martedì 29 ottobre 2013

Donne e maghe. Calipso la mite. Medea la furente. Ecate e le streghe del Macbeth

George Romney, Lady Hamilton as Medea
.
Terza parte della conferenza che terrò venerdì  22 novembre 2013 nella Mediateca di San Lazzaro di Savena.

Il tema è la donna, non poche volte esposta e soggetta a violenza.

L’orario è ancora da definire.

Calipso la mite. Medea la furente e i suoi favrmaka. Ecate e le streghe del Macbeth. Erichto effera
Abbiamo detto che Calipso prende il rifiuto di Odisseo assai meno male e soprattutto in modo molto meno deleterio di quanto faccia la  Medea di Euripide abbandonata da Giasone.
L’allieva di Ecate, la donna esperta di favrmaka[1],  afferma la naturalezza e, quindi la legittimità della sua furia distruttiva di femmina umana offesa nel letto (ej" eujnh;n hjdikhmevnh, Euripde, Medea, v. 265), un oltraggio  che la indurrà a uccidere i figli avuti dall'ex amante suscitandone l'orrore .
Giasone  la apostrofa chiamandola leonessa, non donna, con l'indole più feroce della Tirrenia Scilla: "levainan, ouj gunai'ka, th'" Turshnivdo"-Skuvllh" e[cousan ajgriwtevran fuvsin" (vv. 1342-1343). Costei è un mostro, una satanessa o pitonessa primordiale, con sei teste da fare spavento e tre file di denti in ogni bocca con i quali ghermisce sei compagni di Ulisse (Odissea, XII, vv. 85 e sgg.)

Medea è una maga nipote del Sole, una creatura in parte soprannaturale, ma, come Euripide, anche Seneca  trae dal suo comportamento una legge valida pure per le femmine umane: "Nulla vis flammae tumidique venti/tanta, nec teli metuenda torti,/quanta, cum coniux viduata taedis/ardet et odit" (Medea , vv. 580-583), non c'è forza di fiamma e di vento impetuoso tanto violenta, e non è così tremenda quella di un dardo scagliato, quanto allorché brucia e odia una moglie privata dell'amore.
Seneca, con il suo gusto del macabro, mette in rilievo lo speciale talento della donna nel preparare intrugli malefici mescolando un  elementi diversi in un guazzabuglio infernale.   
La nutrice di Medea racconta come la nipote del Sole sia solita preparare i veleni: "Mortifera carpit gramina ac serpentium/saniem exprĭmit miscetque et obscenas aves/maestique cor bubonis et raucae strigis/exsecta vivae viscera… Addit venenis verba non illis minus/metuenda. Sonuit ecce vesano gradu/canitque. Mundus vocibus primis tremit" (Medea, vv. 731-734 e 737-740), sminuzza le erbe micidiali e spreme la bava dei serpenti e mescola anche uccelli di cattivo augurio e il cuore di un lugubre gufo e le viscere strappate da stridula strige ancora viva… Ai veleni aggiunge parole non meno tremende di quelle. Eccola che ha fatto risuonare il suo passo furioso e canta. Il mondo trema solo a udirne la voce. 
"In verità è difficile leggere il resoconto dei preparativi di Medea (670-739) senza riandare con la mente agli incantesimi del Macbeth"[2].
Si tratta della prima scena del quarto atto della tragedia di Shakespeare. Le streghe mettono vari ingredienti in una caldaia bollente. Vediamone alcuni: filetto di una biscia di pantano (Fillet of a fenny snake), pelo di pipistrello e lingua di cane (wool of bat, and tongue of dog), zampa di lucertola e ala d’allocco (lizard’s leg, and howlet’s wing), fegato di giudeo bestemmiatore (liver of blaspheming jew), dita di un bambino strangolato al suo nascere, appena messo al mondo in una fossa da una sgualdrina (finger of birth-strangled babe-ditch-delivered by a drab), viscere di una tigre (a tiger’s chaudron), tutto da raffreddare con il sangue di un babbuino (with a baboon’s blood).
Il tragico e il macabro qui,  a dire il vero, confinano con il comico.
Anche le streghe del Macbeth sono seguaci di Ecate che  si rivolge loro, alle fatali donne, fatali sorelle (the weird women, the weird sisters,) rimproverandole di non averla consultata, dato il suo ruolo: "And I, the mistress of your charms,/the close contriver of all harms,/was never called to bear my part,/or show the glory of our art?" (III, 5), e io, la signora dei vostri incantesimi, la segreta progettatrice di tutti i mali, non sono mai stata chiamata a fare la mia parte, o a mostrare la gloria dell'arte nostra?  

