mercoledì 14 agosto 2013

"Atti mancati" parte seconda




II parte della conferenza che terrò il 28 agosto alle 21 nella libreria della Festa provinciale dell’Unità di Bologna.
Presenterò il libro Atti mancati di Matteo Marchesini, Voland, Roma 2012
La prima parte è già presente nel blog in questa pagina.
VI capitolo di Atti mancati (pp. 37-52)
In questo capitolo Marco e Lucia si danno appuntamenti e si incontrano nei punti cruciali del loro passato.
Lucia in tali incroci però non cerca tanto i luoghi quanto il tempo: “Non mi manca un luogo, mi manca il tempo” (p. 39).
Infatti, quando si torna nei posti dove siamo stati felici per ritrovarci qualcosa di allora, restiamo sempre delusi.
Lo ha scritto in più di una poesia Cesare Pavese. 
Aleggia la tristezza della sconfitta. Il romanzo, dice Molinari, è “una palude” (p. 40). A lei “mancano dei veri punti d’appoggio bolognesi”, sebbene Bologna “dopo tutto” resti la sua città (p. 41).
Marco ha dei dubbi sulla salute di Lucia, per misteriose reticenze delle amiche di lei, e per un segno invece chiaro, poiché le parole possono non dire, ma il corpo parla: “Solo adesso mi accorgo di quanto sono diventate magre quelle sue gambe una volta così infantilmente tornite” (p. 43).
Poi un brutto segno ancora più forte : Lucia vomita e sviene (p. 44).
Marco “orribile a dirsi” vorrebbe disfarsene (p. 44) affidandola magari a un’amica.
Mi viene ancora in mente Pavese.
Parla Giasone a una giovane ierodula del tempio sull'Acrocorinto:"Piccola Mèlita, tu sei del tempio. E non sapete che nel tempio-nel vostro- l'uomo sale per essere dio almeno un giorno, almeno un'ora, per giacere con voi come foste la dea? Sempre l'uomo pretende di giacere con lei-poi s'accorge che aveva a che fare con carne mortale, con la povera donna che voi siete e che son tutte. E allora infuria-cerca altrove di essere dio"[1].
E’ vero, a un certo punto ci accorgiamo che la loro carne, seppure diversa, è comunque mortale, e allora si scappa, si cerca altra carne, magari più giovane e circonfusa da un’aureola magica, che rinnovi l’illusione dell’immortalità.
Ma nessuna amica passa e Marco porta Lucia nella loro “ex casa” in via Castiglione “circonfusa dalla sua solita atmosfera torpida e curiale” (p. 45). Molto ben detto. Un’atmosfera da funerale.
Nella loro ex casa ci sono “oggetti chiave”, come l’amaca che Lucia aveva portato da un viaggio nel Pernambuco (p. 45). Dov’è? Francamente, non lo so.
“La leggendaria incuria” di Marco però non ha dato a quest’oggetto simbolo la sistemazione e la cornice adeguata per il suo rifiuto “di personalizzare gli ambienti”, conseguenza di una cronica precarietà, fattuale e mentale.
Lucia vuole parlare del passato, del loro amico Ernesto morto, del romanzo che aveva abbozzato; Marco invece vuole prima di tutto spiegazioni sull’abbandono subito. Ma i due ancora una volta non parlano. Lucia va in bagno e sviene. Marco la vede mal ridotta, piena di orrende ferite chirurgiche, povere bocche tutt’altro che mute. Le ferite parlano chiaro e “l’idea platonica di Lucia” conservata per anni “va di colpo in pezzi” (p. 48). C’è una cicatrice che “le sfigura il pube completamente glabro” (49) e arriva “quasi fino all’ombelico”.
Allora “nella mia mente i pezzi vanno orribilmente a posto”.
Paradossalmente sono i pezzi fuori posto del corpo di lei, ferito proprio nella femminilità e nella maternità, a mettere insieme i pezzi della mente di lui.
Insomma gli indizi precedenti si strutturano nel segno evidente del cancro di lei. Un cancro all’utero. Ma Lucia gli fa: “sta’ tranquillo”.
Il corpo di lei però significa lo svuotamento e la negazione della vita: “questo corpo di donna magro, bianco, che sembra il rovescio concavo della ragazza di cinque anni fa” (p. 50)
Lucia cerca di minimizzare ma non può negare la sicura “sterilità”. Del resto già prima aveva poche probabilità per il precedente scoppio dell’ovaia. La sterilità è anche fisica. I due fanno l’amore. Lei lo fa “con una specie di disperata efficienza” che dovrebbe coprire l’inefficienza delle parole (p. 51). Una mossa azzeccata, tanto che Marco ne viene Marco.
Nel tempo passato invece lo eccitava piuttosto la docilità di lei che nell’amore abbandonava qualsiasi atteggiamento agonistico: eros altrimenti si associava a eris. Dopo, lui si addormenta e quando si sveglia trova un biglietto di Lucia con la proposta di un giro “nella Bassa verso Persiceto, e magari alla trattoria Bonasoni, dove siamo stati tante volte negli anni dell’Università e della nostra storia”
Un pellegrinaggio a luoghi delle occasioni passate e perdute.

