settima parte del Percorso sull'amore nei classici
L'amore quale guerra, ferita, piaga, fiamma,
tradimento, malattia, morte, squilibrio, follia, inettitudine. La storia di
Didone e di tante altre.
La fobia dell’amore e del sesso
L’unica strofe del terzo Stasimo dell'Antigone
(vv. 781-790).
Eros si associa a Eris. Sofocle
e Anacreonte. Ennio e la ferita di Medea. Terenzio. Le accuse di Lucrezio nei
confronti della passione amorosa lacerante ( vulnus e ulcus) e l'elogio
che Agatone fa di Eros nel Simposio platonico.
Virgilio e Turno: l'amore gli
fa perdere la guerra. L'addio alle armi erotiche di Orazio. La metafora.
Properzio. La guerra amorosa spesso non è cavalleresca. La piaga del tradimento.
La malafede delle donne. Alcune Odi di Orazio: a Glìcera ( I, 19); la
consolazione a Tibullo (I, 33) e la II 8 a Barìne, la bella spergiura impunita.
Militat omnis amans di
Ovidio. L'amante non è debole e ignavo ma equivale al soldato. L'anfiteatro è un
luogo di battaglie e ferite raccomandato dal poeta di Sulmona per gli incontri
erotici . Gli spettacoli teatrali condannati da Platone, Seneca, Tertulliano e
dal curato di Madame Bovary poiché ingenerano libertinaggio.
Il malvagio spirito di
dissidio che si insinua tra Anna Karenina e l'amante. Le nozze di
figaro e l'aria di Marcellina. D'Annunzio e la nemica. Un poeta ungherese:
Ady Endre. Pavese, Seneca, Kundera.
La storia di Didone. Il fuoco
d'amore che arriva alle ossa. La pestis amorosa. La catena di autori che
calunniano l'amore. L'odio per il sesso è odio per la bellezza e per la vita. D.
H. Lawrence e W. Reich: il terrorismo sessuale è funzionale alla sottomissione
dell'uomo. Aristofane, Manzoni e Tolstoj. L'imbellimento è la perfezione della
propria identità. L'amore non è solo ferita e dolore ma anche colpa e infamia.
Pudor e aijdwv". La sorella
Anna e la nutrice di Fedra. La follia erotica e quella religiosa. La "lussuria"
di Enea e Didone. La diffamazione della dea foeda . L'ira di Iarba e la
collera di Giove.
“L' eroe”, terrorizzato, cede
subito. L'ingratitudine come vizio capitale. L'eroe virgilano secondo Leopardi.
La vigliaccheria di Enea che fa morire la sua amante non sponte, invitus,
e la rivendicazione del peccato da parte di Prometeo e di Edipo. Ancora sulla
pertrattata fides . La pietas di Enea in Virgilio nei Carmi di
Orazio. Non il suo eroe è improbus secondo Virgilio ma l'amore stesso.
Enea non concede a Didone nemmeno un saluto. Il notturno dell'Eneide ,
quello di Alcmane e quello di Apollonio Rodio. Didone stessa non si assolve. Il
sogno di Enea. La follia metodica dei sogni.
Alcibiade, il dandy
dell'antichità: l'altra faccia del pio Enea. Gli uomini straordinari con
valutazioni diverse.
Le maledizioni di Didone. La
testa come acropoli della persona. La donna abbandonata invoca un vendicatore
mentre vuole spezzare la luce.
La Fortuna . Didone
morente prefigura la fine di Cartagine. La fiamma dell'amore diviene il fuoco
del rogo. Altri ardori deleteri in letteratura (Nerone e Anna Karenina).
L'incontro di Enea e Didone tra i morti. Il silenzio della donna suicida per
amore è il più espressivo dei rimproveri.
Domenico Cavalca e San
Benedetto.
L'amore nelle Bucoliche
e nelle Georgiche. Teocrito e il sentimento della natura.
La II ecloga virgiliana. Il
motivo della lucertola in Virgilio e Teocrito. La III ecloga e il toro emaciato.
L'incantatrice dell'VIII ecloga e Cornelio Gallo della X. Ancora Virgilio e
Teocrito. La III Georgica. Dalla femmina, umana e bestiale, dipende la
felicità dei maschi. Amor omnibus idem.
L'aspetto battagliero di Amore. Ero e Leandro. Le ferite e le ustioni
d'amore in vari autori.
Orfeo e Aristeo
nell'interpretazione di Gian Biagio Conte. Un poco di inglese. Il durus
arator che incide la terra il poeta elegiaco che piange molles amores
, ferisce se stesso e muore. La violenza dell'uomo sulla natura in Sofocle,
Virgilio, Orazio, Platone e Goethe. Ancora il Terzo Stasimo dell'Antigone
.
L'amore come punizione,
malattia e sofferenza. La cecità e la pazzia di Eros. La donna quale inganno
scosceso. L'innamorato è come un naufrago. L'iniuria in amore e in altri
campi. Esiodo. Eros che strugge le membra, dolce-amara implacabile fiera.
Pandora. Al mito della prima donna segue quello della fine dell'età dell'oro.
Esiodo e Lucrezio. Espressioni contrarie alla navigazione.
Un'altra interpretazione
dell'età dell'oro. Il veternus in Virgilio e in Orazio. Il De
providentia di Seneca. Giobbe. L'età dell'oro in Virgilio, il potere
nell'età dell'oro in Seneca, e le isole felici di Orazio. L'amore come trappola
preparata dalla natura e dalle giovani donne. L'amore di Swann come malattia non
più operabile: antiquus amor cancer est (Satyricon) La gelosia
come mostro edace. L'amore come spada in Archiloco, come smarrimento in Saffo.
La traduzione di Catullo. L'amore negato infligge maggiore sofferenza alla donna
che all'uomo, e l'amore fruito maggiore gioia alla femmina umana che al maschio
secondo il parere del sapiente Tiresia di Ovidio. La follia amorosa quale
tempesta e uragano. Saffo e Ibico. L'amore come assillo nel Prometeo
incatenato. Amore e morte. Saffo, Teocrito, Leopardi. D'Annunzio. Alcune
testimonianze sull'Amore come squilibrio e contraddizione insanabile. La
compresenza degli opposti misei'n-
filei'n. La logica aperta al
contrasto. Anacreonte, Teognide, Erodoto, Tucidide, Eschil), Catullo, Ovidio,
Petrarca. Di nuovo l'amante nemica. Il Trionfo della morte e Il fuoco
di D'Annunzio. Psicoanalisi e antichità: Freud utilizza Empedocle .
Eraclito. La pazzia amorosa
ostacola il lavoro agricolo. Teocrito Virgilio e Tibullo.
Il latino, lingua del potere,
può insegnare a difendersi dal potere.
La
fobia dell'amore e del sesso. Apollonio Rodio e Virgilio.
Le Argonautiche, che descrivono
la fase iniziale dell'amore di Medea per Giasone, sono piene di anatemi di
Eros: il dio, quando arriva, mandato dalla madre Afrodite, per costringere
Medea ad amare e aiutare Giasone, è invisibile, sconvolgente (tetrhcwv~,
Argonautiche, 3, 276), come l’assillo (oi\stro~)
che si scaglia sulle giovani vacche[1].
Rapidamente questo dio del dolor prese una
freccia dolorosa: “poluvstonon ejxevlet j
ijovn” (v. 279). La freccia ardeva profonda nel cuore della ragazza,
come una fiamma (flogi; ei[kelon,
v. 287), ed ella consumava l’anima in una dolce afflizione: “glukerh'/
de; kateivbeto qumo;n ajnivh/” (v. 290).
Quindi ardeva in segreto Eros funesto: “ai[qeto
lavqrh/ ou\lo~ [Erw~ ” (vv. 296-297).
Come Giasone appare splendidissimo
al desiderio di Medea, il giovane prestante viene paragonato a Sirio che si
leva alto sopra l'Oceano, bello e splendente però reca sciagure infinite alle
greggi: così il figlio di Esone portava il travaglio di un amore angoscioso
(Argonautiche, 3, vv. 957-961).
L'infelicità è connessa all'amore
prima ancora che questo si realizzi: quando la ragazza si avvia incontro a
Giasone, che è stato salvato da lei e le ha promesso le nozze, la Luna la
osserva e, con parole ambigue tra la simpatia e il dispetto, le dice: il dio
del dolore ("daivmwn ajlginovei"",
4, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua sofferenza. Va' allora e
preparati in ogni modo a sopportare, per quanto sapiente tu sia, il dolore
luttuoso.
Questo presunto amore di Medea e Giasone
non dona gioia ai due amanti, anzi produce orrori: dopo che i due scellerati
hanno concordato l’assassinio del fratello di lei, lo stesso autore del
poema rivolge un'apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: “ Eros
atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli
j [Erw", mevga ph'ma, mevga stuvgo" ajnqrwvpoisin") da te provengono
maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta.
Ármati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'accecamento
odioso nell'animo di Medea (oi|o"
Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn)",
Argonautiche, 4, vv. 445- 449).
L'amore sembra legato alla pena da un
vincolo di necessità. Si ricorderà che anche Virgilio apostrofa l’amore come
un dio malvagio : “Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!” (Eneide,
IV, 412).
Partiamo dall'incipit della Strofe
del Terzo Stasimo dell'Antigone di Sofocle (v. 781).
E' questo un inno a Eros,
invincibile in guerra, capace di abbattersi sulle ricchezze e di riposare sulle
morbide guance delle ragazze. Egli è in movimento sul mare e nelle dimore
agresti; è inevitabile da parte dei mortali e degli immortali che vengono resi
folli da lui. Amore può traviare le menti dei giusti e renderle ingiuste, può
spingere i consanguinei alla contesa, quando il desiderio degli occhi di una
fanciulla detta legge, poiché in quella luce c'è qualche cosa di divino.
"
[E[rw" ajnivkate mavcan…",
Eros invincibile in battaglia…-ajnivkate:
è forma dorica per ajnivkhte.
"In realtà contro Eros non esiste
rimedio (" [Erwto" ga;r oujde;n favrmakon")
né pozione né pasticca né incantesimo se non il bacio, l'abbraccio e stendersi
insieme con i corpi nudi", suggerisce ai due ragazzi il vecchio Fileta nel
romanzo di Longo sofista
[2].
Luogo simile già in Teocrito che nell'incipit dell'XI idillio consiglia
però un altro rimedio : non c'è altro
favrmakon contro l'amore o Nicia, né unguento, mi sembra, né polvere, che
le Pieridi, rimedio lieve e dolce per i mortali, ma trovarlo non è facile (vv.
1-4). Significa che la strada delle Muse e della poesia è impervia. -mavcan=mavchn,
accusativo di relazione.
Eros si coniuga con Eris.
Alcuni verbi greci sono
significativi di tale associazione.
