lunedì 19 agosto 2013

"Atti mancati" parte terza

 
 
III e ultima parte della conferenza che terrò il 28 agosto alle ore 21 nella libreria della Festa provinciale dell’Unità di Bologna.
Presenterò il libro Atti mancati di Matteo Marchesini, Voland, Roma 2012
Ne ho già parlato in queste pagine: 1a parte, 2a parte


IX capitolo (pp. 74-88)
Usciti da villa Baruzziana, Marco e Lucia sono in macchina sullo stradone verso la Persicetana. L’uomo quasi trema di rabbia per l’assurdità della visita grottesca cui lei l’ha costretto. Ha la sensazione che Lucia giochi con lui.
Ha pure la sensazione che la ragazza abbia voluto mettergli “davanti Davide come uno specchio appena deformato” (p. 75).
Il decisionismo di lei lo ipnotizza e lo immobilizza.
Lucia ha la vocazione delle metamorfosi; dove c’è lei le cose cambiano (p. 76) e i suoi mutamenti penetrano perfino nei sottilissimi spifferi di realtà che Marco lascia entrare in sé.
Apre bocca Lucia con “allegria…sinistra”.
E’ un efficace ossimoro, e del resto Lucia stessa e Marco e Davide, Ernesto sono tutti ossimori viventi, come Bruto e Amleto. Questi sono falsi sciocchi, loro sono false persone.
Di Davide, Marco dice: “sembra che abbia assoldato un truccatore” (p. 76). Ha cambiato immagine “per parassitare il fratello morto, per prenderne beffardamente il posto”.
Comunque Davide recitava, ha sempre recitato.
L’automobile imbocca la Centese (p. 77).

Marco avverte nell’aria l’Eris1 che certi personaggi associano sempre a Eros: Lucia parla “come se mi stesse concedendo un breve armistizio” (p. 77).
Scendono alla trattoria Bonasoni di San Matteo della Decima. Per loro è un luogo storico, quasi sacro, un monumento al loro passato.
Marco ricorda le prime volte che andarono insieme in quel luogo ultrapopolare, frequentato da camionisti in tuta e “la felicità esotistica” (p. 78) di Lucia.
Noi del ’68 andavamo nei paesi dell’est, quelli del patto di Varsavia per amore dell’esotismo socio politico. Più tardi, a Bologna, al Mulino Bruciato o dai tre vecchi di San Pietro.

Loro due all’epoca erano contenti e si lasciavano andare: per brevi tratti cadeva la maschera e ogni affettazione.
Ma la maschera cadrà del tutto solo negli ultimi capitoli, in prossimità della morte di lei
Cito alcuni esametri di Lucrezio dove l’autore del De rerum natura sostiene che la maschera cade del tutto nelle difficoltà e nei pericolo:"Quo magis in dubiis hominem spectare periclis/convenit adversisque in rebus noscere qui sit;/nam verae voces tum demum pectore ab imo/eliciuntur <et> eripitur persona, manet res" (III, 55-58), tanto più è necessario provare la persona nei pericoli rischiosi e conoscerne la qualità nelle situazioni sfavorevoli; infatti le parole autentiche allora finalmente escono dal fondo del cuore e si strappa la maschera, rimane la sostanza.

