lunedì 26 agosto 2013

Boccaccio, seconda parte




Seconda parte della conferenza che terrò lunedì 2 Settembre alle ore 18 nella  Libreria Trame, via Goito 3, Bologna.
La prima parte è in questa pagina


Dall’Introduzione al Decameron
“L’orrido cominciamento è come a’camminanti una montagna aspra ed erta, appresso la quale è riposto un bellissimo piano e dilettevole. Erano 1348  gli anni passati dalla fruttifera incarnazione del Figliol di Dio, quando nell’egregia città di Firenze, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza. Nata in Oriente, inverso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata”.
Il morbo in primavera orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, ed in miracolosa maniera a dimostrare. Dagli infermi la peste si avventava ai sani agli uomini e agli animali. Due porci presero e scossero con il grifo gli stracci di un poveraccio morto di peste e morirono pure loro.
“La peste coinvolge in un solo destino bestie che muoiono come uomini ed uomini che si riducono a bestie, isolandosi nel loro egoismo spietato o… Lussuriando senza freno”[1].
 Tutti schifavano e fuggivano i malati. Molti si isolavano, alcuni stavano a dieta, altri si lasciavano andare a mangiare, bere e godere. In tanta afflizione era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta.
“La prima cosa notevole è che ‘le più delle case erano divenute comuni’. In questa capitale della moderna civiltà borghese, la decadenza e l’abbandono della proprietà privata è l’antecedente necessario”[2] per questa caduta delle leggi
 I ministri ed esecutori delle leggi erano morti o infermi per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era, di adoperare.

La peste in altri autori
Per  Tucidide che si rifaceva ad un’idea razionale dell’uomo e della storia, fu la guerra a causare la peste, e questo morbo, infuriando con violenza (uJperbiazomevnou ga;r tou' kakou', II 52, 3) determinò l'incuria del sacro e divino.
La peste poi fece saltare tutte le leggi. Né la paura degli dèi li tratteneva né legge umana. Pendeva sulle loro teste una pena molto più grande: quella della peste (II, 53, 4)[3].
Per Sofocle conflitti e peste sono conseguenza dell'ateismo.
All'inizio dell'Edipo re  una peste odiosissima, loimo;" e[cqisto", devasta la povli", la quale si consuma (fqivnousa, vv.25 e 26) nella malattia e nella sterilità, svuotandosi di vita. Il morbo è anche infecondità della terra e delle femmine, correlativa all'impotenza dei maschi
In questa tragedia la peste, la fame (limovvv" ) e la sterilità, sono causate dal mivvasma , la contaminazione provocata dai delitti del tuvvranno" . Il maximum scelus  di Edipo secondo Sofocle non è il maternus amor che gli attribuisce Seneca.
Le ultime parole della Pizia riferite da Creonte :"turpis maternos revolutus in ortus [4]" ( Oedipus, v, 238) vengono chiarite più avanti dall'ombra di Laio:"maximum Thebis scelus- maternus amor est "(vv.629-630), il delitto più grande a Tebe è l'amore per la madre.
Le commento con queste di C. Pavese: "Se nascerai un'altra volta dovrai andare adagio anche nell'attaccarti a tua madre. Non hai che da perderci".[5]
Secondo Sofocle il delitto di Edipo sta nella miscredenza nei confronti degli oracoli e nella presunzione di potere risolvere ogni difficoltà con la propria intelligenza: "arrivato io,/ Edipo, che non sapevo niente, la feci cessare[6],/ azzeccandoci con l'intelligenza (gnwvmh/ kurhvsa" ) e senza avere imparato nulla dagli uccelli" (vv. 396- 398).
Diamo la traduzione dei vv. 25-30 dell’ Edipo re di Sofocle: "E  si consuma[7] nei calici infruttuosi della terra,/si consuma nelle mandrie dei buoi al pascolo, e nei parti/senza figli delle donne; e intanto, il dio portatore di fuoco,/scagliatosi, si avventa sulla città, peste odiosissima,/dalla quale è vuotata la casa di Cadmo, e il nero/Ades si arricchisce di gemiti e lamenti".

