estremisti alla Fortini.
C’era una bella differenza di età (30 anni) ma anche di temperamento e pure di aspetto fisico: snello e minuto, siccome inappetente l’attempato, corpulento, alto e vorace il giovane.
Questo era stato paragonato dal maestro a “certi personaggi di Dostoevskij” (p. 13). Quelli la cui vita secondo Bachtin, viene rappresentata in situazioni eccezionali e abnormi, una vita che si svolge “sulla soglia”.
Dostoevskij non fu uno scrittore di ambienti casalinghi o familiar :"Nel vieto spazio interno, lontano dalla soglia, gli uomini vivono una vita biografica in un tempo biografico: nascono, passano l'infanzia e la giovinezza, si sposano, generano figli, invecchiano, muoiono. Anche questo tempo biografico è "saltato" da
Dostoevskij. Sulla soglia e sulla piazza è possibile solo il tempo delle crisi, in cui l'istante  si eguaglia agli anni, ai decenni, anche ai "milioni di anni" (come nel Sogno di un uomo ridicolo )[4].
Il protagonista del romanzo di Marchesini dunque vive spesso questo "tempo della crisi",  sebbene non tanto drammaticamente quanto Raskol’nikov.
Comunque, verso i 28 anni di Molinari, il maestro e l’allievo si erano allontanati, anche spazialmente, forse per la difficoltà del giovane di risolvere il rapporto tra Wille zur Macht e aspirazioni artistiche (p. 14).
Questo concetto nicciano torna spesso a significare credo, l’aspirazione del ragazzo, di estrazione piccolo borghese, quasi campagnola, a inserirsi in posizione non subordinata nell’alta borghesia bolognese intellettuale, o pseudo intellettuale. L’amico alto borghese Ernesto “questi problemi non se li poneva proprio” (p. 14) anche se ne aveva di ben più gravi.
Il maestro forse disapprovava il poligrafismo presenzialista dell’allievo che a ventotto anni aveva avuto “l’ambigua fortuna” di riuscire a campare scrivendo su due o tre giornali a partire dalla redazione bolognese del “Corriere della Sera” (p. 15).
Marco dunque entra nella sala Farnese, dove Pagi viene premiato con il Bolognino d’oro. L’alter ego di Marchesini  ha già confezionato l’incipit del pezzo richiesto dal direttore del suo giornale.

III Capitolo
La cerimonia è solenne “tra assessori e membri del senato accademico, tutti intabarrati e sonnolenti” (p. 16)
Pagi sorride a Molinari “ come se mi regalasse una silenziosa battuta sulle pompose bestialità che senza dubbio stanno uscendo dalla boccuzza tumida del primo cittadino” (p. 16)
Tra il pubblico c’è un altro personaggio importante del libro e della vita di Marco: Lucia che diventa la deuteragonista del romanzo, la vittima sacrificale della tragedia. La ragazza viene presentata come una persona inquietante fin dall’aspetto: Molinari nota qualche cosa di strano, di deforme in questa giovane donna che era stata la sua compagna ed era stata assai bella. “I lineamenti sono come esiliati dal suo centro”. Saprà e sapremo più avanti che Lucia ha un cancro.
Pagi fa un discorso ricordando gli intellettuali scomparsi con i quali discuteva, anche polemicamente, nomi come Giacomo Debenedetti, Paolo Volponi, Fortini, Pasolini (“un disastro riuscito”), Elsa Morante con “la sua conversazione tirannica ma luminosa” (p. 18) L’ultima leva di intellettuali gli sembrano “troppo poco inclini a fare confronti con le più legittime e forti tradizioni del Novecento” (p. 19) Oggi prevale il luogo comune, il culto se vogliamo storicistico del successo, e l’ansia di “buttarsi sul carro del vincitore” (p. 19), cioè sul romanzo.
Ma il romanzo di questi mestieranti non è “il condensato di sapienza antropologica che ci hanno consegnato l’Ottocento e il primo Novecento; non è più insomma un genere letterario… E' un genere editoriale” (p. 19).
Sentiamo come lo genealogizza Nietzsche  “Il dialogo platonico fu per così dire la barca in cui la poesia antica naufraga si salvò con tutte le sue creature; stipate in uno stretto spazio e paurosamente sottomesse all’unico timoniere Socrate, entrarono ora in un mondo nuovo…Realmente Platone ha fornito a tutta la posterità il modello di una nuova forma d’arte, il modello del romanzo, questo si può definire come una favola esopica infinitamente sviluppata, in cui la poesia vive rispetto alla filosofia dialettica in un rapporto gerarchico… Cioè come ancilla. Questa fu la nuova posizione della poesia, in cui Platone la spinse sotto la pressione del demonico Socrate. Qui il pensiero filosofico cresce al di sopra dell’arte, costringendola ad abbarbicarsi strettamente al tronco della dialettica. Nello schematismo logico si è chiusa in un involucro la tendenza apollinea: così in Euripide abbiamo dovuto constatare qualcosa di corrispondente, e inoltre una traduzione del dionisiaco nella passione naturalistica”[5].