Ora invece i due distillano le parole e compongono quasi letterariamente le frasi (p. 79). L’atmosfera della trattoria, i ricordi, comunque conciliano un certo, precario, buonumore.
Ma alla domanda diretta: “ ‘perché mi hai lasciato dopo il funerale?’, Lucia reagisce “delusiva come un oracolo” (p. 80). Risponde cambiando argomento: ha letto il troncone del romanzo di Marco.
Quindi la critica: “No so, è come se le tue pagine fossero al tempo stesso troppo intelligenti e un po’ cieche, come se si muovessero intorno a un centro che non viene mai galla” (p. 81). Pagine che riflettono la paura di vedere la realtà effettuale delle cose spogliate da “fuchi calamistri e altri elementi ascitizi” che le mistificano.
Poi arriva il cibo. Lui si abbuffa, lei ne lascia la metà sul piatto. Un altro segno di discrepanza. Lucia si sente male.
Vanno comunque al Pratello.
Lucia gli ricorda il periodo in cui lui si sottraeva al contatto fisico, come se fosse diventata sua sorella o peggio sua madre (p. 83)
A Marco viene in mente una battuta di Groucho Marx “sugli uomini che non accetterebbero mai di stare con una donna che si mettesse con uno come loro” (p. 83). La realtà è stata tenuta fuori dalla porta, vista come un noumeno.
Finalmente Lucia spiega che è scappata per questo: “non potevo strapparti a forza dall’angolo in cui ti eri rifugiato” (p. 83).
Un angolo, per giunta inameno.
Parlano un poco di Ernesto ma, dice Lucia: “tu non rifiuti: lasci sfumare, piuttosto. O divaghi”.
Lucia ricorda un episodio, una doppia commedia recitata da Marco, prima per dare importanza a se stesso, poi, per resipiscenza, a Ernesto.
Dietro di te spuntano subito le erinni, come diresti tu: la vergogna, il rimorso eccessivo, sbagliato” (p. 85). Può essere un modo per prevenire mali peggiori.
Cfr. uJmei`~ me;n oujc oJra`te tavsd j, ejgw; d j oJrw` (Eschilo, Coefore, 1061), "voi non le vedete queste, ma io le vedo". Parla Oreste inseguito dalle Erinni.
Questo verso cruciale è citato da Eliot quale epigrafe di Sweeny agonista del 1930. Quindi, nel dramma La Riunione di famiglia (del 1939) mostra come tali visioni siano un privilegio:"Voi non le vedete, ma io le vedo, ed esse vedono me".
Bisognerebbe seguire le Erinni come segni mandati da un altro mondo, non cercare invano di evitarle con un'impossibile fuga in quella "deriva infinita di forme urlanti in un deserto circolare" che è la storia umana. Quelli che vedono le Erinni insomma, sono monocoli in una terra di ciechi i quali pongono fede nell'ordine mondano non regolato da un cosmo superiore, divino, e non fanno che fissare il disordine con occhi vuoti.
Marco è competitivo, agonistico ma anche frenato dalle Erinni.
Intanto beve il nero d’Avola (p. 86) e fa un gesto di resa “la canonica apertura di braccia” che significa “colpito e affondato”.
Fanno due passi per il Pratello. Vedono “la vecchia matta in giarrettiere e sottoveste col rossetto sbavato e la rosa rossa piantata tra i seni flaccidi, che tutti qui chiamano contessa” (p. 87).
Un poco di colore e folklore della Bologna fricchettona.
Marco menziona le code di Bologna. Io non le ho viste quasi mai, o solo qualche volta alla cassa del cinema Odeon. Quando ero studente facevo la coda alla segreteria della facoltà di lettere. Tra il Pratello e Belle Arti, non c’è posto per la fretta “niente zelo, per nessun motivo al mondo” (p. 87). Eppure il tempo è il nostro bene più prezioso.
Lucia continua a fissare l’agenda sua e di Marco il quale acconsente come se sperasse di scoprire in lei “chissà quale saggezza purificatrice” (p. 88). Ancora il tw/` pavqei mavqo~.
Poi però, quando lei lo saluta con “a domani!”, “la voglia di sfuggirla” prevale di nuovo. E’ la paura dell’autonomia minacciata, e il bisogno di tempo per riflettere, per “assorbire tutte le sue parole e cicatrizzare le ferite che mi hanno inflitto con quasi scientifica minuzia” (p. 88). Da questo rapporto non è assente il sadismo.