Torniamo a Boccaccio
Oltre ai dissoluti e ai prudentissimi c’erano quelli che seguivano una via di mezzo, non stringendosi nelle vivande né allargandosi nel bere e nelle dissoluzioni. Alcuni fuggivano da Firenze pensando che in campagna non giungesse l’ira di Dio a punire l’iniquità degli uomini. La tribolazione era talmente entrata nei petti che perfino i genitori abbandonavano i figli. Rimaneva la carità degli amici o l’avarizia dei serventi attratti da grossi salari. Le donne, anche se belle e leggiadre, non si peritavano di avere al loro servizio un uomo, e a lui senza vergogna ogni parte del corpo aprire. Quelle che guarirono divennero meno oneste.
 Tra i vivi nacquero cose contrarie ai primi costumi. Cessarono i compianti funebri, anzi in alcuni casi si usavano risa e motti e festeggiar compagnevole, cosa che le donne avevano appreso bene, posposta la donnesca pietà. Mettevano nelle bare più di un morto. Fra marzo e luglio morirono più di centomila creature umane dentro Firenze.
La terra sacra non bastava alle sepolture, e i morti venivano posti nelle chiese e in quelle “stivati come si mettono le mercatantie sulle navi” e “con poca terra si ricoprìeno”.
Morivano dalla mattina alla sera dei giovani che Galieno[8], Ippocrate o Esculapio avrebbero giudicato sanissimi.
Un martedì mattina si trovarono nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella sette giovani donne tra i 28 e i 18 anni “savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma ed ornata di costumi e di leggiadra onestà”.
Userà pseudonimi per non danneggiarle. Adotterà nomi alle qualità di ciascuna convenienti. Pampìnea, la più attempata, poi Fiammetta, Filomena, Emilia, Lauretta, Neìfile, Elissa.
Dunque le sette sedettero in cerchio e Pampìnea cominciò a parlare. Propone di lasciare la città con l’atra feccia dei becchini “fuggendo con la morte i disonesti esempi degli altri, e di recarsi onestamente a’ nostri luoghi in contado de’ quali a ciascuna di noi è gran copia, e lì prendere piacere, senza trapassar in alcun atto il segno della ragione…non si disdice di più a noi l’onestamente andare che faccia a gran parte dell’altre lo star disonestamente”.
Le 7 ragazze, poi i 3 ragazzi, “piacevoli e costumati” sono rappresentanti della “Firenze bene”. Hanno i modi dell’aristocrazia.
Donne che parlano male delle donne (cfr. l’Andromaca e l’Ermione di Euripide citate sopra).
Filomena  fa una obiezione: dice che le donne sono poco ragionevoli e hanno bisogno della provvidenza d’alcun uomo: “Noi siamo mobili, riottose, sospettose, pusillanime e paurose”. C’è bisogno della guida di un uomo. Elissa dice: “Veramente gli uomini sono delle femmine capo, e senza l’ordine loro rade volte riesce alcuna nostra opera a laudevole fine”
Ma come facciamo? Non sarebbe convenevole pregare degli estranei.
Allora entrarono in chiesa tre giovani: Panfilo, Filostrato e Dionèo, assai piacevole e costumato ciascuno. Tutti e tre fidanzati  con tre della lieta brigata femminile. Neifile, una delle fidanzate, teme per la loro reputazione. Ma Filomena ribatte che se la coscienza non la rimprovera “Iddio e la verità l’arme per me prenderanno”.
“E’ la saviezza borghese che in forma di buon senso manifesta, senza alcuna pretesa sistematica, i primi elementi di quell’empirismo e razionalismo e naturalismo che più tardi elaboreranno i filosofi d’Inghilerra e di Francia”[9].
Pampinea che oltretutto era congiunta per consanguineità a uno di quei giovani, andò a pregarli di tener loro compagnia “con puro e fratellevole animo”. I giovani pensarono  di essere beffati, ma poi dovettero ricredersi e accettarono.