"Meignumi
, "unirsi sessualmente", significa
anche mescolarsi, incontrarsi in battaglia. Quando Diomede "si mescola ai
Troiani", vuol dire che viene alle mani, a distanza ravvicinata, con
loro...Stessa cosa per damazo, damnemi : soggiogare, domare. Uno doma una
donna che fa sua, come doma il nemico cui dà la morte"[3].
Amore è un combattente
invincibile:"calepa; d' e[ri"
ajnqrwv-poi" oJmilei'n kressovnwn"[4],
è dura contesa per i mortali contendere con i piùforti.
Lo stesso Sofocle nelle
Trachinie fa dire a Deianira che chiunque si alzi come un pugile per venire
alle mani con Eros, non ha la testa a posto ( "ouj
kalw'" fronei'", v. 442).
Infatti Anacreonte aveva
bisogno di alterarsi la mente con il vino per lanciare una sfida di pugilato a
Eros:"fevr& uJvdwr, fevr& oi'jnon, w'j pai',...-pro;"
[Erwta puktalivzw" (fr. 27 D.), porta l'acqua, porta il vino, ragazzo,
voglio fare a pugni con Eros. La guerra a volte viene fatta da Eros contro gli
amanti concordi, a volte dagli amanti tra loro per sopraffarsi a vicenda.
L' Oreste dell' Elettra sofoclea
ricorda alla sorella che c'é un Ares anche nelle donne:"kajn
gunaixi;n... [Arh"- e[nestin"(vv.
1243-1244). Il riferimento è alla loro madre assassina ovviamente, ma il suo non
è certo l'unico caso di connubio conflittuale e criminale.
Alla dea Afrodite che, fin dal primo verso[5]
dell'Ippolito di Euripide, si presenta come divinità possente e
non senza fama, la nutrice di Fedra attribuisce una forza d'urto ineluttabile
:" Kuvpri" ga;r ouj forhto;n hj;n
pollh; rJuh'/" (v. 443), Cipride
infatti non è sostenibile quando si avventa con tutta la forza. Ella si accosta
con mitezza a chi cede, ma fa strazio di trovi altero e arrogante.
Nella letteratura latina la ferita
d'amore appare già nella Medea exul di Ennio che traduce questo
verso della Medea di Euripide:" e[rwti
qumo;n ejkplagei's& jIavsono"" (v. 8), colpita nel cuore dall'amore di
Giasone, accentuandone il pathos con l'allitterazione:"Medea animo aegro
amore saevo saucia ", (v. 9), Medea dall'animo sofferente, ferita da un
amore crudele. Un aggettivo che diverrà topico per indicare le ferite inflitte
da Afrodite o da suo figlio.
L'amore come guerra, fuoco che
arde e squilibrio è affermato pure da Terenzio (190ca-159ca a. C.) nell'Eunuco
:"In amore haec omnia insunt vitia : iniuriae,/suspiciones,
inimicitiae, indutiae, bellum, pax rursum: incerta haec si tu postules/ratione
certa facere, nihilo plus agas/quam si des operam ut cum ratione insanias "
(vv. 59-63), nell'amore ci sono tutti questi difetti: offese, sospetti, litigi,
una tregua, la guerra, di nuovo la pace: se tu cerchi di mettere in ordine
sicuro queste cose incerte, non fai di meglio che se ti adoperassi per fare il
pazzo ragionevolmente, dice lo schiavo Parmenione al giovane Fedria innamorato,
il quale risponde:"et taedet et amore ardeo, et prudens sciens,/vivos[6]
vidensque pereo, nec quid agam scio " (vv. 72-73), non ne posso più e brucio
d'amore, lo so e capisco e sono vivo e vedo e muoio, e non so che fare.
Secondo Lucrezio perfino
Marte "armipotens " viene vinto aeterno… vulnere amoris ,
dall'eterna ferita dell'amore.
"Marte armipotens è debellato e
'ferito' dalla dea dell'amore e della pace… anche se l'immagine della "ferita
d'amore" era già abbastanza convenzionale , qui il contesto la rivitalizza ,
sottolineando l'aspetto paradossale della situazione"[7].
In effetti questo Marte vinto dalle ferite è
rovesciato rispetto a quello usuale che le infligge e su questo rovesciamento
insistono i termini scelti dall'autore. Vediamo alcuni versi dell'inno a Venere:"
Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare/mortalis, quoniam belli fera moenera
Mavors/armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se/reicit
aeterno devictus vulnere amoris ,/ atque ita suspiciens tereti cervice reposta/pascit
amore avidos inhians in te, dea, visus,/eque tuo pendet resupini spiriyus ore"
(vv. 31-37), Infatti tu sola puoi con una pace tranquilla aiutare/i mortali,
poiché le feroci opere della guerra governa/Marte, signore delle armi, che
spesso si rovescia nel tuo/grembo, vinto dall'eterna ferita
dell'amore,/e così guardando da sotto, con la liscia cervice rovesciata,/pasce
d'amore gli avidi occhi agognandoti, o dea /e il respiro di lui resupino dipende
dalla tua bocca.-mortalis=mortales .-tereti cervice reposta (forma
sincopata per reposita): si può notare come Mavors (arcaico per
Mars ) si esponga alle ferite lasciando scoperta e rivolta all'amante la
parte più tenera del corpo, quella attraverso cui nell'Iliade risonante di
battaglie i guerrieri marziali vengono uccisi più frequentemente.
Insomma make love, not war come si
diceva nel '68. Ma il proemio, si vedrà è in un certo senso fuoritesto rispetto
al poema.
La personificazione del tormento
amoroso dei mortali è costituita da Tizio:"Sed Tityos nobis hic est, in amore
iacentem/quem volucres lacerant atque exest anxius angor " (III, 992-993),
ma Tizio è qui in noi, quello che, prostrato nell'amore, gli uccelli dilaniano
e un angoscioso affanno divora. "La pena di Tizio-il gigante ucciso da Apollo
per aver insidiato Latona, e disteso nel Tartaro col fegato continuamente roso
dagli avvoltoi- è per Lucrezio, come sarà pure per Orazio (carm. 3, 4,
77-79; cfr. Servio, ad Aen. 6, 596), allegoria dell'angosciosa passione
amorosa, la cupido"[8].
Ma i versi più dolorosi
sull'amore sono quelli del libro seguente dove il termine vulnus ,
ferita, non basta più e il segno lasciato dall'ansia erotica diviene una piaga
che potrebbe diventare mortale se non curata :"Ulcus enim vivescit et
inveterascit alendo/inque dies gliscit furor atque aerumna gravescit,/si non
prima novis conturbes vulnera plagis/vulgivagaque vagus Venere ante recentia
cures/aut alio possis animi traducere motus " (IV, 1068-1072), la piaga
infatti si ravviva e vigoreggia a nutrirla, la smania cresce di giorno in
giorno, e l'angoscia si aggrava, se non confondi le antiche ferite con nuovi
colpi, e le recenti non curi prima vagando con una Venere vagabonda o ad altro
oggetto tu non drizzi i moti dell'animo.
Nei primi due versi "le due coppie
allitteranti di incoativi, qui più che mai progressivi, si succedono in
crescendo,...simbolo fonico dell'inarrestabile crescere della passione" (Traina
1979, 279-25). Il linguaggio erotico lucreziano oscilla tra il
tovpo" dell'amore-ferita (il
peggiorativo e prosastico ulcus sostituisce il nobile ed epico vulnus
; cfr. vv. 1048-1055) e il tovpo"
dell'amore-follia"[9].
L'allitterazione in "v" del penultimo verso suggerisce il suono di un soffio che
passa sulle ferite asciugandole.
E' da notare che tanto il termine
ulcus quanto il nesso anxius angor tornano alla fine del poema
lucreziano nella descrizione della peste di Atene del 430 (VI, 1148 e 1158).
Ammesso che Amore infligga delle
ferite, bisogna dire che queste, se comprese, possono diventare un bene:"una
ferita è un'apertura. Una ferita è anche una bocca. Una qualche parte di noi sta
cercando di dire qualcosa. Se potessimo ascoltarla! Supponiamo che queste
"intensità sconvolgenti" siano una sorta di messaggio: sono "cicatrici", ferite,
che segnano la nostra vita. Tutti le sentiamo. E se non le sentiamo, siamo solo
bambini, solo innocenza. Si tratta piuttosto di rendersi conto che la vita è una
serie di iniziazioni, e questa è un'iniziazione in più. Un'altra apertura a
qualcosa che mette alla prova la nostra vitalità. Che sonda la nostra capacità
di comprensione. Che espande la nostra intelligenza"[10].
Insomma è il
tw/' pavqei mavqo"
di Eschilo[11],
attraverso la sofferenza, la
comprensione,
che H. Hesse esprime così:"Profondamente sentì in cuore l'amore per il figlio
fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era stata data
per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta luce"[12].
Voglio mostrare una
riabilitazione di Amore da tante calunnie attraverso alcune parole di
Agatone nel Simposio platonico: Eros è il più felice, il più bello e il
più nobile fra tutti gli dèi. Ed è anche il più giovane, sicché non derivano da
Eros le mutilazioni dei tempi primordiali di cui parlano Esiodo e Parmenide,
anzi , se ci fosse stato lui, non sarebbero avvenute quelle
ejktomaiv, castrazioni vere e
proprie, né incatenamenti reciproci, desmoi;
ajllhvlwn, e molte altri prevaricazioni anche violente
kai; a[lla polla; kai; bivaia (195c), ma solo amicizia e pace come ai
tempi nostri, da quando Amore regna tra i numi. Inoltre è delicato:
aJpalov"
, tant'è vero che cammina e dimora
sulle entità più tenere: infatti ha fondato la sua dimora nei caratteri e nelle
anime degli dèi e degli uomini. Anzi ripudia i caratteri duri e rozzi. Inoltre
possiede tutte le virtù, compreso il coraggio: infatti neppure Ares tiene
testa a Eros (196d) che anzi tiene in pugno il dio della guerra: ebbene questo
fatto toglie, non infligge ferite agli uomini, che è poi quanto sostiene anche
l'inno a Venere di Lucrezio, "che in un certo senso è fuoritesto"[13],
ed è comunque in contraddizione con il IV libro sul quale torneremo.
Tento un'altra apologia di Eros
utilizzando Seneca. Il filosofo nel De vita beata (del 58 d. C.)
afferma, pur senza riferirsi specificamente all'amore, che chi ha deciso di
seguire dio ut bonus miles feret vulnera, numerabit cicatrices, et
transverberatus telis moriens amabit eum pro quo cadet imperatorem" (15, 5),
come il buon soldato sopporterà le ferite, conterà le cicatrici e trapassato dai
dardi morendo amerà il comandante per il quale cadrà. Se uno decide di seguire
la milizia di Amore, ne inferisco, non deve soffrire per le ferite ricevute
nelle guerre erotiche. Una volta presa questa decisione, le donne sono più
determinate degli uomini. Sentiamo ancora il dottor Urbino di Màrquez nel
ricordo della moglie Fermina che dopo la morte di lui sta per accogliere
positivamente, dopo cinquantaré anni, ultrasettantenne, le proposte amorose
dell'eterno spasimante Florentino :"Noi uomini siamo dei poveri schiavi dei
pregiudizi" le aveva detto una volta, "Invece, quando una donna decide di andare
a letto con un uomo, non esiste ostacolo che non salti, né fortezza che non
abbatta, né considerazione morale che non sia disposta a superare per il
fondamento: non c'è Cristo che tenga"[14].