Torniamo alla furibonda creatura di Seneca, una vera e propria incarnazione del furor. La mano insanguinata di Medea intreccia per Ecate le scorie di molti crimini e diversi mostri del mito: le membra del gigante Tifeo schiacciato dall'Etna, il sangue di Nesso, le ceneri tolte al rogo dell'Eta che evocano la figura di Deianira ossessionata dai mostri[3], e altra spazzatura criminale[4] (Medea, vv. 782ss.).
Infine Ecate, la dea triforme [5] invocata già nella preghiera nera iniziale[6], voce non faustā (v. 12),  appare a Medea quale luna, una luna orrida: "Video Triviae currus agiles,/non quos pleno lucida vultu/pernox agitat, sed quos facie/lurida maesta, cum Thessalicis/vexata minis caelum freno/propiore legit" (vv.787-792), vedo il carro veloce di Trivia, non quello che guida luminosa attraverso la notte nel plenilunio, ma quello che conduce con aspetto squallido, triste, quando travagliata dalle minacce delle maghe tessale costeggia il cielo con morso più stretto.
Le maghe tessale sono colleghe di Medea in stregonerie: la più famosa è Erictho: secondo Lucano aveva rinunciato alle cerimonie criminali della scellerata gente di Tessaglia, troppo pii per lei, e aveva portato a nuovi riti l'arte depravata ("inque novos ritus pollutam duxerat artem" Pharsalia, VI, 509).
Questa strega era  congiurata con il Caos "innumeros avidum confundere mundos" (v. 696), avido di confondere innumerevoli mondi.
Favorita dagli dèi dell’Erebo, costei occupava i sepolcri dopo averne scacciato i morti.

Calipso diversamente da  queste donne furenti è assai moderata, poiché, quando riceve la notizia che deve lasciar partire l'amante scontento, si limita a rabbrividire ("rJivghsen", Odissea, V, 116) e ad accusare gli dèi, ma senza dare in escandescenze; anzi, nei confronti di Odisseo, cui non piaceva più[7] (v. 153), è benefica e generosa.
I favrmaka di Elena
Nel IV canto dell’Odissea, Telemaco e Pisistrato, figlio di Nestore, partiti da Pilo, arrivano a Sparta.