Capitolo VII (pp. 53-60)
Marco ripensa a quel “sesso fuori tempo, assurdamente volontaristico” (p. 53), a quell’ “evitare coi gesti le parole” e gli torna in mente “il pensiero magico” per cui l’assai meno grave scoppio dell’ovaia poteva essere stata una reazione estrema dell’organismo di lei per catturare lui.
A volte il corpo pensa delle cose che la mente non pensa.
Ora gli viene in mente che il gravissimo male di Lucia possa rappresentare un pericolo anche per lui “Quasi che fosse un mezzo per richiamare alla realtà la mia irrealtà, per inchiodare all’esperienza più viscerale la mia tetragona, cocciuta scelta d’inesperienza”.
C’è infatti un lato della carne che è rivolto verso lo spirito e un lato dello spirito che è riverso sulla carne. Lucia porta sul corpo tutto il suo accumulo negativo di errori, di omissioni, di frustrazioni e Marco teme un esito del genere per sé. Nel rimestare di Lucia “c’è qualcosa di teatrale” pensa Marco (p. 54). Credo che in tutti noi, da Alessandro Magno ad Achille a Tersite, ci sia qualcosa di teatrale perché vogliamo tutti farci vedere, rappresentarci, mitizzarci, talora perfino pariodarci.
Ora lei vuole anche “imporre l’agenda degli incontri e dei relativi intervalli, dei gesti e dei temi di conversazione” (p. 55). E’ l’egoismo e la prepotenza dei malati. E’ anche il tornaconto della malattia.
Ma chi sono, cosa sono i malati?

Sentiamo T. Mann.
“La malattia porta con sé minorazioni sensorie, deficienze, narcosi provvidenziali, misure di adattamento e di alleggerimento spirituali e morali della natura, che il sano ingenuamente dimentica di mettere in conto. L’esempio migliore era tutta quella marmaglia di malati di petto con la loro leggerezza, la loro stupidaggine, il loro leggero libertinaggio, e la mancanza di buona volontà per raggiungere la salute”[2].
La teoria della inumanità della malattia esposta dall’umanista Settembrini, convince Hans Castorp: “Giovanni Castorp trovò la cosa bellissima , interessante, e disse al signor Settembrini che la sua teoria plastica lo aveva completamente conquistato. Poiché, si dicesse pure quello che si voleva-e qualcosa si poteva pur dire; per esempio: che la malattia era uno stato vitale accentuato, ed aveva quindi in sé qualcosa di festivo, di solenne-si dicesse dunque pure quello che si voleva, fatto sta che la malattia significava una superaccentuazione dell’elemento corporeo; essa additava, per così dire, all’uomo il suo corpo e lo riconduceva, lo respingeva ad esso, pregiudicando la dignità umana fino al suo annientamento, appunto perché abbassava l’uomo fino a diventare soltanto corpo. La malattia era dunque inumana”.
Il gesuita naturalmente ribatte e confuta questa teoria: “Naphta replicò dicendo che la malattia era invece altamente umana; poiché essere uomo significa essere malato”[3].