X capitolo (pp.89-93)
Lucia non si fa sentire. Marco si butta sul lavoro. Poi, dopo 10 giorni le telefona. Risponde il padre, il dottor Malaguti che non gli passa Lucia dicendo che è impegnata (p. 90). Marco consuma “con la solita voracità bulimica” il suo pranzo preferito, “quello ribattezzato da Lucia “delle tre B”: bufala, banana, birra”. Anche bulimia comincia con b.
Gironzola , ma alla fine non può resistere: si avvicina al portone di Lucia per suonare il campanello. Lì vede un furgone bianco, e lo identifica come uno di quelli che portano morfina ai malati terminali (p. 91). Gli viene in mente una frase di Lucia “ho finito le cure” (p. 92). Il furgone è come l’ultimo tassello .
Torna a casa dove Lucia lo chiama con voce squillante e gli propone di andare da Bernardo. Marco telefona all’amico che li invita a pranzo

XI capitolo 94-100
Lucia appare molto sofferente, e spenge l’estrema speranza di Marco sulla sua sopravvivenza. Magrissima e, nello stesso tempo, con una guancia gonfia (p. 94). La donna è oramai tutta deformata dalla malattia. I due non sanno come parlarne: “Non abbiamo parole condivise per affrontare il dolore. Non le abbiamo avute neanche per Ernesto” (p. 95). Ma presto verranno da sole e ci sarà la resa dei conti. Salgono per la Porrettana.
Lucia ora vuole chiarire. Vuole che Marco apra gli occhi e guardi finalmente. Vuole anche rivedere la chiesa di Alvar Aalto (p. 98)
Dal ponte che separa Grizzana da Riola si possono vedere due costruzioni simili a specie incompatibili e nemiche: “l’eclettismo follemente ottocentesco della Rocchetta Mattei e l’ascetico Novecento del tempio di Aalto” (p. 98). Possono simboleggiare i due personaggi o i loro ambienti di provenienza. Entrano nella chiesa e si fermano tra le panche di abete “come se in quel chiarore modernista, dove il cattolicesimo si traveste di patetiche nudità luterane, dovesse accaderci qualcosa” (p. 98). Le nudità delle opere di Aalto vuole essere mimetica della natura. Una mivmhsi~ th`~ fuvsew~. Ora Marco chiede a Lucia di parlargli anche di quello che lui non vuole sapere. Ma lei non parla. Soltanto dopo il superamento di Porretta, Lucia comincia a parlare. Ricorda che il giorno del funerale del loro amico, Pagi le telefonò per dirle che il romanzo di Ernesto gli era piaciuto. Sta per dire altro ma poi si interrompe “Adesso mi riposo”. Marco ha capito che la confessione finale non sarà senza dolore per lui, e che forse gli toglierà il poco equilibrio che gli rimane.
Lucia “ chiude gli occhi mentre rallento, tenendo il volante stretto con tutte e due le mani per non sbandare” (p. 100)