In Virgilio l'amore non
solo è associato alla guerra, una guerra tra popoli, ma la fa pure perdere a chi
ne è troppo implicato: Turno, prima di affrontare lo scontro decisivo , viene
confuso e abbagliato dall'amore:"Illum turbat amor figitque in virgine voltus
" (Eneide , XII, 70), lo turba amore e fissa lo sguardo sulla ragazza[15].
Orazio nell'Ode 26
del terzo libro[16],
nello stesso tempo scherzosa e malinconica, impiega la metafora della milizia
d'amore dichiarando il suo addio alle armi che, come la lira usata per sedurre,
saranno appese alla parete del tempio di Venere:"Vixi puellis nuper idoneus/et
militavi non sine gloria;/nunc arma defunctumque bello/barbiton hic paries
habebit " (26, 1-4) sono vissuto fino a poco fa idoneo alle ragazze, e ho
fatto il servizio militare non senza gloria: ora questa parete avrà le armi e
la lira che ha compiuto la guerra.
Diciamo ora due parole sulla
metafora che secondo la definizione di Aristotele è il trasferimento
di un nome estraneo (metafora; dev ejstin
ojnovmato" ajllotrivou ejpiforav, Poetica, 1457b) ossia consiste
nell'attribuire alle parole significati diversi da quelli che hanno di solito.
Il filosofo di Stagira ne coglie il valore conoscitivo quando afferma che è un
pregio grandissimo di un testo essere metaforico, poiché rivela l'originalità
dell'ingegno dell'autore :"to; ga;r eu\''j
metafevrein to; o{moion qewrei'n ejstin" (1459a), infatti saper trovare
buone metafore significa vedere la somiglianza .
Questa forma di intelligenza poi è
l'ingenium di G. Vico: "Nel De ratione, Vico definisce l'ingegno o
ingenium come 'la facoltà mentale che permette di legare in modo rapido,
appropriato e felice cose separate'. Facoltà innanzitutto sintetica, e opposta
all'analisi sterile, permette l'invenzione e la creazione"[17].
Nella Retorica Aristotele
ribadisce l'importanza della metafora per la sua piacevolezza e per essere fuori
dal comune (1405a).
La metafora dunque attesta
l'originalità dell'autore e significa le parentele tra le cose :" La realtà è un
luogo comune dal quale sfuggiamo con la metafora. La metafora letteraria
stabilisce una comunicazione analogica tra realtà assai lontane e differenti,
dando intensità affettiva all'intelligibilità che produce. Generando onde
analogiche, la metafora supera la discontinità e l'isolamento delle cose"[18].
Faccio l'esempio di una metafora
che amo per la mia antica frequentazione della spiaggia di Pesaro: nel
Prometeo incatenato il Titano invoca il cielo splendente, i venti dalle
rapide ali, le sorgenti dei fiumi, la terra madre di ogni cosa, l'occhio
onniveggente del sole "pontivwn te
kumavtwn-ajnhvriqmon gevlasma" (vv. 89-90), l'innumerevole sorriso delle
onde marine. Un sorriso che riverbera la luce del sole o quella della luna, un
sorriso che, secondo Lucrezio, può essere un segno di gratitudine per la
presenza di Venere:"tibi rident aequora ponti" (De rerum natura,
I, 8), a te ridono le distese del mare.
Più tardi, nella prima Ode
del quarto libro[19]
il poeta arrivato intorno alla cinquantina (circa lustra decem , v. 6)
chiede a Venere di risparmiargli la guerra:"Intermissa, Venus, diu/rursus
bella moves? Parce, precor, precor " (vv. 1-2), dopo lunga tregua, Venere,
mi fai di nuovo guerra? Risparmiami, ti prego, ti prego. Il secondo verso "si
configura come una ajpopomphv, cioè
come una preghiera destinata ad allontanare da chi prega il pericolo proveniente
da una divinità"[20].
Il pericolo è costituito dai dardi dell'amore.
Orazio è contemporaneo dei poeti
elegiaci, ossia scrive nei decenni nei quali va definendosi il nostro modo di
considerare il rapporto dell'uomo con la donna. Nel poeta di Venosa, a
differenza che in Catullo (il quale precorre gli elegiaci), Properzio e Tibullo,
non c'è una donna che accentra l'attenzione: egli, come scrisse Pasquali, vola
di fiamma in fiamma senza bruciarsi le ali.
Anche in Orazio tuttavia c'è il
mal d'amore: vediamo l' Ode I, 19 per Glicera. La prima strofe
(asclepiadea IV) mette il rilievo fin dal primo verso la dura crudeltà di
Venere:" Mater saeva Cupidinum/Thebanaeque iubet me Semelae puer/et lasciva
Licentia/finitis animum reddere amoribus"( vv. 1-4), la madre crudele
degli Amori e il figlio della Tebana Semele e la Licenza sfrenata mi impongono
di ridare il mio animo ad amori finiti. Il puer è Bacco poiché il vino è
viatico per l'amore come vedremo in Apuleio (
L'asino d'oro , II, 11). Nella contrasto tra iubet me e
lasciva Licentia vediamo una delle contraddizioni dell'amore: quando siamo
innamorati vogliamo libertà e servitù assoluta nello stesso tempo.
Nella seconda strofe c'è una
fiamma che divora:"urit me Glycerae nitor/splendentis Pario marmore purius,/urit
grata protervitas/et voltus nimium lubricus adspici " (vv. 5-8), mi infiamma
il fulgore di Glìcera il quale brilla più splendidamente del marmo Pario, mi
infiamma la sfrontatezza gradita e il volto troppo pericoloso a guardarsi.
L'anafora di urit mette in rilievo la forza del fuoco e anche se il nome
della donna contiene la dolcezza[21],
il suo volto lubrico è un rischio per il poeta che può scivolarci sopra[22].
Nella terza strofe successiva l'innamoramento è visto come un assalto subìto:"in
me tota ruens Venus/Cyprum deseruit nec patitur Scythas/et versis animosum equis/Parthum
dicere nec quae nihil attinent " (vv. 9-12), Venere lanciandosi tutta contro
di me ha lasciato Cipro, e non permette che io canti gli Sciti e il Parto audace
sui cavalli girati né ciò che non la riguarda. Venere tota ruens è come
Cipride nell'Ippolito citato sopra (v. 443) e come Eros dell'Antigone
che si abbatte su quello che trova (v. 782). Sicché Orazio innamorato è del
tutto pervaso da questa divinità crudele, è già in guerra, e non può dedicarsi a
cantare altre guerre, quelle esterne. Nell'ultima strofe il poeta si dispone a
riti propiziatori per mitigare la divinità crudele che esige sacrifici:"hic
vivum mihi caespitem, hic/verbenas, pueri, ponite turaque/bini cum patera meri:/mactata
veniet lenior hostia" (vv. 13-16), ponetemi qui una zolla viva, ragazzi, qui
ramoscelli ponete e incenso con una tazza di vino dell'altro anno: verrà più
mite una volta ammazzata la vittima.
Il
tovpo" del rapporto rischioso con un
Eros crudele e ostile si trova pure, con accentuazione del dolore, in
Properzio il quale dipinge Amore come un nemico armato dal quale nessuno può
allontanarsi senza ricevere ferite:" Et merito hamatis manus est armata
sagittis, et pharetra ex umero Gnosia utroque iacet,/Ante ferit quoniam, tuti
quam cernimus hostem, /nec quisquam ex illo vulnere sanus abit " (II,
12, 11- 12), giustamente la mano è armata di frecce uncinate, e dai due omeri
pende una faretra cretese, poiché ferisce prima che noi al riparo vediamo il
nemico né alcuno scampa immune da quella ferita. Il poeta ne è già stato
colpito al punto che il dio fa una guerra continua dentro il suo sangue:"
Assiduusque meo sanguine bella gerit" (v. 16). Amore dovrebbe vergognarsi di
tanto accanimento e scagliare i suoi dardi contro qualcun altro:" Si pudor
est, alio traice tela tua " (v. 18). Oramai è l'ombra sottile di
Properzio, non più la persona che busca bastonate:"non ego, sed tenuis
vapulat umbra mea" (20). Se il canto deve continuare dunque bisogna che
almeno l'umbra non vada perduta e Amore smetta di menare colpi.
La differenza tra Orazio e gli
elegiaci è che questi non cercano di attenuare la violenza di Eros ma accettano
tutti gli aspetti dolorosi della passione.
Nell'Ode I 33 di
consolazione a Tibullo, Orazio allega all'amore una parola chiave della
poesia amorosa che è dolere , patire il dolor, la sofferenza
amorosa consigliando all'amico di evitarla. Vediamo la prima stofe ( asclepiadea
terza):" Albi, ne doleas plus nimio memor/immitis Glycerae, neu miserabilis/decantes
elegos, cur tibi iunior/laesa praeniteat fide " (vv. 1-4), Albio non dolerti
più troppo memore della crudele Glìcera e non andare cantando lamentosi distici
perché, violata la fedeltà, uno più giovane prevale su te con il suo splendore.
Immitis Glycerae presenta
un rapporto ossimorico tra l'aggettivo e la dolcezza contenuta nel nome della
donna.. Questo ossimoro anticipa il successivo saevo cum ioco (v. 12).
Il motivo della donna immitis è ricorrente nella poesia elegiaca: nel
corpus Tibullianum uno dei componimenti di Ligdamo indica un rapporto di
necessità tra la padrona crudele e l'amore:"Nescis quid sit amor, iuvenis, si
ferre recusas/immitem dominam coniugiumque ferum " (III, 4, 73-74), non sai
cosa sia l'amore , giovane, se rifiuti di soffrire una padrona crudele e un
accoppiamento feroce.
Tornando all'Ode oraziana
(I, 33) il verbo decantare del v. 3 allude al ripetuto, continuo
piagnisteo della poesia elegiaca e così pure miserabilis= miserabiles (v.
2). Nella seconda strofe c'è un poliptoto che significa la singolare catena
d'amore nella quale chi ama non è riamato:"Insignem tenui fronte Lycorida/Cyri
torret amor, Cyrus in asperam/declinat Pholoen: sed prius Apulis/iungentur
caprae lupis,//quam turpi Pholoe peccet adultero. Sic visum Veneri, cui placet
imparis/Formas atque animos sub iuga aenea/Saevo mittere cum ioco " (vv.