Bachtin individua un collegamento tra satira menippea e romanzo, nella fattispecie quello di Dostoevskij. Il critico russo menziona il Satyricon di Petronio  e l’Asino d’oro di Apuleio[6] che sono in effetti le opere più moderne, e tra le più belle della letteratura latina.
Io credo nella necessità della conoscenza della conoscenza della tradizione letteraria per uno scrittore che non sia uno scribacchiatore o uno scarabocchiatore. Oppure un nano che non è salito sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto[7].
Se lo scrivere egregiamente non è più richiesto a chi scrive, cresce sempre più “il divario tra essere e apparire” (Atti mancati, p. 19) e sui bravi prevalgono i raccomandati, i mediaticamente abili e così via.
Concludo la presentazione di questo terzo capitolo ricordando Platone: l’apparenza talora violenta la verità dice Adimanto, fratello del filosofo citando Simonide: “to; dokei`n kai; ta;n ajlavqeian bia`tai (Repubblica, 365c). La verità, l’ajlhvqeia che dovrebbe essere “non latenza”, viene invece continuamente occultata.

IV Capitolo
Marco e Lucia si trovano seduti all’ex bar di Azio che dopo l’ictus del titolare si è degradato ad “anonima tavola calda per fuorisede”(20). Anche il bar partecipa della decadenza semantica e vitale che investe un poco tutti in questa Bologna e in questa Italia.
Arriva Bernardo per un breve saluto perché deve andare al mangiare con i pezzi grossi al Diana. Li saluta per tornare verso i cerimonieri “che pendono dalle sue labbra come tanti e ottusi Wagner, tanti famuli insomma. Servi, come il famulus attraverso il quale Goethe si burlava dell’illuminismo.
Marco ricorda le parole che Bernardo gli aveva detto quando Lucia l’aveva lasciato: “Il massimo che ci è concesso è prendere da ognuno ciò che ci fa stare bene per un po’. Solo per un po’” (p. 21) E’ una dichiarazione di amor fati, quello che nel capitolo seguente verrà definito “una specie di segreto tao critico” (p. 31). Ma per accettare il destino, ossia se stesso, ci vuole chiarezza e lucidità. Pagi aveva aggiunto: “Ripensa ai fatti. C’è qualcosa di non chiaro, di non limpido. Forse riguarda te, non lei” (p. 22).
I due amanti avevano delle discrepanze di carattere: iperattiva lei, pigro, passivo, chiuso in se stesso lui. Fatto sta che Lucia a un tratto l’aveva lasciato e aveva lasciato Bologna.
I due tengono un dialogo difficile, sospettoso, reticente. Lei ha rinunciato a precedenti ambizioni accademiche e lavora a Roma, a Trastevere per la fondazione di una ricchissima fotografa. Ma c’è qualcosa di inautentico nel loro parlare, o di non detto:
“'Sei dimagrita un po’ troppo mi sembra’. Lei ha alzato di nuovo le spalle” (p, 23)
Viene nominato Ernesto, un fantasma, tra loro due. Lucia ha addosso qualche cosa di stanco,  una spossatezza che la deforma: “E' come se quei tratti si fossero ridisposti secondo un disegno respingente” (p. 24). E’ la deformazione della brutta malattia. Lucia parla di Ernesto, l’amico morto, il convitato di pietra.
La ragazza fa un confronto tra i due: Ernesto era più bravo a parlare, Marco a scrivere. Poi chiede del romanzo.
“Sta là impaludato” (p. 25) risponde lui.
Lucia continua con i ricordi ma il suo fisico mostra che qualche cosa non funziona. Marco cerca di “troncare e sopire” con una battuta insignificante. Poi i due si separano. Lei gli manda un sms per un appuntamento, due giorni dopo, a Porta Saragozza (p. 27).

V Capitolo
Molinari riprende in mano il romanzo che non funziona come lui vorrebbe. L’ispirazione vera è leggibile solo in controluce, in filigrana, sotto quella pubblica che interferisce. E’ come la scrittura più antica di un palinsesto o “come un affresco semicancellato sotto una mano di biacca” (p. 28).
La perdita dell’amico Ernesto e dell’amante Lucia lo avevano messo su una falsa pista (p. 29).