XII pp. 101-109
Bernardo Pagi li accoglie chiamandoli “Lucia” (invece del solito bambina, il che fa rabbrividire Marco) e “polemista”. Molinari va a lavarsi le mani e si guarda allo specchio: “più grasso, più stempiato ma in fondo uguale” (p. 100). Invero qualche cosa della decadenza dell’ambiente di Lucia si è attaccata pure a lui.
Certamente ama molto mangiare. La cuoca di Pagi, Rina dai capelli “orribilmente rossi” sa fare “divinamente le pappardelle al cinghiale e il pollo dorato”. Uno solo di questi due piatti basta e avanza a nutrire.
Mi viene in mente il Satyricon.
Vediamone tre righe :" recepta cocus tunica cultrum arripuit porcique ventrem hinc atque illinc timida manu secuit. nec mora , ex plagis ponderis inclinatione crescentibus tomacula cum botulis effusa sunt" (49, 9-10), il cuoco, ripresa la tunica, afferrò un coltello e con mano circospetta sventrò il maiale da una parte e dall'altra. Senza indugio, dai tagli che si allargavano per la pressione del peso, sgorgarono salcicce con involtini.
Bernardo diversamente da Molinari “ha fatto pace con la realtà” e si è ritirato lassù solo perché vuole essere lasciato tranquillo (p, 102).
Il ritiro dalla polis mi sembra una tranquillità improduttiva. E’ vero che il maestro scrive, ma la scrittura viva si nutre anche di rapporti umani.
Arriva “il pentolone delle pappardelle” mentre Bernardo versa il vino “bianco giallino e trasparente” comprato “a un’osteria di Mentemurlo, durante una delle periodiche bevute con Guccini” (p. 103).
Un maestro di trasgressioni disordinate, trasgressioni non politiche, fondate sul narcisismo.
Bernardo ne ricorda le sbronze, come cose simpatiche.
La cuoca ribatte “A l’è un sudiciòn” (103). Poi sparisce in cucina “come una caratterista che esce di scena”. Una realtà diversa, quasi ridicola rispetto a questi intellettuali.
Eppure più avanti leggiamo che Pagi prima di mandare i pezzi ai giornali li sottopone al giudizio della cuoca (p. 105).
Intanto Bernardo racconta fatti di cronaca “con un brio..leggero” con “l’arte consumata del conversatore” (p. 103).
Mi viene in mente Odisseo la “consumata volpe” del Filottete di Sofocle.
Pagi possiede tutti gli artifici del sofista, infatti viene paragonato a Socrate il quale secondo Leopardi non fu altro che un sofista: “E Socrate stesso, l'amico del vero, il bello e casto parlatore, l'odiator de' calamistri2 e de' fuchi3 e d'ogni ornamento ascitizio4 e d'ogni affettazione, che altro era ne' suoi concetti se non un sofista niente meno di quelli da lui derisi?” (Zibaldone, 3474).

Io voglio solo che ciascuno mostri ciò che è” ha detto Pagi (p. 104).
A Molinari ha fatto confessare “invidie…Wille zur Macht” la tendenza a nascondersi a se stesso e “la foga verbale che occulta tutto questo” (p. 104). Marco scinde il parlato dissimulatore dallo scritto dove dice la verità. Sul romanzo che non procede Pagi incoraggia Molinari: gli dice che finire un libro è solo “prenderne atto” (p. 105). Prendere atto di che cosa? Della necessità di scriverlo? Della realtà? Lo chiederò all’autore.
Arriva la Rina con il pollo dorato.
Molinari mangia in fretta, come ha fretta nello scrivere
E’ come col cibo, hai un rapporto infantile col cibo. Eh Lucia? Si vede da come mangia, tutto assieme” (p. 106).
Bernardo parla del suo impegno di critico anomalo: “un critico militante non può essere un critico giornaliero, pena la costrizione di dare l’onore delle armi a un sacco di paccottiglia” (p. 107).
Pasolini non ha mai sentito quest’obbligo. Vero è che l’ha pagata cara.
Poi arriva la torta di miele. “La Rina il miele lo prende su dagli Elfi”. C’è il gusto del cibo buono che in effetti è un piacere. Del resto perdere la sana snellezza è un grosso dispiacere ed è un male per la salute.
Viene deriso un critico ligio ai luoghi comuni del “politicamente corretto”. Uno di quelli che appena sentono un giudizio fuori dagli schemi della sinistra ti danno del fascista. Insomma un imbecille. “Leggono troppo e non capiscono. E se non capisci, dov’è il gusto?” (p. 108),
Poi Bernardo offre delle stanze ma i due escono. Lucia si mette a parlare di Ernesto.