5-12), l'amore per Ciro brucia Licorida notevole per la fronte piccola, Ciro è
incline all'aspra Foloe: ma le capre si accoppieranno con i lupi apuli prima che
Foloe pecchi con un amante brutto. Così è parso giusto a Venere cui sembra
opportuno sottoporre a gioghi di bronzo aspetti e anime differenti con scherzo
crudele. E' il tovpo" dell'amore
che insegue chi fugge e viceversa. Lo tratteremo più avanti. In torret
(v. 6) ritroviamo la comunissima metafora del fuoco. L'accoppiamento di capre e
lupi è un esempio di adynaton (cosa impossibile). Orazio in ogni caso non
soffre troppo poiché ha capito e si è rassegnato alla tragica legge del crudele
gioco erotico per la quale amiamo chi non ci ama e non amiamo chi ci ama. Sembra
che capire questo, e magari riderci sopra, sia l'antidoto al dolore:"Ipsum me
melior cum peteret Venus,/Grata detinuit compede Myrtale/Libertina, fretis
acrior Hadriae/Curvantis Calabros sinus " (vv. 13-16), me pure, quando mi
cercava un amore più degno, tenne avvinto con ceppi graditi Mìrtale liberta,
più violenta dei flutti dell'Adriatico che incurva i golfi salentini. Il giogo
amoroso è accettato volentieri dal poeta.
Del resto i caratteri forse non
erano troppo impares poiché Orazio nell'Ode III 9 viene definito
dall'amante Lidia "improbo/iracundior Hadria " (vv. 21-22), più
collerico dell'Adriatico in tempesta.
In ogni modo il rapporto amoroso è difficile quanto la traversata dell'Adriatico
in tempesta. Ma vale la pena affrontarlo poiché ci aiuta a scoprire l'identità:
come scrivere un libro, impresa che "non cessa mai di essere una cosa
folle, eccitante, la traversata di un oceano su un minuscolo canotto, un volo
solitario attraverso il Tutto[23]".
Il tradimento della fede da parte della donna ricordato nell'Ode
I 33 è topico nelle situazioni amorose dei poeti elegiaci i quali ricevono
ferite da questa attitudine dell'amante.
Invano le korivnqiai gunai'ke"
del Coro della Medea avevano protestato contro questo tipo di giudizio
malevolo comune dei poeti maschi: i canti dei poeti antichi smetteranno di
ripetere la storia della mia malafede ("ta;n
ejma;n uJmneu'sai ajpistosuvnan ", v.
422). In effetti già Omero nell'XI dell'Odissea aveva fatto dire ad
Agamennone finito nell'Ade dopo essere stato trucidato dalla moglie:"oujkevti
pista; gunaixivn" (v. 456),
poiché non c'è più credibilità per le donne.
Poi Esiodo nelle Opere aveva scritto: chi si fida di una donna,
si fida dei ladri (v. 375). Perciò il fratello dell'autore, Perse, doveva stare
attento a non lasciarsi ingannare da una donna
pugostovlo",
dal deretano vezzoso, che mentre fa moine seducenti mira al granaio (vv.
373-374).
Una femmina oraziana che incarna il tradimento
è l'etera Barine.
Nell'Ode II 8 Orazio afferma che gli dèi non puniscono gli
spergiuri in amore, come se il campo erotico fosse estraneo alla religione e
alla morale. Sembra la trasposizione scherzosa di quello che Tucidide fa
dire agli Ateniesi nel dialogo con i Meli: riteniamo infatti che la divinità,
secondo la nostra opinione, e l'umanità in modo evidente, in ogni occasione,
per necessità di natura ("dia; panto;"
uJpo; fuvsew" ajnagkaiva"") dove sia
più forte, comandi, V, 105, 2.
In amore, come in guerra e in molti altri campi, i rapporti tra gli umani sono
puri rapporti di forza. Barine non viene punita per i suoi spergiuri, non
diventa più brutta, anzi.
Vediamo le prime due strofe saffiche.
"Ulla si iuris tibi peierati/poena, Barine, nocuisset umquam,/dente si nigro
fieres vel uno/turpior ungui,/ /crederem:sed tu simul obligasti/perfidum votis
caput, enitescis/pulchrior multo iuvenumque prodis/publica cura " ( Ode,
II, 8, vv. 5-8), Barìne, se la pena del giuramento violato ti avesse mai
nociuto, se diventassi una dal dente nero o più brutta per una sola unghia, ti
crederei: ma tu appena hai impegnato la tua vita perfida con i voti, brilli
molto più bella e vieni avanti, pubblico tormento per i giovani.-peierati
poena:"in nessun'altra cosa come in amore si usa e si abusa a cuor leggero
del giuramento. Ma gli antichi, che erano attaccati con tutta l'anima a una
credenza che aveva tanta parte nella loro religione, nel diritto e nella vita
comune, corsero ai ripari per ingannar se stessi: in amore sì, poiché lo si vede
ogni giorno avvenire senza conseguenze, è lecito giurare falso senza pericolo,
nel resto no"[24].
Perfidum è il consueto[25]
aggettivo che indica la rottura del foedus e obligare è
coerentemente un verbo del linguaggio giuridico. Enitescis costituisce
l' ajprosdovkhton
che contrasta con la punizione mancata dell'annerimento dei denti in conseguenza
dello spergiuro (dente si nigro fieres vel uno/turpior ungui ", vv. 2-3,
se diventassi più brutta per la dentatura annerita o almeno per una sola
unghia).
" Orazio, negando che Barine abbia anche soltanto un tal neo, la glorifica
perfetta: menzognera sì ma perfetta. Noi non possiamo immaginare che le parole
del poeta carezzino, più che non feriscano, l'orecchio dell'ascoltatrice: donne
di tal fatta non possono soffrire che si rinfaccino loro difetti fisici, o,
peggio, l'età, ma sanno bene che mestiere fanno e non si dolgono se lo si
ricorda loro con i debiti riguardi"[26].
Il publica cura del v. 8 sovrappone la terminologia politica a una
situazione erotica. "Orazio rincara la dose: essa non solo non ha sofferto della
fede mancata, anzi a ogni giuramento falso divien più bella, ed esce per le vie
accompagnata da un corteo sempre maggiore di giovani: nel publica cura si
sente l'ironia, che però si rivolge molto più contro gli adoratori che non
contro la bella donna, la quale fa, e ha ragione, i suoi interessi"[27].
Il
tovpo"
del giuramento amoroso tradìto.
Pasquali cita varie testimonianze della sua affermazione per la quale solo in
amore è lecito spergiurare. Alcune le abbiamo già viste nei capitoli precedenti;
qui aggiungo il Simposio di Platone dove Pausania fa notare che i più
pensano che gli stessi dèi siano indulgenti verso gli spergiuri amorosi:"ajfrodivsion
ga;r o{rkon ou[ fasin ei\nai" (183b),
infatti dicono che non c'è giuramento d'amore. Seguo qualche altra indicazione
dell'autore di Orazio
lirico :" Tibullo non ne fa
uso se non in quella sua Ars amandi (I 4, 21) posta in bocca a Priapo"
(p. 480). Vediamone due distici:"Nec iurare time: Veneris periuria
venti/irrita per terras et freta summa ferunt.// Gratia magna Iovi; vetuit pater
ipse valere,/iurasset cupide quidquid ineptus amor " (vv. 21-24), non aver
paura di giurare: gli spergiuri di Venere i venti li trascinano annullati per le
terre e in cima ai flutti. Dobbiamo essere molto grati a Giove; il padre ha
personalmente vietato che avesse valore qualunque giuramento avesse bramosamente
fatto uno spropositato amore. Del cattivo esempio del padre onnipotente in fatto
di adultèri e tradimenti abbiamo già detto. Pasquali fa ancora notare che
"Ovidio imita questo passo di Tibullo nell' a. a. I 633 sgg"[28].
Vediamo qualche distici anche del magister Naso:"Iuppiter ex alto
periuria ridet amantum/et iubet Aeolios inrita ferre Notos.// Per Styga Iunoni
falsum iurare solebat/Iuppiter: exemplo nunc favet ipse suo " (Ars
Amatoria ,I, 631-634), Giove dall'alto sorride agli spergiuri degli amanti e
ordina che i venti di Eolo li portino via senza effetto. Sullo Stige Giove era
solito giurare il falso a Giunone: ora favorisce personalmente chi segue il suo
esempio. Ovidio, fa notare Pasquali nella nota citata sopra, "aveva già
adoperato il tovpo"
in forma un po' diversa in due passi degli Amores, assai somiglianti tra
loro: I 8, 85 nec, siquem falles, tu periurare timeto: commodat in lusus
numina surda Venus"[29]
, e se ingannerai qualcuno tu non esitare a spergiurare: per i giochi amorosi
Venere rende sordi gli dèi. L'altro passo chiede indulgenza per gli spergiuri
onesti:" Tu, dea, tu iubeas animi periuria puri/Carpathium tepidos per mare
ferre Notos " (Amores , II, 8, 19-20), tu, dea, tu ordina che gli
spergiuri di un animo puro li portino via i tiepidi venti del sud attraverso il
mare Carpatico. La dea naturalmente è Venere, il mare Carpatico è l'Egeo
chiamato così dall'isola di Carpato situata tra Creta e Rodi. Mare, isole e
venti meridionali, tiepidi evocano vacanze e sensualità.
Anche in Anna Karenina c'è un "codice di norme", quello di Vrònskij, che
ammette lo spergiuro amoroso:" Le norme stabilivano senz'ombra di dubbio che
bisognava pagare un baro, ma non obbligavano a pagare un sarto; che agli uomini
non bisognava mentire, ma si poteva con le donne; che non bisognava ingannare
nessuno ma un marito si poteva ingannare; che non si potevano perdonare le
offese, ma che si poteva offendere, e così via"[30].