Breve digressione
Confronto tra il cocchio tirato da due cavalli e la bicicletta spinta da gambe di donne e di uomini.
Il viaggio da Pilo a Fere e da Fere (l'odierna Calamata) a Sparta (III libro dell’Odissea ).
Dopo il banchetto a Pilo, Telemaco e  Pisistrato salirono sul cocchio preparato dai fratelli e fornito di cibo dalle ancelle. Il Nestorìde guidava i cavalli  che volavano verso la pianura lasciando l'alta rocca di Nestore. Al tramonto del sole giunsero a Fere (Odissea, III, 488), l'odierna Calamata, posta a circa metà strada tra Pilo e Sparta. La mattina seguente ripartirono, all’alba, e al tramonto giunsero a Lacedemone.
Ho notato questo particolare poiché il percorso Sparta-Calamata e pure Calamata-Sparta l'ho fatto in bicicletta, in meno di una giornata, e in compagnia di altre persone, donne comprese, anche loro in bicicletta, e passando per il Taigeto. Perciò il velocipede può sostituire degnamente cocchio e cavalli senza allungare i tempi del viaggio e senza togliere niente al contatto con la natura, anzi aggiungendo una bella dose di impiego della fisicità la quale viene potenziata mentre si smaltiscono banchetti che impinguano i sedentari obesi. A Fere-Calamata i due ragazzi antichi andarono a dormire da un ospite (noi ci dovemmo accontentare di un alberghetto da pochi soldi) e ripartirono all'alba.
da sinistra: io, Alessandro, Fulvio
e Maddalena sui monti greci
I cavalli di nuovo volavano volentieri e giunsero alla pianura ricca di messi. Omero non menziona il Taigeto, che, soprattutto da quella parte, la parte del mare, è un osso duro anche perché la strada prima sale rapidamente, poi scende precipitosamente, poi sale di nuovo poi scende ancora. Comunque i due ragazzi antichi ci misero più tempo del mio gruppetto di ciclisti[8] non tutti giovanissimi:  noi ci muovemmo alle dieci di mattina e giungemmo a metà pomeriggio, in piena luce, mentre Telemaco e Pisistrato, partiti all'alba, arrivarono quando "duvsetov t j hjevlio" skiovwntov te pa'sai ajguiai" (v. 497), il sole si immerse e si oscuravano tutte le vie. 

Ma torniamo alla Sparta di Elena e Menelao
Siamo all’inizio del IV canto dell’Odissea.
Nel palazzo  dell’Atride c’è un banchetto di nozze con i convitati allietati (terpovmenoi) dall’aedo, divino cantore (qei`o~ ajoidov~, v. 17). C’erano anche due acrobati che roteavano in mezzo (ejdivneuon kata; mevssou~, v. 19).
Telemaco e Pisistrato, appena giunti vengono, annunciati  quali “stranieri” e Menelao ordina che siano accolti subito, come capitava a lui quando era un errante sulla lunga e difficile via del ritorno. 
Quindi il figlio di Odisseo e quello di Nestore vengono fatti lavare, e condotti a tavola perché si ristorino; solo quando si saranno  saziati, i due ospiti  dovranno dire chi sono. Intanto l’Atride racconta che  aveva vagato per otto anni prima di raggiungere Sparta. Nel suo peregrinare ha raccolto sì grandi ricchezze, ma nel frattempo ha perso diversi  compagni e amici, a partire dal fratello assassinato, e da Odisseo del quale nemmeno conosce la sorte.  Telemaco a queste parole si commuove e versa lacrime, cercando di non darlo a vedere con il rialzare il mantello purpureo davanti agli occhi.
In questo momento arriva Elena, simile ad Artemide, la dea vergine.
L’adultera, tornata a casa, si era rifatta una verginità.
La figlia di Zeus riconosce Telemaco dalla somiglianza con il padre e Pisistrato conferma l’ identità del  suo compagno di viaggio.
Il Nestoride rivela anche le difficoltà nelle quali si trova  l’amico.
Il re di Sparta risponde con parole di affetto e gratitudine per Odisseo compianto come eroe "ajnovstimon"(v. 182), senza ritorno. Quindi tutti piansero: Elena, Telemaco, Menelao e Pisistrato che ricordava il fratello Antiloco (v. 187) caduto a Troia. Poi il figlio di Nestore parlò, e pur accorato al pensiero del congiunto morto, invitò a non piangere dopo la cena[9].
Il convito deve essere qualche cosa di festivo e piacevole, altrimenti è un festino guasto e degenerato. Menelao approva la saggezza di Pisistrato nel quale si riconosce il vero figlio di Nestore. Quindi riprendono tutti a mangiare.
 A questo punto Elena getta nel vino un farmaco  quale antidoto al dolore, all'ira, e oblio di tutti i mali (vv. 220-221). L'aveva avuto in Egitto nella terra che produce farmaci, molti buoni e molti tristi mescolati ("favrmaka, polla; me;n ejsqla; memigmevna, polla; de; lugrav", v. 230).
Qui la droga non sembra  creare effetti permanenti poiché chi la prende si anestetizza per un giorno ("ejfhmevrio"", v. 223).