Leopardi
Il malato, l’infelice, l’insicuro è più egoista del sano, felice, sicuro: “Io, inclinato all’egoismo, perché debole e infermo, sono mille volte più egoista l’inverno che la buona stagione, nella malattia, che nella buona salute, e nella confidenza dell’avvenire; più aperto alla compassione, e facile ad interessarmi per gli altri, e prendere il loro soccorso quando qualche successo mi ha fatto confidente di me medesimo, o lieto, che quando avvilito, o melanconico” (Zibaldone).

Infine Nietzsche: “Quando uno pensa molto e intelligentemente, non solo il suo volto, ma anche il suo corpo acquista un aspetto intelligente”[4].
Quando uno pensa male, il suo corpo sta male.
Non si deve sottovalutare mai sottovalutare il linguaggio del corpo: “il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non dice ‘io’, ma fa ‘io’”[5]

Lucia continua a vivere con una maschera, la vita per lei è una partita a scacchi: mette “in atto con perentorietà una tattica da gnorri”, quella che una volta era “connessa alla completa metamorfosi subita dal suo comportamento quando passava dall’intimità della casa al galateo dell’aria aperta”(p. 55).
Una metamorfosi assai nociva per la salute. Non essere se stesso fa molto male alla salute. Mi stupisco che i medici non ne mettano in guardia i pazienti.
Marco guarda vecchie foto di Lucia e riflette sul male che l’ha devastata, sulla loro amicizia con Ernesto, sul romanzo di Ernesto che per molte pagine “di mirabolante furore barocco” (p. 57) dichiarava, attraverso l’io narrante il suo odio per il fratello pazzo, o simulatore di pazzia come l’Enrico IV di Pirandello. L’odio fraterno è piuttosto un tema da tragedia greca o senecana.
Un ispiratore dei due personaggi era lo stesso Marco. La figura del fratello gli somigliava “nella sua astuta e malata scelta d’inesperienza” (p. 58)
Quell’incipit di narrativa gli sembra “un ircocervo formale; quasi un mostro generato insieme da Ernesto e dalla parte di me che non riesce a confessarsi” (p. 59). Marco beve molte Menabree, francamente non so cosa sono, e rimugina pensieri più o meno sconclusionati. Cerca “per quanto poco nicciani si sia” (p. 59) di giungere all’accettazione, anzi al “proprio sì di elogio al fatto compiuto”, all’amor fati. Questo è un segno di maturità o di resa, secondo il punto di vista.
E allora sentiamo d nuovo Nietzsche: “La mia formula per la grandezza dell’uomo è amor fati: non voler nulla di diverso, né dietro, né davanti a sé, per tutta l’eternità. Non solo sopportare, e tanto meno dissimulare, il necessario-tutto l’idealismo è una continua menzogna di fronte al necessario-ma amarlo…”[6].
“Ma in fondo, proprio “in fondo” a noi stessi c’è sicuramente qualcosa che non si può insegnare, un Fatum spirituale granitico…ciò che “in fondo a noi” non è insegnabile[7].
“Il necessario non mi ferisce; amor fati è la mia intima natura, das ist meine innerste Natur[8].

La Necessità.
L’amore o almeno l’accettazione del fato è preceduta dalla presa di coscienza della Necessità.
Questa è una divinità non placabile nella tragedia greca.
Nell'Agamennone di Eschilo dove Clitennestra dice:"to; mevllon h{xei" (v. 1240), il futuro verrà[9].
Secondo Eschilo anzi alla parte (Moira ) assegnata dal destino nemmeno Zeus può sfuggire ( Prometeo incatenato, 518).
Prometeo, il sedicente benefattore tecnologico sa che la necessità è più forte delle sue tevcnai, del suo sapere pratico: tevcnh d j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/ ” (Prometeo incatenato, v. 514):, la conoscenza pratica è molto più debole della necessità.