Vediamo altre due strofe dell'Ode II 8 di Orazio:" Expedit matris
cineres opertos/fallere et toto taciturna noctis/signa cum caelo gelidaque divos/morte
carentis.//Ridet hoc, inquam, Venus ipsa, rident/simplices Nymphae, ferus et
Cupido/ semper ardentis acuens sagittas/cote cruenta " (vv. 9-16), ti
giova ingannare le ceneri sepolte di tua madre e le silenti costellazioni della
notte con l'intero cielo e gli dèi immuni dal gelo della morte. Ride di questo,
lo affermo, la stessa Venere, ridono le Ninfe ingenue e il feroce Cupido che
aguzza sempre i dardi ardenti sulla cote cruenta.- matris cineres
opertos (coperti dalla tomba) fallere: il giuramento sulle ossa e le
ceneri dei genitori è particolarmente grave: lo usa Properzio per rendere
indubitabile la sua dedizione (gravitas) a Cinzia fino alla morte e
oltre:"ossa tibi iuro per matris et ossa parentis/ si fallo, cinis heu sit
mihi uterque gravis " (II, 20, 15-16), te lo giuro sulle ossa di mia madre,
sulle ossa di mio padre, se ti inganno siano opprimenti per me le ceneri di
entrambi. Se venisse meno la gravitas di Properzio interverrebbe negativamente
quella della cenere. Ma forse il poeta sa o teme di essere lui stesso gravis
per Cinzia.-carentis=carentes.-
"La scena della terza strofa, il giuramento per la tomba della madre sotto il
cielo stellato è romantica e atta a ispirare terrori misteriosi. Orazio riprende
qui uno spunto che aveva trattato nella sua romantica giovinezza[31]
(epod. XV 1):"nox erat et caelo fulgebat luna sereno inter minora sidera, cum
tu magnorum numen laesura deorum, in verba iurabas mea", era notte e la luna
brillava nel cielo sereno tra gli astri minori, quando tu, pronta a violare la
potenza degli dèi grandi, giuravi sulle mie parole (vv. 1-4) Si tratta di Neera
che giura, falsamente a Orazio "fore hunc amore mutuum " (v. 10). Ma
Flacco saprà reagire eroicamente: "nec semel offensae cedet constantia formae/si
certus intrarit dolor " (vv. 15-16, un esametro e un dimetro giambico), e la
costanza non cederà alla bellezza una volta rivelatasi odiosa.
Il non cedere è caratteristico dell'eroe: lo stesso Orazio definisce
Achille incapace di cedere[32]
. E il rivale felicior , più fortunato cui il poeta si rivolge con un
quicumque es (v. 17), chiunque tu sia, come il coro o un personaggio della
tragedia greca a Zeus (Eschilo, Agamennone 160; Euripide, Troiane
, 885) e come Enea a Mercurio (Eneide IV, 577), presto piangerà anche
lui l'amore passato da un'altra parte e il poeta a sua volta riderà:" Heu heu!
translatos alio maerebis amores/Ast ego vicissim risero " (vv. 23-24).
L'ultimo distico applica all'amore l'idea dell'orbis che ogni cosa porta
in giro, in tutti i sensi.
-Ridet…rident : il poliptoto a cornice e inquam rafforzano questo
distacco sorridente dalla vicenda amorosa, ben diverso dagli scoppi di gelosia e
dalle maledizioni con le quali reagiscono ai tradimenti e agli spergiuri Catullo
e gli elegiaci. Faccio l'esempio di Properzio: nel primo libro (pubblicato
attorno al 28 a. C.) l'amante geloso ricorda a Cinzia, la quale lo fa soffrire
con la sua leggerezza (levitas) e la sua perfidia, che lo
spergiuro può provocare la vendetta divina:"desine iam revocare tuis periura
verbis,/Cyntia, et oblitos parce movere deos " (15, 25-26), smettila di
tirare fuori di nuovo gli spergiuri con le tue parole, Cinzia, evita di irritare
l'oblio dei numi. Nel secondo libro, redatto tra il 28 e il 26, sembra di
trovare una replica a questa ode di Orazio:"non semper placidus periuros
ridet amantes/Iuppiter et surda neglegit aura preces./vidistis toto sonitus
percurrere caelo,/fulminaque aetheria desiluisse domo?/non haec Pleiades faciunt
neque aquosus Orion,/nec sic de nihilo fulminis ira cadit;/periuras tunc ille
solet punire puellas,/deceptus quoniam flevit et ipse deus " (II, 16,
47-54), non sempre Giove ride calmo degli amanti spergiuri e con orecchie sorde
trascura le preghiere. Hai visto i tuoni trascorrere per tutto il cielo e i
fulmini saltati giù dalla dimora eteria? Questi non sono effetti delle Pleiadi
né del piovoso Orione, né così cade dal niente l'ira del fulmine; allora quello
suole punire le ragazze spergiure, poiché anche lui stesso, un dio, pianse
ingannato.
E' questo il ribaltamento del gioco sofistico che abbiamo spiegato nel capitolo
precedente. Anzi, secondo Pasquali "l'ultimo verso par quasi una risposta alla
elegia citata dal primo libro di Tibullo (I 4, 21) pubblicato appunto in quello
stesso torno di tempo: come lì Giove perdonava, conscio di aver dato lui il
cattivo esempio, così qui punisce per dispetto degli inganni in cui egli è
caduto"[33].
Properzio in un'altra elegia del medesimo libro fa dipendere la malattia di
Cinzia non tanto dal caldo canicolare quanto dal fatto che la fanciulla non ha
rispettato gli dèi:" venit enim tempus, quo torridus aestuat aer,/ incipit et
sicco fervere terra Cane./sed non tam ardoris culpa est neque crimina
caeli,/quam totiens sanctos non habuisse deos " (II, 28, 5-6), è venuto il
tempo nel quale l'aria ribolle torrida, e la terra comincia a bruciare per la
Canicola assetata. Ma la colpa non è tanto del caldo né delitto del cielo,
quanto non avere considerati santi gli dèi. Il
tovpo"
degli spergiuri si trova anche in un'altra elegia di Tibullo, quella contro il
fanciullo Maratho (I, 9). Il poeta all'inizio utilizza il motivo della sera
numinis vindicta , la punizione divina che tarda ma arriva contro gli
spergiuri:" Ah miser, et siquis primo periuria celat,/sera tamen tacitis
Poena venit pedibus!" (vv. 3-4), ah sciagurato, se qualcuno in un primo
momento nasconde gli spergiuri, la punizione arriva comunque anche se tardi con
piedi silenziosi. "Pure Tibullo ha inteso dire, e spera sia vero, che
spergiurare è lecito ai belli, ma per una sola volta: parcite, caelestes;
aequum est impune licere/numina formosis laedere vestra semel "[34]
(vv. 5-6), risparmiatelo, Celesti, è giusto che ai belli sia lecito, una sola
volta tradire impunemente il vostro nume. Tra l'altro il tradimento del ragazzo
è inquinato e aggravato dall'oro, la "comune bagascia del genere umano";
l'universale mezzana che "profuma e imbalsama come un dì di Aprile quello che un
ospedale di ulcerosi respingerebbe con nausea"[35].
Ma leggiamo il latino:"Admonui quotiens:"Auro ne pollue formam;/saepe solent
auro multa subesse mala./Divitiis captus siquis violavit amorem,/asperaque est
illi difficilisque Venus " (vv. 17-20), l'ho avvisato tante volte: non
inquinare la bellezza con l'oro; spesso sotto l'oro sogliono essere posti molti
mali. Se qualcuno ha profanato l'amore sedotto dalle ricchezze, per lui Venere è
dura e ostile. "Questa è un'altra delle variazioni dell'antico motivo, adoprato
con tutta libertà dai poeti, secondo ne viene loro il destro: lo spergiuro
contro l'amore, se uno vi si induce per denaro, è il meno perdonabile di tutti"[36].
Ma in questa ode di
Orazio nota Pasquali, è tutto" scherzo: Venere, le Ninfe del suo corteggio,
Cupido il quale pur si compiace di aguzzare dardi ardenti sur una cote, che, a
forza di sfregarsi ad essi, si macchia di sangue, non solo perdonano ma si
divertono dello spergiuro"[37].-simplices
:"Le Ninfe sono dette simplices, perché esse che per lo più si vendicano
atrocemente di chi le offende impossessandosi di lui, rendendolo
kavtoco",
soggetto, numfovlhpto"
[38],
posseduto dalle ninfe appunto, impazzandolo, questa volta perdonano: faciles
Nymphae risere
[39] , scrive Virgilio (ecl.
III, 9)"[40].
-ferus et =et ferus.
"La posposizione dell'et è un'eleganza neoterica, di origine
alessandrina"[41].
Ferus deriva dalla radice indoeuropea *dher- che ha dato esito, in
greco qhr- da cui
qhvr, qhrov", animale selvatico e
qhvra, caccia; in latino fer- da
cui, oltre ferus, fera, ferinus, ferox. Perfino la ferocia di Cupido
armato di frecce insanguinate, della fiamma di Efesto, e incline ad un' ira
simile a quella dei flutti[42]
si dissolve in una risata.-ardentis=ardentes.-cote: in
allitterazione con cruenta, è la pietra per affilare.
Leggiamo la penultima strofa:" Adde quod pubes tibi crescit omnis,/servitus
crescit nova, nec priores/impiae tectum dominae relinquunt,/saepe minati " (vv.
17-20), aggiungi che i giovani crescono tutti per te, per te crescono nuovi
schiavi, né quelli di prima lasciano la casa dell'empia padrona benché lo
abbiano minacciato spesso.- servitus: variante del servitium,
sempre alla donna padrona.-dominae: abbiamo visto quanto sia presente
questa parola nel linguaggio amoroso dei latini, mentre non ce n'è una
corrispondente in quello dei Greci. La donna imperiosa e poco pia invece è molto
presente nella letteratura (e nella vita) italiana: trova infatti un mercato
ricco di poveri maschi che non hanno elaborato la matriarca, spesso una vera e
propria strega:"Nel vedermi aggirar per casa come una mosca senza capo, quella
bufera di femmina mi lanciava certe occhiatacce, lampi forieri di tempesta.
Uscivo per levar la corrente e impedire la scarica. Ma poi temevo per la mamma,
e rincasavo"[43].
Questo è Mattia Pascal compresso tra la suocera la moglie e la madre prima di
"morire".
Leggiamo l'ultima strofa:" Te
suis matres metuunt iuvencis,/te senes parci miseraeque, nuper/virgines, nuptae,
tua ne retardet/aura maritos" (vv. 21-24),
le madri temono te per i loro vitelloni, te i
vecchi parsimoniosi e le povere ragazze appena sposate, che il tuo profumo
ritardi i mariti.-matres metuunt : c'è l'adattamento alla pericolosa
milizia dell'amore del tovpo"
epico e tragico delle madri che temono per i
figli andati in guerra. Non solo le guerre dunque sono detestate dalle madri
(Cfr. Ode I, 1, 24-25:" bellaque matribus/ detestata).
Il tovpo"
delle madri e delle compagne sbigottite dalla bellezza suprema della donna
fatale si trova pure nell' ode All'amica risanata di Foscolo:"
tornano/ i grandi occhi al sorriso/insidïando; e vegliano/per te in novelli
pianti/trepide madri e sospettose amanti" (vv. 16-18). A volte del resto queste
fatalone sono un bluff: l'innamorato a vita di Màrquez "diffidava del
tipo sensuale, quelle che sembravano di mangiarsi crudo un caimano e che di
solito a letto erano le più passive"[44].-aura:
Pasquali, dal quale mi permetto di dissentire, la interpreta non come l'odore ma
"il venticello che, spirando dalla donna bella, ritarda i mariti avviati verso
casa"[45].