Il mercoledì dunque tutti si misero in via con quattro delle fanti delle giovani e tre famigliari dei giovani. E giunsero in un tipico locus amoenus: “su una piccola montagnetta  un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, con logge, sale e camere, tutte di liete dipinture ornate, con pratelli dattorno e con giardini meravigliosi e con pozzi d’acque freschissime…ogni cosa di fiori piena e di giunchi giuncata”.
Dionèo oltre ogni altro era piacevole e pieno di motti. Avverte che è venuto per lasciare in città le tristezze: le ragazze devono disporsi a sollazzare, cantare e ridere con lui, “tanto, dico, quanto alla vostra dignità s’appartiene”.
Questi giovani nobili e ricchi conoscono tutte le buone maniere e costituiscono un polo di forte attrazione per Boccaccio, più forte di quella pur esercitata dai plebei intelligenti.
Franz Xaver Winterhalter, Decameron
Pampinea si disse d’accordo: “festevolmente viver si vuole, né altra cagione dalle tristizie ci ha fatto fuggire”. Poi propone che ogni giorno un giovane sia il re del dì. “Ad una voce lei per rèina del primo giorno elessero”. Anche le quattro fanti e i tre famigliari ricevono dei compiti.
Tutto viene ordinato e gerarchizzato.
“A questo vivere “festevolmente” in campagna è necessario trovare un ordine, senza di che la “bella compagnia” non ritroverebbe le ragioni morali ed estetiche della sua “onestà”[10].
In effetti la fortuna ha meno forza dove trova la virtù ordinata a resisterle.
Da fuori non devono recare notizie se non liete. Poi la brigata incline alla letizia andò per un giardino facendo ghirlande di fronde e cantando. Intanto Parmeno, il siniscalco, fece preparare la tavola con tovaglie bianchissime e bicchieri che d’ariento parevano, e tutto coperto di fior di ginestra. Poi vennero vivande delicatamente fatte e finissimi vini fur presti e i tre famigliari chetamene servirono le tavole.
I “famigliari” si muovono e parlano, se devono parlano, con il debito rispetto.
Le cose erano belle e ordinate, ed essi con piacevoli motti e con festa mangiarono.
Tanto apparato è tipico della borghesia che vuole imitare l’aristocrazia.
Nel grande romanzo di Musil si trova invece un elogio della "magnifica negligenza" dell’aristocrazia : “ Una casta dominante rimane sempre un poco barbarica...Erano invitati insieme in residenze campestri, e Ulrich  notò che vi si vedeva sovente mangiare la frutta con le mani, senza sbucciarla, mentre nelle case dell'alta borghesia il cerimoniale con coltello e forchetta era rigidamente osservato; la stessa osservazione si poteva fare a proposito della conversazione che quasi soltanto nelle case borghesi era signorile e distinta, mentre negli ambienti aristocratici prevalevano i discorsi disinvolti, senza pretese, alla maniera dei cocchieri. Le dimore borghesi erano più igieniche e razionali. Nei castelli patrizi d'inverno si gelava; le scale logore e strette non erano una rarità, e accanto a sontuose sale di ricevimento si trovavano camere da letto basse e ammuffite. Non esistevano montavivande né bagni per la servitù. Ma, a guardar bene, c'era proprio in questo un senso più eroico, il senso della tradizione e di una magnifica negligenza!"[11].
Il conte Leinsdorf, promotore della grande Azione Patriottica, l'Azione Parallela, "del popolo pensava fermamente che fosse buono…era fermamente convinto che persino il vero socialismo concordava con le sue opinioni…E' chiaro come il sole che soccorrere i poveri è un dovere cavalleresco, e che per la vera nobiltà non c'è poi una così gran differenza tra un fabbricante e un suo operaio"[12].

Decameron: “Terminato il desinare, fecero levare le tavole in modo che potessero suonare e carolare. Dionèo prese un leuto e Fiammetta una viola. Poi mandati i famigliari a mangiare, a carolar cominciarono, e quella finita, canzoni vaghette e liete cominciarono a cantare”.
I “famigliari” hanno orari diversi dai signori.
Già Platone nel Protagora scrive che le persone bene educate non fanno e non ascoltano musica mentre si mangia.
In questo dialogo Socrate indica delle regole per i simposi della gente educata che non può rumoreggiare a tavola, e, anzi, non sopporta qualsiasi elemento ostacoli la conversazione.
Le persone mediocri e volgari, per incapacità di parlare tra loro durante i simposi, a causa della mancanza di educazione, si intrattengono a vicenda attraverso la voce dei flauti; invece tra i convitati colti e per bene, non vedi né suonatrici di flauto, né danzatrici, né citariste, ma trovi che essi  sono capaci di conversare tra loro senza queste sciocchezze e questi giochi (" ajlla; aujtou;" auJtoi'" iJkanou;" o[nta" sunei'nai a[neu tw'n lhvrwn te kai; paidiw'n touvtwn", 347d)  e parlano e si ascoltano a turno ordinatamente, anche se bevono molto vino.