Il potere assoluto dell' jjjjAnavgkh viene apertamente affermato da Euripide nell'Alcesti. Nel terzo Stasimo della tragedia più antica ( è del 438) tra le diciassette a noi pervenute, il Coro eleva un inno alla Necessità vista come la divinità massima, quella che vincola e subordina tutti, compresi gli dèi:
"Io attraverso le muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi ragionamenti (pleivstwn aJyavmeno" lovgwn),/ma non ho trovato niente più forte/della Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde;n jAnavgka"-hu|ron oujdev ti favrmakon)/nelle tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti farmaci/diede agli Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali afflitti dalle malattie"(vv. 962-972). Da questi versi si vede che la Necessità è più forte del lovgo" , della poesia, dell'arte medica. Se confrontiamo le due tragedie possiamo affermare che la Necessità ha una potenza confrontabile solo con lo qumov".
“For Euripides, Man is the slave, not the favourite child, of the gods;[10] and the name of the ‘ageless order’ is Necessity. krei'sson oujde;n jAnavgka"-hu|ron, cry the Chorus in the Alcestis[11].[12], per Euripide l’Uomo è lo schiavo, non il figlio favorito degli dèi; e il nome di ordine eterno è Necessità, niente ho trovato più forte della Necessità, grida il Coro dell’Alcesti.
Platone, della generazione successiva a quella di Euripide, sostiene che l'asse dell'Universo è il fuso di Ananche (616c) il quale si volge sulle ginocchia (617b) di lei, madre delle Moire : Cloto, Atropo e Lachesi che distribuisce le parti la cui scelta del resto è relativamente libera.
Altrettanto nella Medea della Wolf:"Ciò che deve accadere, è deciso da tempo senza di noi" (p.171).

VIII capitolo pp. 61-73
I due si incontrano in via Castiglione per andare nella Bassa, ma Lucia propone di andare oiuttosto a trovare Davide, il fratello matto di Ernesto. Si trova a Villa Baruzziana, una casa di cura, di fatto un manicomio. Prendono via dell’Osservanza dove 5 anni prima Ernesto si è schiantato con la macchina in un incidente. Alcuni squilibrati si muovono “sul bellissimo velluto del prato, simili a pedine di un gioco misterioso” (p. 64).
Un gioco comunque truccato, truccato da forze miteriose.
In un frammento (895) di Sofocle leggiamo: “ajei; ga;r eu\ pivptousin oiJ Dio;~ kuvboi”, i dadi di Zeus cadono sempre bene, ossia sono truccati.
Appare Davide che ha assunto l’aspetto e gli atteggiamenti di Ernesto.
“sembra un attore compiaciuto dall’effetto prodotto dalla sua recita” (p. 65). I pazzi forse sono giudicati tali perché recitano male. Infatti recitiamo tutti, sempre, come Pisistrato quando si ferì da solo
Ce lo racconta Plutarco nella Vita di Solone. Il feritore di se stesso è il futuro tiranno di Atene, un personaggio del resto non del tutto negativo, “seducente e amabile nel conversare, uno che soccorreva i poveri ed era umano e moderato nei confronti degli avversari (29, 3). Ebbene questo capo politico “feritosi da solo, si fece portare su un carro nell’agorà dove istigava il popolo dicendo di essere stato vittima di un attentato a causa della sua posizione politica. Allora molti si associavano al suo sdegno e rumoreggiavano. Invece Solone, che aveva confidenza con lui, gli disse: “Fai male a recitare la parte dell’Odisseo di Omero: lui infatti si ferì per ingannare i nemici, tu invece fai lo stesso per trarre in inganno i tuoi concittadini” (30, 1). Entrambi comunque recitavano, come recita Davide e pure Lucia e anche Marco.
Davide saluta i due conoscenti con il tono leggermente adulatorio che si usa nella Bologna bene: “tu sei il famoso Molinari. Ti leggo sai” (p. 65). Cos’ si dice a chi ha fama di scrittore. Il più delle volte mentendo. Le parole sono dette non senza una cantilena.
Marco riconosce in Davide anche qualche cosa di se stesso. Entrambi hanno cercato “alibi per non vivere nel mondo” (p. 66).
Davide li porta a vedere la sua stanza “al tempo stesso lussuosa e monacale” (p. 66).
Lucia gli chiede “studi?” con un tono “insopportabilmente affettato” (p. 66). L’affettazione evidente è il segno del malessere, e pure della cattiva educazione di questa gente che appare, vuole apparire ben educata.
L’affettazione evidente del resto equivale a recitare male.