Pasquali sostiene che anche questa ode con il timore delle madri del v. 21
attesta le maggiori possibilità di un matrimonio d'amore nella società romana
del tempo di Augusto rispetto a quella ellenistica rispecchiata dalla commedia
latina ( plautina in particolare: vengono menzionate l'Aulularia, la
Cistellaria e il Trinumnus ) e che l'ultima strofa suppone "una
società" nel senso moderno". In altre parole le signore romane erano più libere
delle donne ellenistiche le quali "non partecipavano né a banchetti né a
conversazioni se non erano regine o etere"[46].
Una affermazione che non sembra congruente con il personaggio di Barine. Forse
il filologo vuol dire che le matrone potevano subire uno sfavorevole giudizio
comparativo da parte dei loro uomini quando partecipavano ai banchetti magari in
compagnia di tali affascinanti etere, cosa che per le spose greche non era
possibile come fa notare Cornelio Nepote (100-27 a. C.) nella Praefatio
alle Vitae :"quem enim Romanorum pudet uxorem ducere in convivium? aut
cuius non mater familias primum locum tenet aedium atque in celebritate versatur?
quod multo fit aliter in Graecia. nam neque in convivium adhibetur nisi
propinquorum, neque sedet nisi in interiore parte aedium, quae gynaeconitis
appellatur, quo nemo accedit nisi propinqua cognatione coniunctus ", chi
infatti tra i Romani si perita di portare la moglie al banchetto?o quale matrona
non occupa il primo posto della casa e non si aggira nella parte più
frequentata? Ciò avviene molto diversamente in Grecia. Infatti non è ammessa se
non ai banchetti dei parenti né può trattenersi se non nella parte più interna
della casa , che si chiama gineceo, dove nessuno entra se non è legato da
stretta parentela.
Questa distinzione entra nel tovpo"
di origine erodotea del relativismo culturale: nella stessa Praefatio al
Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium Cornelio Nepote afferma
che dalla sua opera si può imparare:"non eadem omnibus esse honesta atque
turpia ", che non sono uguali per tutti gli atti onorevoli e turpi, tant'è
vero che a Sparta le vedove, anche nobili, partecipano ai banchetti "mercede
", per denaro. Come si vede un costume indicativo, decisivo per la vita di
tutti, come la condizione della donna, può variare nel giro di non molti
chilometri.
Quanto alla congruenza con questo capitolo possiamo dire che la partecipazione
di mogli, mariti, e amanti degli uni e delle altre ai banchetti apre spazi alla
gelosia di tutti contro tutti e alle ferite delle schermaglie amorose come
vedremo in Lucrezio e come sappiamo bene.
Chi si
intende non poco di schermaglie e battaglie amorose è Ovidio.
Negli Amores scrive:"Militat
omnis amans, et habet sua castra Cupido;/Attice, crede mihi, militat omnis amans
"(I, 9, 1-2), è un soldato ogni amante; anche Cupido ha il suo campo di guerra;
Attico, credimi, ogni amante è un soldato. "La ripetizione del primo emistichio
dell'esametro nel secondo emistichio del pentametro, che ha qui lo scopo di dare
enfasi alla sententia sottolineando il concetto, è un tratto tipico
dello stile ovidiano...la sua frequenza in Ovidio è forse da attribuire
all'influenza della figura retorica della conduplicatio e all'effetto
musicale che tutte le figure di ripetizione donano al testo"[47].
Nel teatro di Plauto “le metafore militaresche ricorrono anche con grande
frequenza in connessione con la sfera erotica (militat omnis amans! ),
gli “assalti” divengono assalti amorosi, le “spade” falli priapescamente
sguainati, le “prigionie” e le sconfitte prigionie e sconfitte d’amore”[48].
Ovidio, fa pure notare il Conte,
opera un "rovesciamento della tradizione elegiaca precedente" nella quale
"l'amore con la sua forza irresistibile sottrae il poeta ai negotia
della vita civica chiudendolo in uno spazio sostitutivo dei valori della
comunità". Gli elegiaci infatti "dichiarano il loro essere prigionieri (e
prigionieri consapevoli) della nequitia , dunque il loro non essere buoni
cittadini, e propongono un sistema di valori alternativo a quello socialmente
approvato". Ovidio ribalta tale tradizione affermando che l'amore "riscatta il
poeta dall'ignavia e dalla segnities perché l'amore è guerra,
e richiede e sviluppa nell'innamorato le stesse qualità fisiche e psicologiche
che l'esercizio della guerra richiede e sviluppa nel soldato. L'amante-questo
l'assunto dell'elegia, paradossale se si pensa all'antimilitarismo dei primi
elegiaci-è perfettamente uguale al soldato e come quello dotato di forza,
intraprendenza, attivismo. In questa identificazione tra sfera galante e
sfera militare, il repertorio tematico della militia amoris con tutto il
suo lessico militare conosce un utilizzo a pieno campo, senza avere più tuttavia
quella intenzione antifrastica che lo distingueva nell'elegia di Tibullo e di
Properzio; e la tesi viene portata avanti adottando una delle tecniche che si
studiavano nelle scuole di retorica del tempo, quella della comparatio (
confrontando due diverse realtà, se ne mostrano somiglianze e divergenze)"[49].
Quella erotica è una guerra
nella quale al poeta non dispiacerebbe morire:"Felix, quem Veneris certamina
mutua perdunt;/di faciant, leti causa sit ista mei " (Amores, II, 11,
29-30), fortunato quello che mandano in rovina le reciproche lotte di Venere,
gli dèi facciano che questa sia questa la causa della mia morte!
Nell'Ars amatoria il poeta
magister di erotismo insegna che Amore è ferus , selvaggio (I,
9), crudele come Achille, saevus
[50] uterque puer
(I, 18), e chi gli si accosta deve accettare di armarsi come per una battaglia
(miles in arma venis , I, 36) o almeno come per andare caccia. L'uomo al
pari del cacciator che sa bene dove tendere le reti ai cervi, (scit bene
venator, cervis ubi retia tendat , I, 45) deve imparare a conoscere i
luoghi frequentati dalle donne: portici, templi, fori, fontane, ma soprattutto
i teatri ( sed tu praecipue curvis venare theatris , I, 89, ma tu
soprattutto vai a caccia nei curvi teatri ) dove il figlio di Venere fa spesso
le sue battaglie e chi ha osservato lo spettacolo di ferite, ha una ferita:"Illa
saepe puer Veneris pugnavit arena /et ,qui spectavit vulnera, vulnus
habet " I, 165-166.
L'anfiteatro dunque è un luogo di
battaglie e ferite raccomandato per gli incontri erotici che hanno una
componente conflittuale come i ludi del circo. Le donne più raffinate si
precipitano ai giochi più frequentati:"Spectatum veniunt, veniunt spectentur
ut ipsae/; ille locus casti damna pudoris habet" (I, vv. 99-100), vengono
per osservare, vengono per essere loro stesse osservate; quel luogo contiene
perdite del casto pudore.-spectatum…spectentur ut (=ut spectentur):
poliptoto con due costruzioni della finale: il supino indica uno scopo più
generico; ut+ il congiuntivo è maggiormente connotato dalla volontà.
Contro il teatro.
In Madame Bovary il curato
di Yonville sembra condividere l'opinione di Ovidio sul lenocinio dei teatri, i
quali però, dato il punto di vista critico, autorizzato da "tutti i Santi
Padri", vengono sconsigliati:"So anch'io" obiettò il curato, "che esistono buone
opere, buoni autori, tuttavia, non fosse altro, tante persone di sesso diverso
riunite in un locale seducente, ornato di pompe mondane, e poi tutti quei
travestimenti pagani, tutto quel belletto, tutti quei candelabri, tutte quelle
voci effemminate, tutto insomma deve ingenerare alla fin fine un certo
libertinaggio dello spirito e suggerirti pensieri disdicevoli, tentazioni
impure. Almeno questa è l'opinione di tutti i Santi Padri. Infine…se la chiesa
ha condannato gli spettacoli, significa che aveva la sua ragione di farlo:
occorre sottometterci ai suoi decreti"[51].
Tertulliano (160 ca-220ca d. C) nel De spectaculis (del 200 ca d.
C.) predica contro teatri e circhi in quanto tutta la messinscena degli
spettacoli trae la sua essenza ex idolatria (IV, 3) dall'idolatria. Già
nel precedente Apologeticum (197 d. C.) il teologo afferma che i sensi
puri dei cristiani non hanno nulla in comune con la follia del circo né con
l'impudicizia del teatro (cum impudicitia theatri ) né con la
crudeltà dell'arena (cum atrocitate arenae) né con la vanità del portico
(38).
Del resto anche Seneca aveva
condannato l'efferatezza dei giochi circensi quali mera omicidia ( ep.
7), omicidi veri e propri, e prima di lui Platone aveva biasimato gli
spettacoli troppo frequenti e la conseguente cattiva teatrocrazia[52]
madre della licenza.
Ancora una volta il cristianesimo
appare "un platonismo per il popolo"[53]
.
Questa linea platonico-cristiana
di avversione per i teatri si riscontra fra i puritani del Seicento: il Lord
Protector Cromwell (1599-1658) fece chiudere i teatri durante la sua
tirannide e, per quanto riguarda la presenza di tale ostilità nel Nuovo Mondo,
sentiamo La lettera scarlatta di Hawthorne, pubblicata nel 1850 ma
ambientata nella Boston puritana del XVII secolo:"inutilmente si sarebbe
immaginato di vedere quel popolo abbandonarsi ai divertimenti popolari che erano
in uso in Inghilterra sotto la regina Elisabetta o sotto re Giacomo. Niente
spettacoli teatrali, né musiche di sonatori ambulanti, né canzoni di
menestrelli, né trucchi di giocolieri, né lazzi di saltimbanchi. Il fondo del
carattere di questa gente-s'è detto-era triste, e tutti questi professionisti
dell'allegria sarebbero stati scacciati non soltanto dalla legge, ma dal
sentimento popolare che conta assai più della legge"[54].
Sulla protagonista del romanzo una donna bella e fine, marchiata e messa al
bando da questa gente tetra, torneremo più avanti.
Ora torniamo però alla componente
combattiva, o almeno agonistica, che dai ludi circensi si riflette nei cercatori
di incontri amorosi, e che sembra comunque riguardare ogni rapporto erotico.
"Eros si associa a Eris, Lotta,
quella Eris che Esiodo, nelle Opere e Giorni , colloca "alle radici della
terra" (v. 19)"[55].
Anche nel grande amore di Anna Karenina
e Vronskij a un certo punto entra la cattiva Eris, ossia lo spirito
della competizione distruttiva dovuta al fatto che lui era in allarme per la
propria autonomia minacciata dall'amante; ella a sua volta:" sentì che, a fianco
dell'amore che li univa, fra loro si era insediato un certo malvagio spirito
di dissidio e che lei non poteva scacciarlo dal cuore di lui, né, ancor
meno, dal proprio"[56].