Capitolo XIII (pp. 110-115).
Racconta del pomeriggio in cui salirono entrambi nella casa di via Castiglione. Lui raccontava l’impermeabilità di Davide, Lucia quella di Marco. Poi si sono scambiati un bacio. Poi “è successo” (p. 111). L’aposiopesi pudica fa comunque intendere che fu fatto “il massimo”. “Ed è stato tutto molto breve, molto asettico” (p. 111).
Invero la sepsi, la sh`yi~, la putrefazione, c’è stata.
Dopo, Ernesto era agitatissimo. Uscì per andare da Davide.
Lucia dice che Marco sottraendosi a entrambi aveva rotto l’equilibrio a tre: aveva lasciato un vuoto d’aria che aveva fatto cadere gli altri due uno sull’altro (p. 112).
Chi si fa un amante o un’amante trova sempre il modo di colpevolizzare il compagno. Marco pensa che forse è stato Davide a fare sbandare la smart del fratello piazzandosi davanti alla macchina. Lucia fa altre rivelazioni. La scatola nera si apre e Marco prova “quel senso di liberazione che è sempre legato a un improvviso, irrefutabile senso di realtà” (p. 114). Tucidide e Machiavelli.
I due sono presi dal rimorso: lei per quello che ha fatto, e lui per quanto non ha fatto. Non ha portato a Biagi il romanzo di Ernesto, non in tempo.
Marco si è punito non finendo il proprio romanzo, e Lucia molto peggio perché non aveva l’osso del romanzo da gettare ai denti micidiali del cane del rimorso.

XIV capitolo pp. 116-119
Marco si allontana in silenzio da Lucia. Si avvicina a Bernardo e gli tornano in mente queste sue parole: “C’è qualcosa di opaco. E forse riguarda te, non lei” (p. 116). Biagi gli consiglia di starle vicino e di non fare più niente di falso, di non chiudere gli occhi.
Gli dice anche che lo legge e che leggendolo sente “il ronzio della paura…accumuli il lavoro, ti seppellisci e intanto seppellisci” (p. 117). Quindi: “non sprecare questa occasione, non difenderti Marco. E’ l’unico modo”. E’ l’occasione per fare chiarezza completa.
Bernardo li saluta con un sentimento lontano, di quella lontananza che non è anaffettività ma “fedeltà al poco che si può davvero fare per gli altri senza essere velleitari, senza barare con se stessi” (p. 119)

XV capitolo pp. 120-122
Capitolo in corsivo. Racconta un sogno, con una festa di ragazzi, una partita di pallone e l’inettitudine di Marco a questo gioco, la sua distrazione, Ernesto impermeabile alle volgarità, poi il primo bacio ricevuto da Lucia che gli dice: “tu vedi tutto. Da lontano però eh? Devi avere la classica presbiopia del maschio orgoglioso, tu” (p. 122). Poi il risveglio “zuppo di sudore, col fiato grosso e i denti stretti”. Marco ha sognato per la prima volta l’esatta verità.

XVI pp. 123-125
Marco scrive finalmente il suo romanzo, questo romanzo.
Il dolore gli ha dato chiarezza: “Era un dolore lucido, forte e vasto come non l’avevo mai sentito; ma al tempo stesso era la cosa più stranamente simile alla serenità che avessi provato da molto tempo”. E’ il dolore che spazza via le nebbie.
Poi Lucia lo chiama, gli chiede di portarle qualche cosa di suo da leggere. Gli apre il padre. Lucia è moribonda. Marco non riesce a non piangere, ma cerca di minimizzare, di camuffare l’atto con le parole: “piango della mia prevedibilità” (p. 124).
Lucia gli dice che l’importante è questo romanzo, poi gli chiede di andare all’Hospice di Bentivoglio dove la porteranno. “Vorrei poter fare un viaggio con te”. Quindi lo congeda “Ora vai, devo un po’ dormire”.
Marco esce e si ritrova “in mezzo alla folla carica di pacchi pasquali”.
Fa pensare alla resurrezione di Cristo. S’incammina a occhi chiusi tra due comitive e si lascia trascinare “da quel fiume lento e ronzante verso le luci della Porta” (p. 125). Sono le ultime parole del romanzo

Giovanni Ghiselli

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1 Ovidio negli Amores scrive: "Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido; / Attice, crede mihi, militat omnis amans" (I, 9, 1-2), è un soldato ogni amante; anche Cupido ha il suo campo di guerra; Attico, credimi, ogni amante è un soldato.
2 Da calamistrum, “ferro per arricciare i capelli” (ndr).
3 Da fucus, “tintura rossa” (ndr).
4 Da ascisco, “annetto” (ndr).

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