Teocrito e Apuleio
Quali sono allora i “farmaci” buoni?
Buoni sono i favrmaka  che Medea promette a Egeo[10]  contro la sterilità. Ma la nipote del Sole  era pure nipote e allieva   di Circe, la terribile maga esperta di "kaka; favrmak j e favrmaka luvgr j"[11] , farmachi cattivi e tristi, anche questi forieri di oblio.
Infatti Medea conosce anche “farmaci” e intrugli cattivi, molto cattivi.
Fa morire Glauce, la nuova fidanzata di Giasone e suo padre Creonte con doni avvelenati.
 Nelle Incantatrici (Farmakeuvtriai), l’Idillio II di Teocrito, Simeta  vorrebbe tenere avvinto l'uomo che la sta lasciando (v. 3). La donna abbandonata chiede l’aiuto di Ecate nel preparare favrmaka degni di Circe  di Medea e di Perimeda[12] (vv. 14 ss,).

Strega o maga del  è una denominazione non necessariamente vituperosa: "Persarum lingua magus est qui nostra sacerdos" , nella lingua dei Persiani è mago quello che nella nostra il sacerdote. Con queste parole Apuleio  si difende dall'accusa di essere un fattucchiere nel De Magia  (25). Nel romanzo dello stesso autore, del resto ci sono maghe terribili come quella ostessa anziana ma alquanto graziosa che mutò un suo amante fedifrago in un castoro "quod ea bestia captivitati metuens ab insequentibus se praecisione genitalium liberat"[13] , poiché questo animale, temendo di essere preso, si libera dagli inseguitori con il recidersi i testicoli.
Senza contare Panfile che diventa un uccello e il protagonista Lucio che, ricevuto da Fotide l’unguento sbagliato, diventa asino[14]. Siamo infatti in Tessaglia, la terra delle streghe.

Concludo con  Circe  e Odisseo
Queste donne, maghe o streghe o sacerdotesse, o addirittura mezze dèe, propinano spesso droghe le quali portano dimenticanza all'uomo che per un motivo o per l'altro non deve ricordare. Ma Odisseo il quale sa bene che, se ricordare è dolore, pure dimenticare è dolore[15], evita le droghe e costruisce la sua identità sulla pienezza della coscienza.