L’affettazione (è già presente in una nota della prima parte. La ripeto qui in piena pagina con qualche aggiunta).
Infatti, scrive Castiglione "somma disgrazia a tutte le cose dà sempre la pestifera affettazione e per contrario grazia estrema la simplicità e la sprezzatura" Quindi la gentildonna non deve mostrare l'artificio :"questi vostri difetti di che io parlo vi levano la grazia, perché d'altro non nascono che da affettazione, per la qual fate conoscere ad ognuno scopertamente il troppo desiderio d'esser belle" (I, 40).
Leopardi trova grande saggezza e verità in queste parole: “Grazia del contrasto. Conte Baldessar Castiglione, il libro del Cortegiano…Ma avendo io già più volte pensato meco, onde nasca questa grazia, lasciando quegli che dalle stelle l’hanno, trovo una regola universalissima; la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane, che si facciano, o dicano, più che alcun altra; e ciò è fuggir quanto più si può, e come un asperissimo e pericoloso scoglio la affettazione; e, per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa, e dice, venir fatto senza fatica, e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia” (Zibaldone, 2682).
Anche A. Schopenhauer[13] negli Aforismi sulla saggezza della vita prescrive di evitare l'affettazione:"Si deve...mettere in guardia di fronte a qualsiasi affettazione. Questa provoca in ogni caso il disprezzo, in primo luogo perché è un inganno...in secondo luogo perché rappresenta un giudizio di condanna pronunciato da una persona su se stessa, volendo essa in tal caso apparire ciò che non è, e mostrarsi di conseguenza come migliore di quanto essa sia. L'affettazione di una qualità e il pavoneggiarsi con questa costituiscono una confessione spontanea della sua mancanza. Se uno si fa bello di un qualche pregio, sia poi esso coraggio, erudizione, spirito, arguzia, fortuna presso le donne, ricchezza, posizione elevata, o qualunque altra cosa, si può dedurre da ciò che a lui manca qualcosa proprio in ciò di cui si vanta: a chi infatti possiede realmente in modo completo una qualità, non verrà mai in mente di metterla in mostra e di affettarla, e se ne starà ben tranquillo a questo proposito"[14].
Il conte Alessandro Manzoni conosce le regole dello stile aristocratico e non omette di biasimare l’affettazione. Nell'Introduzione a I promessi sposi squalifica lo stile del "buon secentista" definendolo "rozzo insieme e affettato...Ecco qui: declamazioni ampollose, composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch'è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo paese". Quindi la decisione di "rifarne la dicitura".
Sentiamo di nuovo Leopardi a proposito dell’affettazione nello scrivere: “l’affettazione è la peste d’ogni bellezza e d’ogni bontà, perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza (28. Feb. 1821)[15].
Anche Dostoevskij in I fratelli Karamazov considera l'affettazione segno di cattiva educazione: Alioscia sebbene affascinato da Gruscenka" si domandava con un'oscura sensazione sgradevole e quasi con commiserazione perché ella strascicasse le parole a quel modo e non parlasse in tono naturale. Evidentemente, lo faceva perché trovava bella quella pronuncia strascicata e quella sdolcinata e forzata attenuazione delle sillabe e dei suoni. Certo, non era che una cattiva abitudine di dubbio gusto, la quale testimoniava un'educazione volgare e una volgare comprensione, acquisita sin dall'infanzia, delle convenienze e del decoro"[16].