Nel romanzo c’è la famiglia del protagonista, c’è “il mito del progresso indefinito”, c’è  “l’opulenta Emilia rossa che si sfalda insieme a questo mito come un piccolo impero asburgico” (p. 29). Molinari  ha escluso lenocini narrativi temendo di cadere in uno storicismo da alcova (p. 30), ma del resto non è riuscito a raffigurare personaggi interi, a illuminare dall’interno una situazione storica perché non ha capito le quintessenze, non ha trovato il bandolo. Tutto rimane come poco caratterizzato per “mancanza di fede”.
Mancanza di fede significa letteratura alessandrina, da erudito, da bibliotecario , quindi mancanza di passioni, di contenuti politici.
Segue un ritratto di Ernesto, l’amico scomparso in un incidente d’auto. Questo giovane morto ante diem  incarna lo stile dell’aristocratico europeo caratterizzato dall’ ajmevleia, dalla sui neglegentia[8] dalla sprezzatura:
“In Ernesto invece la sobrietà era il frutto naturale di un’aristocrazia della ricchezza e della bellezza. Qui il segno meno, il segno dell’inazione, riguardava tutto ciò che non aveva dovuto conquistarsi con le unghie, tutta la cultura respirata in famiglia e dunque mai presa troppo sul serio, tutto il tempo che non aveva mai avuto l’ansia di capitalizzare con la mia furia piccolo-borghese. Ernesto, o della normalità. La normalità altoborghese di Bologna, intendo. Una normalità fatta dell’assoluta assenza di ossessioni, cioè dell’assenza di pane quotidiano” (p. 31).
Dopo due secoli abbondanti di predominio, l’alta borghesia si è impossessata anche dello stile dell’aristocrazia. Ernesto Mengoli “sapeva fare tutto discretamente, senza strafare mai: dal calcetto alla politica universitaria, dal naturismo ai cultural studies, non c’era niente che non evidenziasse la sua disinvolta medierà” (31). "Viene in mente Saint-Loup dei Guermantes  che appariva di un'eleganza " libera e trascurata"[9].
Ernesto è un amico, un condiscepolo di Marco quale allievo di Pagi, e, sotto sotto, un rivale: i due giovani erano stati in qualche modi i Jules e Jim di Lucia (p. 32). La ragazza poi aveva scelto Molinari che ne era rimasto stupito. Lucia all’epoca era bella assai, eppure Marco non temeva di perderla: “perché non sapevo ancora cosa fosse il dolore, la perdita, il puntiglio trasformato in un’idea fissa” (p. 33). Di nuovo il tw`/ pavqei mavqo~. Lucia era attirata proprio dalla “distrazione o incoscienza” di Marco e da un proprio stato “di presunta soggezione intellettuale” che voleva subire e nello stesso tempo distruggere. La ragazza era incline “ad attaccarsi a tutto ciò che non le risultava subito classificabile, smontabile nei suoi banali elementi primi; ad appropriarsene con tenacia silenziosa, e quindi a svalutarlo” (p. 33).
E’ uno dei tovpoi dell’amore e dell’interesse umano: Quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor . (Ovidio, Amores, 2, 20, 36) evito ciò che mi segue, seguo ciò che mi evita.
Riferisco solo un paio tra le altre numerosissime occorrenze:
Nella commedia La locandiera (del 1753), Goldoni fa dire alla protagonista,  Mirandolina, in un monologo."Quei che mi corrono dietro, presto mi annoiano" (I, 9).
Sentiamo ancora Proust che esprime lo stesso concetto:"Qualsiasi essere amato-anzi, in una certa misura, qualsiasi essere-è per noi simile a Giano: se ci abbandona, ci presenta la faccia che ci attira; se lo sappiamo a nostra perpetua disposizione, la faccia che ci annoia"[10].
Lucia apparteneva alla stessa Bologna di Ernesto con un codice di comportamento abbastanza uniforme per questa classe sociale. Lo riconosco per avere insegnato molto a lungo, 28 anni latino e greco ossia le materie caratterizzanti, nel liceo Galvani di via Castiglione appunto. Lo stile di quell’ambiente oscilla tra la neglegentia di cui ho scritto sopra, e il suo contrario, l’affettazione[11], o addirittura lo snobismo[12], ossia la maleducazione. Con atteggiamenti non ricchi di calore umano, talora perfino poveri di umanità.
“Lucia si era costruita un personaggio stilizzato impermeabile a qualunque sbavatura, coerente come un fumetto” (p. 34). Questo indossare sempre una maschera che a poco a poco risucchia e annulla l’interiorità può essere molto nocivo per la salute. Molte persone che gravitavano sul Galvani non stavano bene.