Sentiamo P. Citati a proposito di Circe e di altre maghe: “Questa dea che tesse e canta con grazia è figlia del Sole e di Perse: due divinità preolimpiche. Immaginiamo che la luce del sole si intrecci nella sua figura, risuoni nella sua voce[16], colmi la sua casa, come illumina il paesaggio boscoso e marino che Ulisse scorge dalla collina. Ma il Sole, nella mitologia greca, è una figura ambigua: sebbene dia luce e veda nitidamente le cose dall’alto, un rapporto segreto lo lega con tutto ciò che, nell’universo, è tenebroso, infernale, stregonesco. Inoltre, con ogni probabilità, mentre narra la storia di Circe, il “secondo Omero” ricorda un’altra figura: Ištar, la grande dea babilonese, il demone erotico, la regina delle prostitute, posseduta da una furia vendicatrice verso gli uomini che ama e trasforma in animali. Tutte le dee-streghe della letteratura occidentale discendono da Ištar e Circe: Medea e Circe in Apollonio Rodio, Circe in Ovidio, Erittone in Lucano, Armida in Tasso; con il loro dono dei filtri, l’arte di domare il fuoco, fermare l’acqua dei fiumi, incantare la luna e gli astri, spargere veleni, chiamare a raccolta gli dèi della tenebra, far svolazzare le anime dei morti, cambiare gli uomini in bestie, avviano la natura animata verso la notte e il caos. Così, fin dalla prima parola, il “secondo Omero” ci dice che Circe è una “dea terribile”[17] e che il fratello, Aiete, signore del pericolosissimo Oriente, è “funesto”[18] come un altro Titano, Atlante, padre di Calipso. Il mondo dell’ombra si apre davanti alla mente di Circe. Come Ištar, è una strega: conosce le droghe che trasformano gli uomini in animali, quelle che cambiano la natura degli animali…Senza muoversi dall’isola di Eea conosce l’Ade: la sapienza, i segreti, le rive, le selve, i fiumi, i sacrifici infernali; guida nell’Ade chi debba compiere il più pericoloso tra i viaggi. Congiungersi con lei è pericoloso, perché una parte della furia erotica di Ištar è passata nelle sue membra. Come Calipso, appartiene a un tempo antichissimo: perché dietro le amabili parole umane che noi ascoltiamo, nasconde forse la voce umana e terrificante degli dèi titanici…La dea più prossima a Circe è Calipso. Con scrupolosa attenzione, il “secondo Omero” ne elenca le somiglianze: indossano la stessa veste; sono “terribili”, “ingannatrici”, e hanno quella strana voce. Ma questo gioco di somiglianze mette in luce la differenza che le divide. Circe non vive nell’irraggiungibile centro: non concede la vita immortale. E, soprattutto, Calipso appartiene al regno del malakós, come i prati del suo giardino: dolce, morbida, umida, voluttuosa, affettuosa; mentre Circe non è morbida né possiede la parola di miele. Forse Ulisse ama la sua eleganza: fredda, distante, cristallina, senza pathos; mai sentimentale”[19].

Circe droga i compagni di Ulisse mischiando favrmak j lugrav al cibo e alla bevanda (Odissea, X, 136).
“Questa droga fa dimenticare Itaca e il ritorno: come i Lotofagi, le Sirene, Calipso (e Elena), Circe incarna la forza della dimenticanza, il veleno dell’oblio che attraversa l’Odissea, e contro il quale Ulisse lotta con la sua memoria vigilissima”[20].
Odisseo va al grande palazzo di Circe per liberare i compagni trasformati in porci dei quali ha avuto notizia da Euriloco che non si è fidato di entrare e ha visto da fuori la brutta metamorfosi dei compagni. Quando Ulisse sta per giungere, gli va incontro Ermes e gli dà un favrmakon ejsqlovn (X, 287, 292), come antidoto alla droga di Circe.
Si tratta dell’erba che gli dèi chiamano mw'lu: ha la radice nera e il fiore simile al latte (vv. 304-305).
“La pianta più famosa della farmacopea magica d’Occidente, che ha suscitato moltissime interpretazioni, pagane, cristiane ed alchemiche. Quest’erba non appartiene al mondo degli uomini: solo gli dèi la conoscono e possono strapparla dal suolo: il nome appartiene alla lingua divina e non viene trascritto, come di solito accade nei testi epici, in quella umana. Il “secondo Omero” si rifiuta di violare il segreto che l’avvolge, lasciando un velo attorno a lei. Noi possiamo soltanto immaginare che contenga in sé stessa, equamente divisi, l’elemento tenebroso della terra e di Circe (la radice nera) e l’elemento luminoso, che distingue il sole e gli dèi olimpici (il fiore bianco)”[21].   