Perfino le espressioni di approvazione diventano sospette e allarmanti quando
l'amore, in uno solo dei due, è in fase calante:" C'era qualcosa di offensivo
nel fatto che egli avesse detto:"Questo sì che va bene", come si dice ai bambini
quando smettono di fare i capricci; e ancor più offensivo era quel contrasto fra
il tono di colpa che aveva lei e quello sicuro di sé di lui: e per un istante
Anna sentì sollevarsi dentro di sé il desiderio di lotta; ma, fatto uno sforzo
su se stessa, lo soffocò e accolse Vrònskij con la stessa allegria di prima" (p.
746). Tuttavia la simulazione non regge:" anche sapendo che si rovinava, non
poté non fargli vedere quanto lui avesse torto, non poteva sottomettersi" (p.
747),
Capita spesso, quasi sempre purtroppo, che gli amanti diventino nemici.
Ne Le nozze di figaro di Mozart-Da Ponte (del 1786) Marcellina in
un'aria (IV, 5) lamenta l'ostilità degli uomini verso le donne. Sono gli unici
maschi del mondo a odiare le femmine della loro specie:" Il capro e la
capretta/son sempre in amistà./L'agnello all'agnelletta/ la guerra mai non fa./
Le più feroci belve/per selve e per campagne/lascian le lor compagne/in pace e
in libertà./ Sol noi, povere femmine,/che tanto amiam quest'uomini/trattate siam
dai perfidi/ognor con crudeltà".
In D'Annunzio la donna non poche volte è la nemica, come Ippolita Sanzio
lo è di Giorgio Aurispa nel Trionfo della morte (del 1894) di cui cito
la conclusione :" Fu una lotta breve e feroce come tra nemici implacabili che
avessero covato fino a quell'ora nel profondo dell'anima un odio supremo. E
precipitarono nella morte avvinti".
Cito anche, per dare un esempio meno noto, alcuni versi di una poesia, di uno
dei massimi poeti ungheresi del Novecento, Endre Ady (1877-1919):" Sono
le nostre ultime nozze:/Ci strappiamo la carne a colpi di becco/e cadiamo sul
fogliame d'autunno" ( Nozze di falchi sul fogliame secco)
[57].
Fa rabbrividire, forse perché non
è del tutto falsa, una sentenza tragica del misogino suicida C. Pavese"Sono
un popolo nemico, le donne, come il popolo tedesco"[58].
E pure, con un pessimismo meno esteso ma più personalizzato:"Sono tuo amante,
perciò tuo nemico"[59].
Più avanti c'è invece una riflessione cosmica che può spiegare questa ostilità
interna alla coppia:" Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una
parte di sé, quella che si è superata, Zeus contro Tifone, Apollo contro il
Pitone. Inversamente, ciò contro cui si combatte è sempre una parte di sé, un
antico se stesso. Si combatte soprattutto per non essere qualcosa, per
liberarsi. Chi non ha grandi ripugnanze, non combatte"[60].
Il suicidio è la conseguenza di
tale impostazione contro natura poiché gli umani, e soprattutto le femmine e i
maschi umani dovrebbero provare simpatia e amore reciproci, come affermava
Seneca :" Natura nos cognatos edidit cum ex isdem et in eadem gigneret.
Haec nobis amorem indidit mutuum et sociabiles fecit
". (Epist. ad Luc. 95,
52), la Natura ci ha messi al mondo come parenti, siccome ci ha fatti nascere
con gli stessi elementi e per gli stessi fini. Questa ci ha ispirato un amore
reciproco e ci ha fatti socievoli. Innaturale è dunque l'odio tra gli uomini;
innaturalissimo quello tra i maschi e le femmine umane. Il medico del Macbeth,
vedendo la regina malata e udendola sussurrare parole orrende, fa la sua
diagnosi:"Unnatural deeds Do breed unnatural troubles" (V, 3), atti
innaturali generano turbamenti innaturali. Innaturale qui è stato il delitto
generato dall'ambizione.
Un
bel frammento di Menandro ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, che in natura
"niente è tanto congeniale come l'uomo e la donna, a guardarci bene". Come poeta
d'amore il massimo autore della commedia nuova[61]
non può trascurare o biasimare tale inclinazione reciproca.
L'inimicizia delle donne nei
confronti degli uomini ha avuto, almeno in passato, la genesi che Seneca
attribuisce a quella degli schiavi per i padroni:"non habemus illos hostes,
sed facimus (Epist. ad Luc. , 47, 5), non li abbiamo nemici, ma li
rendiamo tali.
C'è un romanzo di M. Kundera,
non uno dei più conosciuti, che ha un breve capitolo intitolato "La lotta"; ed è
lotta tra i sessi che viene presentata così:" Neanche lei pensava al piacere e
all'eccitazione. Si diceva: non ti lascerò, non mi scaccerai, lotterò per
tenerti. E il suo sesso che si muoveva su e giù si era trasformato in una
macchina da guerra che lei aveva messo in moto e guidava. Si diceva che quella
era la sua ultima arma, l'unica che le era rimasta, ma onnipotente. Al ritmo dei
suoi movimenti ripeteva fra sé, come il basso ostinato in una composizione
musicale: lotterò, lotterò, lotterò, e credeva di vincere...Il sesso di Laura si
muoveva con forza su e giù. Laura lottava. Lottava per Bernard. Ma contro chi?
Contro colui che stringeva a sé e poi di nuovo respingeva, per costringerlo ad
assumere un'altra posizione. Questa ginnastica estenuante sul divano e sul
tappeto, che li bagnava di sudore, che li lasciava senza fiato, assomigliava
alla pantomima di una lotta spietata: lei lottava e lui si difendeva, lei dava
ordini e lui ubbidiva"[62].
La storia di Didone.
Nella storia virgiliana di Didone
il dio Amore è associato al dolore attraverso ferite, incendi, fiamme, follia,
colpa e rovina.
Fin dal primo canto Venere invia
il figlio Cupido a Cartagine : "ut faciem mutatus et ora Cupido/ pro dulci
Ascanio veniat donisque furentem/ incendat reginam atque ossibus implicet ignem
" (Eneide I , 658-660) affinchè, mutato nel volto e nell'aspetto, vada
al posto del dolce Ascanio, con i suoi doni infiammi la regina alla follia e
faccia penetrare nelle ossa il fuoco d'amore.
L'ardore erotico che arriva alle
ossa è un locus reperibile già in Teocrito:"wj"
ejk paido;" [Arato" uJp& ojstevon ai[qet& e[rwti" (VII, 1O2), (sa Aristi
v. 99) come Arato arda fin sotto le ossa per amore di un ragazzo.
Del resto non diciamo anche noi
(almeno lo dicevamo noi ragazzi pesaresi tanti anni fa): "la amo fino
all'osso?".
Il fuoco d'amore è attestato fin
da Saffo che anzi inaugura il topos della cottura amorosa:"o[ptai"
a[mme" (fr. 38 Voigt), tu mi cuoci.
Così, ancora nel VII idillio di
Teocrito, c'è Licida ojpteuvomenon
(v. 55), cotto da Afrodite per Ageanatte.
Questo fuoco di Virgilio non è di
cottura né purificatore, ma deleterio, velenoso, ingannevole:"occultum
inspires ignem fallasque veneno " (I, v. 688), infondile un fuoco occulto e
ingannala con il veleno, ordina Cipride al figlio. L'amore è causa di
infelicità, è pestifero, mortale, e Didone innamorata di Enea è predestinata
alla rovina:" Praecipue infelix, pesti devota futurae,/expleri mentem
nequit ardescitque tuendo " (I, 712-713), sopra tutti l'infelice, consacrata
alla rovina imminente, non sa saziare il cuore e s'infiamma guardando.
L'infelicità connessa all'amore
prima ancora che questo si realizzi si trova pure nella storia di Medea
delle Argonautiche di Apollonio Rodio: quando la ragazza si avvia
incontro a Giasone, che è stato salvato da lei e le ha promesso le nozze, la
Luna la osserva e, con parole ambigue tra la simpatia e il dispetto, le dice: il
dio del dolore ("daivmwn ajlginovei"",
IV, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua sofferenza. Va' allora e
sopporta in ogni modo, per quanto sapiente tu sia, il dolore luttuoso.
Questo presunto amore di Medea e
Giasone non dona gioia ai due amanti, al punto che l'autore rivolge
un'apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: Eros atroce, grande
sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli&
[Erw", mevga ph'ma, mega stuvgo" ajnqrwvpoisin" (IV, 445) da te
provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano
per giunta. àrmati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti
l'accecamento odioso nell'animo di Medea (
oi'Jo" Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn",
v. 449).
La negazione della gioia secondo la Wolf non è implicita nell'amore in
sé ma al contrario deriva dall'odio per la vita. Ecco quanto Giasone nel suo
monologo ricorda di avere sentito da Medea:"Ma tu, ascolta bene quello che ti
dico, non fare del male a Glauce. Perché ti ama, ed è fragile, molto fragile…Non
ne proverai gioia. Non proverai mai più molta gioia. Le cose si stanno mettendo
in un modo che non solo quelli che sono costretti a subire un torto, ma anche
quelli che il torto lo fanno saranno scontenti della loro vita. Del resto mi
domando se il piacere di distruggere la vita degli altri non dipenda dal fatto
che si ricava pochissimo piacere e pochissima gioia dalla propria"[63].
Amore dunque per diversi autori è dolore, disgrazia, accecamento.
Abbiamo già visto che Catullo
usa la parola pestis in nesso allitterante con pernicies per
definire il proprio amore doloroso dal quale chiede agli dèi di liberarlo come
da una malattia non meritata (76, 20-22). Nella parola pestis è già
implicita l'idea ancora tanto conclamata dell'Aids, chiamata la peste del secolo
quando negli incidenti stradali muoiono ottomila persone all'anno e chissà
quante altre di cancro dovuto ai gas delle macchine.
Ma se i rapporti umani, in primis
quelli amorosi, non venissero sporcati, calunniati, annichiliti, gli uomini non
comprerebbero tante macchine
"In Apollonio e in Catullo era
presente la tragedia greca, specialmente Euripide. Anche Virgilio si riattacca
ad Euripide direttamente (e non solo attraverso Apollonio e Catullo): il IV
libro meglio degli altri dell'Eneide ci mostra come egli utilizzi e
fonda suggestioni non solo di autori vari, ma di autori che sono già tra loro in
un rapporto di dipendenza, quasi ponendosi coscientemente all'estremità di una
catena letteraria. Euripide poteva offrirgli spunti non solo per il personaggio
di Didone, ma anche, con Giasone o altri, per il personaggio di Enea."[64].
E' quella che Musil
definisce la "catena di plagi"[65]
che lega le grandi figure del mondo artistico l'una all'altra.