La mancanza di calore umano può fare male a chi vi rinuncia, ho pensato prima di leggere questo romanzo.
Marco Molinari non apparteneva a quell’ambiente. La sua estrazione era piccolo borghese e catto-comunista.
Le sue origini gli erano “motivo di sottile vergogna e di contemporaneo orgoglio” (p. 35). Quando ero giovane, nel ’68, una dei luoghi comuni dell’epoca era “vivo la mia contraddizione”. Credo che essere “segni di contraddizione” da parte degli altri, come Cristo, sia buona cosa, ma penso pure che le contraddizioni  a noi interne dobbiamo risolverle. La morte di questi due amici della Bologna bene, paradossalmente, aiuterà Marco a farlo.

Giovanni Ghiselli 

[1] Eschilo, Agamennone, v.. 177. 
[2] I colloqui, vv. 10-12) 
[3] Totò Merumeni, v. 18. 
[4] M Bacthin, Dostoevskij , p 222.  
[5] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 95.  
[6] Op. cit., p. 148. 
[7] A questo proposito, cito un aforisma che Giovanni di Salysbury (XII secolo) attribuisce a Bernardo di Chartres (Filosofo scolstico francese morto nel 1130. Scrisse un’opera su Porfirio) :"Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantum humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea" (Metalogicon III, 4), diceva Bernardo di Chartres  che noi siamo come dei nani che stanno sulle spalle di giganti, in modo tale che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, comunque sia  non per l'acume della nostra vista o la statura del corpo ma poiché siamo portati  in alto ed elevati da quella grandezza gigantesca
[8] Petronio elegantiae arbiter , maestro di buon gusto alla corte di Nerone, viene descritto da Tacito con queste parole “habebaturque non ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu.  Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam praeferentia, tanto gratius  in speciem simplicitatis accipiebantur"  (Annales , XVI, 18), ed era considerato non un dissoluto o un dissipatore, come i più tra quelli che sperperano le proprie fortune, ma uomo dalla voluttà raffinata. Le sue parole e i suoi atti quanto più erano liberi e manifestavano una certa noncuranza di sé, tanto più piacevolmente erano presi come segno di semplicità.
[9] M. Proust, I Guermantes, p. 96.
[10] M. Proust, La prigioniera, p. 183. 
[11] Baldassarre Castiglione in Il cortegiano  prescrive al gentiluomo di fuggire sopra tutto "la ostentazione e lo impudente laudar se stesso, per lo quale l'uomo sempre si còncita odio e stomaco da chi ode" (I, 17). Egli deve schivare "quanto più si pò, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura", ossia una studiata disinvoltura, un’apparenza di naturalezza "che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo  credo io che derivi assai la grazia… " (I, 26). Parimenti la perfetta gentildonna "Non mostri inettamente di sapere quello che non sa, ma con modestia cerchi d'onorarsi di quello che sa, fuggendo, come s'è detto, l'affettazione in ogni cosa" . Infatti "somma disgrazia a tutte le cose dà sempre la pestifera affettazione e per contrario grazia estrema la simplicità e la sprezzatura" Quindi la gentildonna non deve mostrare l'artificio: "questi vostri difetti di che io parlo vi levano la grazia, perché d'altro non nascono che da affettazione, per la qual fate conoscere ad ognuno scopertamente il troppo desiderio d'esser belle" (I, 40). Leopardi trova grande saggezza e verità in queste parole: “Grazia del contrasto. Conte Baldessar Castiglione, il libro del Cortegiano…Ma avendo io già più volte pensato meco, onde nasca questa grazia, lasciando quegli che dalle stelle l’hanno, trovo una regola universalissima; la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane, che si facciano, o dicano, più che alcun altra; e ciò è fuggir quanto più si può, e come un asperissimo e pericoloso scoglio la affettazione; e, per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa, e dice, venir fatto senza fatica, e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia” (Zibaldone, 2682). 
[12] Lo snobismo è la quintessenza dell’affettazione, del posare dovuto a mancanza di gusto e a cattiva educazione: nella Ricerca di Proust il personaggio  sine nobilitate è Bloch : “ciò che si chiama la mala educazione era il suo difetto capitale, e quindi il difetto di cui non si accorgeva…Bloch era maleducato, nevrastenico, snob” (All’ombra delle fanciulle in fiore, p.  344). Viceversa  Saint Loup  aveva “un modo di concepire le cose per il quale non si fa più conto di sé, e moltissimo del “popolo”; insomma, tutto l’opposto dell’orgoglio plebeo… Lui, in ogni circostanza, faceva quel che gli riusciva più gradevole, più comodo, ma immediatamente gli snob lo imitavano,  (p. 351).

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