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it
Il blog http://giovannighiselli.blogspot.it/  è arrivato a 112873


[1] Medea non dubita dell'efficacia dei suoi favrmaka, di quelli favorevoli alla vita che promette a Egeo
(
oi\da favrmaka, v. 718), e di quelli letali con i quali intende distruggere i suoi nemici (v. 385, v. 789).
Tali mezzi la maga ha usato pure per aiutare Giasone a superare le prove impostegli dal re Eeta e le insidie

del viaggio di ritorno.
[2] Bradley, La tragedia di Shakespeare, p. 418.
[3] "Deianira appartiene ancora, in qualche modo, al regno dei mostri: è stata richiesta in sposa da uno di essi (Acheloo), desiderata da un altro (Il centauro Nesso) che l'ha toccata, che si confida con lei e ne fa una sua complice. E nella lotta contro Acheloo, Eracle ha fattezze ferine. Da questo bestiario, che ha conservato in sé come orrore e come fremito, Deianira non potrà uscire". U. Albini, Interpretazioni teatrali , p. 59.
[4] Si può pensare all'uranio impoverito.
[5] "Divinità primitiva e trina (triformis ), essendo associata a divinità appartenenti ai tre regni: la luna (il cielo), Diana (la terra) e Proserpina (gli inferi)". (G. G. Biondi, op. cit., p. 91, n. 5.)
[6] Hecate triformis, v. 7
[7] E  non c’è forse offesa più grande per una donna da parte dell’uomo che le piace
[8] Era il 1984 e il sottoscritto aveva cinquant'anni meno qualche mese, Fulvio Molinari  cinquantadue già suonati, un'amica di Pesaro, Serafina in odore di stregoneria, quarantatré, e un altro pesarese, Valerio,  una quarantina. Nel tragitto inverso, compiuto in un successivo giro del Peloponneso (1996), oltre Serafina, c'erano due ex allievi di Bologna, Maddalena e Alessandro, sui venticinque anni.
[9] Il dolore dell'anima infelice infatti se coltivato troppo a lungo e fuori luogo diventa,  un piacere depravato: "Fit infelicis animi prava voluptas dolor” Seneca, Ad Marciam de consolatione, 1, 7.
[10] Medea di Euripide, v,. 718.
[11]Odissea , X, 213 e 236.
[12] Che non conosco.
[13]Metamorfosi, I, 9.
[14] La sera prima la padrona, Panfile, minacciava il sole perché non tramontava in fretta. Aveva visto un bel giovane dal barbiere e aveva chiesto a Fotide di raccoglierne i capelli ma il tonsor l’aveva cacciata. Quindi Fotide aveva raccolto dei peli biondi tosati da otri caprini. Panfile con quei peli e gli strumenti della sua feralis officina aveva infuso spirito umano in quegli otri (3, 17). La feralis officina è la solita delle streghe: pezzi di cadaveri e altri ingredienti.
[15] Cfr. Prometeo Incatenato di Eschilo: "Doloroso è per me raccontare queste cose,/ma doloroso è anche tacere, e dappertutto sono le sventure" (ajlgeina; me;n moi kai; levgein ejsti;n tavde, a[lgo" de; siga'n vv. 197-198). Due versi questi, usati come epigrafe da Giuseppe Berto per il suo Il male oscuro (1964) che racconta la terapia di una nevrosi: “Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore”. Il racconto infatti è doloroso e pure terapeutico.
[16] Nel quarto libro delle Argonautiche (vv. 727-729) Apollonio Rodio racconta della visita che Giasone e Medea fanno a Circe per  purificarsi dell’assassinio di Assirto: ebbene zia e nipote hanno qualcosa in comune nello sguardo: tutta la stirpe del sole infatti era ben riconoscibile poiché con il bagliore degli occhi lanciavano lontano come un raggio d’oro guardando di fronte. Ndr.
[17] Deinh; qeov~ aujdhvessa, terribile dea con voce umana Odissea, X, 136. Ndr.
[18] aujtokasignhvth ojloovfrono~ Aijhvtao (X, 137), sorella germana di Eèta funesto. Ndr.
[19] P. Citati, La mente colorata, pp. 182-183.
[20] P. Citati, La mente colorata, p. 183.
[21] P. Citati, La mente colorata, p. 185.

1 commento:

  1. Simbologia dell'ontano http://www.cavernacosmica.com/la-simbologia-dellontano/

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