Davide rivolge qualche rimprovero a Ernesto e a tutta la sua famiglia: “dove loro vedevano opportunità io vedevo ostacoli: e la mia vocazione è appianarli, è ridurre tutto all’essenziale” (p. 67). E’ in fondo la vocazione del genio. Ma poi prende il sopravvento il pazzo: ripete la parola “essenziale” come un tic.
Quindi si dichiara inferiore a Ernesto “con un narcisismo rovesciato” (p.68). Una bella espressione che utilizzerò.
Lucia dà una interessante definizione di scienze politiche: “una versione fancazzista di economia o giurisprudenza” (p. 68).
Davide “sembra un Ernesto manovrato da uno Ionesco occulto” (p. 69). Poi però “si affloscia sulla sedia come una marionetta cui abbiano tagliato i fili” (p. 70). Oramai è scarico. In fondo tutti noi funzioniamo finché abbiamo una carica. Siamo tutti caricati e ricaricati giornalmente da qualche cosa: alcol, sesso, i momenti dionisiaci, coribantici della vita o il cibo del sileno “di carni pieno” il sonno, lo studio. Secondo.
Davide ripete che deve andare a studiare. Studiare e svagarsi, ripetute prima con accento autoparodico, poi “in una spirale verbale sempre più ripida” (p. 72). Infine ripiomba in se stesso, come Edipo nella madre.
Poi “le medicine sono fondamentali” deve prenderle. Questo è rimasto l’essenziale. In chiusura di capitolo li saluta stringendo loro le mani “con una flemma cordiale, quasi distante, che fa pensare al perfetto aplomb di un diplomatico” (p. 73). Lucia e Davide sono rappresentanti di una società falsa, sepolcrale, morente. Molinari deve staccarsene.

Giovanni Ghiselli, 13 agosto





[1] Dialoghi con Leucò, Gli Argonauti .
[2] T. Mann, La montagna incantata, II, p. 119. 
[3] T. Mann, La montagna incantata, II, p. 134. 
[4] Umano, troppo umano, I, 543. 
[5] Così parlò Zarathustra, Dei dispregiatori del corpo. 
[6] Ecce homo, perché sono cos’ accorto, p. 38 
[7] Di là dal bene e dal male, Le nostre virtù. 
[8] F. Nietzsche, Ecce homo, Il caso Wagner, p. 92. 
[9] Altrettanto nella Medea della Wolf: "Ciò che deve accadere, è deciso da tempo senza di noi" (p.171). 
[10] Or. 418.Oreste riconosce l’oggettiva sottomissione degli uomini a potenze che li sovrastano: "Noi siamo asserviti agli dèi, qualsiasi cosa siano mai gli dèi" (v. 418). Una dichiarazione di malinconica impotenza che ritroviamo accentuata ed esasperata nel Re Lear : "As flies to wanton boys are we to the gods. They kill us for their sport"(IV, I), come mosche per ragazzi capricciosi siamo noi per gli dèi: ci ammazzano per loro passatempo. Ndr 
[11] 965; cf. Hel. 513 f., and the repeated insistence that Man is subject to the same cycle of physical necessity as Nature, frags. 330, 415, 757. Cfr. Elena 513 ss. e la ripetuta insistenza che l’Uomo è soggetto al medesimo ciclo della necessità fisica, come Natura, frammenti 330, 415, 757. 
[12] Dodds, The ancient concept of progress, p. 85. 
[13] 1788-1860. 
[14] A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena , trad. it. Adelphi, Milano, 1973, Tomo I, p 617. 
[15] Zibaldone 705. 
[16] I fratelli Karamazov, (1880), Trad. it. Milano, 1968, p. 208.

1 commento:

Ifigenia CLXIX Lo specchio delle mie brame. Ben detto, vecchia talpa!

  Tornammo dentro. Tutto intorno   una folla di chiassosi, agitati o indifferenti. “ E’ tornata dell’orda primordiale” pensai. Andai...