Boccaccio: “Continuarono i canti e le danze finché tempo parve alla reina d’andare a dormire, e vi andarono tutti, li tre giovani alle lor camere, da quelle delle donne separate.
Oh gran virtù delle ragazze antiche, di buona famiglia!
Le ragazze sono grandi proprietarie terriere; i ragazzi hanno un famiglio a testa.  Le camere erano con i letti ben fatti e di fiori piene come la sala.
Intorno alla nona (le 15 n.d.r) la reina fece levare tutti affermando esser nocivo il troppo dormire il giorno, e cos’ andarono in un pratello nel quale l’erba era verde e grande ed era ombreggiato e rinfrescato da un soave venticello.
La regina allora propose di arrivare al vespro, al tramonto, novellando piuttosto che giocando. Le donne parimenti e gli uomini tutti lodarono il novellare.”
Il pieno sole che illumina il paesaggio fa pensare all’antico teatro all’aperto
La regina lasciò liberi gli argomenti della giornata e Panfilo cominciò con la novella di Ser Cepparello.
La cornice vuole rappresentare una vita aristocratica.  I modi dei giovani sono signorili, e anche il loro aspetto non è ordinario.

La facies aristocratica Boccaccio e Proust
Fiammetta, una delle sette, ha gli occhi simili a quelli di un “falcon pellegrino” e labbra di rubino.
Proust nei Guermantes scrive:"il naso a becco di falco e gli occhi penetranti" sono "caratteristici...di quella razza rimasta così speciale in mezzo a un mondo in cui non si è confusa e resta isolata, nella sua gloria divinamente ornitologica: perché essa sembra nata, in un'età favolosa, dall'unione d'una dea con un uccello"(p. 82). Quindi l'autore descrive gli atti di questi nobili per mostrare  quanto essi fossero naturali, eppure  "graziosi come il volo d'una rondine o l'inclinazione della rosa sul suo stelo" (p. 475).
Il gusto dell’amabile conversare è segno di curialitas, di misura cortese.
La gamma è molto vasta. C’è una multiforme varietà di vita
I racconti spaziano dalla virtù sublime alla criminosa beffa, dalla misura aristocratica al lezzo dei bassifondi.
Nell’ultima giornata si esaltano la liberalità, la magnanimità, la virtù.
 E’ presente il filone orientale delle Mille e una notte diffuso in Itala attraverso la mediazione francese.
A noi interessa particolarmente la presenza di  Apuleio,  l’autore prediletto da Boccaccio in gioventù.

Giovanni Ghiselli
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[1] Carlo Muscetta, Giovanni Boccaccia e i novelliri, in Storia della Letteratura italiana, Il Trecento, Garzanti, Milano, 1987-2 (1, 1965), p. 380.
[2] C. Muscetta, op. cit.p. 380
[3] Lucrezio racconta la peste di Atene del 430  nell’ultimo libro del suo poema  (VI del  De rerum natura). Poi c’è la peste di Milano nel romanzo di Manzoni, c’è quella di Camus, e ce ne sono altre, ma non mi sembra il caso di riferirle tutte.
[4] Riprese da Stazio nella Tebaide dove Giove sdegnato condanna tutta la stirpe dei Labdacidi e in particolare Edipo: "Scandere quin etiam thalamos hic impius  heres / patris et inmeritae gremium incestare parentis / appetiit, proprios (monstrum!) revolutus in ortus" (vv. 233-235),  questo empio discendente ha bramato salire sul letto del padre e insozzare il grembo della madre incolpevole, rotolato indietro (orrore) nel grembo materno. L'esecrazione viene ribadita più avanti dall'ombra di Laio: il re assassinato si scaglia contro il figlio: "Qui laeto fodit ense patrem, qui semet in ortus / vertit et indignae regerit  sua pignora matri" (Tebaide, IV, 631-632), il quale con spada superba trapassò il padre, e tornò indietro alla sua nascita e rimanda il suo seme sulla madre riempiendola di obbrobrio.
[5] Il mestiere di vivere, 22 gennaio 1938.
[6] La Sfinge.
[7] La tragedia, cui attribuisco una dtazione bassa, è ambientata a Tebe, la città nemica di Atene, l’anticittà.
[8] Galeno di Pergamo. 120-200 d. C. Medico di Marco Aurelio e di Comodo.
[9] Muscetta, Op. cit., p. 383.
[10] Muscetta, Op. cit., p. 383.
[11] R. Musil (1880-1942), L'uomo senza qualità , p. 269.
[12] R. Musil, L'uomo senza qualità , pp. 83- 84.

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