Su Catullo come primo anello
latino di questa catena che rende malato l'amore sentiamo P. Fedeli:"Grazie
a Catullo una nutrita serie di vocaboli acquista diritto di cittadinanza nel
linguaggio d'amore: basterà ricordare la definizione dell'amore come dolor
(2 7) ardor (2 8) cura (2 10; 68 51), ma anche come morbus
(76 25) , come pestis e pernicies che s'insinua nelle membra
simile a un torpor (76 20) e le divora (31 15) ; oppure la definizione
dell'amata come desiderium (2 5); dell'innamorato come vesanus
(7 10) miser (8 1; 51 5) e dell'innamorata che si strugge come
misella (31 14); dell'innamoramento come equivalente dell'ineptire
(8 1), del perdite amare (45 3) dell'amore deperire (35 12), del
tabescere (68 55) dell'ardere (68 53)"[66].
L'ardore e il fuoco a dire il vero
sono già presenti negli amorazzi dei giovani della commedia:"Sperabam iam
defervisse adulescentiam :/ gaudebam. Ecce autem de integro! " fa Micione
negli Adelphoe (v. 151-152) a proposito del nipote, speravo che fossero
sbolliti quegli ardori giovanili: me ne rallegravo. Ecco invece di nuovo.
L'amore in ogni caso secondo
questi autori fa male, rende infelici, malati, ferisce, consuma, brucia. "Deve"
fare male poiché chi lo vive senza sensi di colpa è meno intimidibile e
ricattabile; insomma è meno soggetto al potere, ai tempi di Augusto come ai
nostri. Abbiamo già sentito Orwell. Ora leggiamo sullo stesso motivo
D. H. Lawrence (1885-1930):"C'è un desiderio incoffessato, implacabile,
dietro a tutte le teorie del sesso. Ed è desiderio di annullare, di cancellare
completamente il mistero della bellezza. (…) La scienza ha una misteriosa
avversione per la bellezza, in quanto non riesce a sistemarla adeguatamente
nella visione che essa ha del mondo come serie di cause ed effetti. La società a
sua volta ha una misteriosa avversione per il sesso, in quanto interferisce
perpetuamente con la organizzazione bene ordinata che l'uomo sociale ha
inventato per fare quattrini. Le due avversioni si assommano e ne risulta che il
sesso e la bellezza sono soltanto espressioni dell'istinto di riprodursi. E
allora diciamolo: il sesso e la bellezza sono una cosa sola, come la fiamma e il
fuoco. Se provi odio per il sesso, lo provi anche per la bellezza. Se ammiri la
bellezza vivente, provi rispetto anche per il sesso…La sventura della
nostra civiltà deriva dall'odio morboso che proviamo per il sesso"[67].
Wilhelm Reich
considera il terrorismo sessuale inflitto ai bambini come un'arma che ammorba la
vita erotica e nello stesso tempo annienta per sempre la loro
indipendenza:"L'inibizione morale della sessualità naturale del bambino, la cui
ultima tappa è una grave limitazione della sessualità genitale del
bambino piccolo, rende quest'ultimo pauroso, timido, timoroso dell'autorità,
ubbidiente, "buono" ed "educabile" in senso autoritario: l'inibizione morale
paralizza, perché ormai ogni impulso libero e vivo è affetto da grave paura e
provoca, attraverso la proibizione del pensiero sessuale, una generale
inibizione del pensiero e una incapacità critica; in breve il suo obiettivo è la
creazione di un suddito che si adatti all'ordine autoritario e lo subisca
nonostante la miseria e l'umiliazione"[68].
Non solo il cristianesimo si è
adoperato per l'infibulazione mentale delle nostre donne.
La fobia del sesso
fa parte della propaganda di qualsiasi regime.
Tante volte deriva della storia personale e, quando è espressa da autori maschi,
deve essere collegata alla paura delle donne. Faccio un esempio che accosta,
addirittura, Aristofane a Manzoni. Nelle Rane il personaggio
Eschilo si vanta di non avere mai fatto agire nei suoi drammi Fedre né Stenebee
puttane (povrna",
v. 1043) e anzi di non avere mai creato una donna in amore ("
ejrw'san pwvpot& ejpoivhsa gunai'ka",
v. 1044). Il personaggio Euripide ribatte maliziosamente che nei drammi del
rivale in effetti non c'è nulla di Afrodite (1045), ossia non c'è grazia.
Ebbene lo stesso merito, dubbio assai, se lo attribuisce Manzoni nel
Fermo e Lucia :" Non si deve scrivere di amore in modo da far consentire
l'animo di chi legge a questa passione. Di amore ce n'è seicento volte di più di
quanto sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo
dunque opera impudente l'andarlo fomentando con gli scritti". A queste parole
dell'autore aggiungo alcune frasi prese da una tesi di abilitazione
all'insegnamento secondario di una giovane laureata della SSIS di Bologna:"Il
carattere di Lucia è architettato sulla base d'un sistema che uccide il
pensiero…Le sue aspirazioni, il suo voto incontrano freddezza nel lettore di
cuore sano; essa appare o insipida o egoista e tutta la maestria della
disposizione non basta a infondere sangue a quella creazione…Lucia fa olocausto
di sé sull'altare di un sistema"[69].
Questo maniaco dell'antisesso, si noti, è un moderato e uno che si dice
cristiano. Eppure il Cristo disse bene della peccatrice :"Remissa sunt
peccata eius multa, quoniam dilexit multum, cui autem minus dimittitur, minus
diligit " (Luca, 7, 47), le sono perdonati i suoi molti peccati poiché ha
amato molto, quello invece cui si perdona meno, ama meno. E' una di quelle
splendide pagine del Vangelo che sono ignorate o fraintese dai furfanti bigotti
i quali adulterano le parole sante. A tale categoria appartiene "la vecchia
Bovary" la quale, quando il farmacista propose di chiamare sua nipote Madeleine
"protestò aspramente contro quel nome di peccatrice"[70].
Tolstoj ci scherza sopra con intelligenza:" I libertini, queste
Maddalene di sesso maschile, hanno un segreto senso della propria innocenza, né
più né meno come le Maddalene femminili, e basato sulla medesima speranza di
perdono:"Tutto le sarà perdonato, perché ha molto amato; e a lui tutto sarà
perdonato, perché si è molto divertito"[71].
Per quanto riguarda la bellezza della figura di Maddalena, "Maria Magdalene
" (Luca, 24, 10) consiglio vivamente la visione di quella di Masaccio
col manto rosso sangue, i lunghi capelli biondi e le braccia alzate a V, come a
significare la prossima vittoria sopra il dolore della morte (Crocifissione
del 1426, Napoli, Museo di Capodimonte).
La storia dolorosa di Didone
riprende dall'incipit del quarto canto dell'Eneide :"At regina
gravi iamdudum saucia cura/volnus alit venis et caeco carpitur igni " (vv.
1-2) ma la regina, già da tempo ferita da pesante affanno, /ravviva nelle vene
la piaga ed è divorata da un fuoco nascosto.-at: la congiunzione
avversativa connette il primo verso di questo canto all'ultimo del terzo con il
quale Virgilio dichiara concluso il racconto di Enea, capace, come Odisseo, di
sedurre attraverso le parole il cui lungo fluire ha messo in agitazione la
regina mentre ha dato finalmente quiete all'eroe che ha raccontato se stesso:"Conticuit
tandem factoque hic fine quievit" (III, 718), tacque infine e posto qui un
termine si riposò. Nel primi versi del quarto canto si può già leggere il
preludio della fine tragica nelle "metafore comuni del sermo amatorius
(ferita, fuoco, malattia, veleno): esse appartengono tutte, oltre che a una
tradizione letteraria antica e diffusa, a un altrettanto antica e diffusa
psicologia popolare, che interpreta l'esperienza amorosa in termini
prevalentemente pessimistici, e la giudica negativamente (l'amor è, insomma,
amor insanus). Al primo verso, costruito su una struttura a chiasmo
(a-b/b-a), il secondo contrappone una doppia allitterazione (volnus…venis;
caeco carpitur)"[72].
"Nel libro I è soprattutto l'humanitas
che caratterizza Didone; una humanitas divenuta carattere e sensibilità
oltre che coscienza morale, consistente soprattutto nella capacità, da parte di
chi ha molto sofferto, di comprendere i dolori degli altri e nella disposizione
a soccorrerli"[73].
Il verso espressivo di questo tw/' pavqei
mavqo" virgiliano è:" non ignara mali miseris succurrere disco ",
I, 630, non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati. Questa
humanitas , echeggiata ancora dalle prime parole del Decameron
:"Umana cosa è l'aver compassione degli afflitti"[74],
non verrà contraccambiata da Enea.
Eppure questo è uno degli
insegnamenti massimi dei nostri autori e della scuola :"E infine, possiamo
imparare la lezione fondamentale della vita, la compassione per le sofferenze di
tutti gli umiliati, e la comprensione autentica"[75].
"All'inizio del libro IV Didone è
già immersa nella sua passione tormentosa ed è profondamente mutata; ma Virgilio
non s'è preoccupato di farci seguire e capire a fondo il mutamento e dell'humanitas
del libro I è difficile ritrovare tracce nel libro IV: il nuovo punto di
partenza del dramma è la sofferenza della donna ferita d'amore...la metafora
della ferita per significare l'amore...proviene dalla poesia greca, specialmente
da quella alessandrina, ed è spesso associata con l'immagine di Cupìdo, il
figlio di Venere, che ferisce con le sue frecce. (da una freccia del dio, per
es. , è ferita Medea nella scena dell'innamoramento in Apollonio Rodio III 275
sgg...L'aggettivo (saucia ) ha una sua tradizione di pathos erotico[76]",
da Ennio, già citato, a Catullo cui Virgilio allude :"multiplices
animo volvebat saucia curas ", 64, 250, volgeva ferita nell'animo molti
pensieri affannosi. Si tratta, naturalmente, di Arianna. La Penna-Grassi
menzionano pure Lucrezio:"idque petit corpus, mens unde est
saucia amore " (IV, 1O48), ed essa (la voluntas eicere , il
desiderio di eiaculare dove si indirizza la dira libido , la brama
funesta) cerca quel corpo da cui la mente è ferita d'amore. All'amore in
Lucrezio dedicheremo diverse pagine più avanti.
Per quanto riguarda igni
(v. 2) "il poeta passa facilmente dalla metafora della ferita, a quella, ancora
più diffusa, del fuoco...E' notevole che Apollonio Rodio nella scena
dell'innamoramento (III 286 s.) unisca già le due immagini:"la freccia
(scagliata da Eros) alla giovinetta bruciava sotto il cuore simile a fiamma"[77].
"Multa viri virtus animo
multusque recursat/gentis honos haerent infixi pectore voltus/verbaque nec
placidam membris dat cura quietem" (vv. 3-5), il gran valore dell'eroe e la
grande gloria della stirpe le ricorrono al pensiero, le sembianze e le parole le
stanno ficcate nel cuore e l'affanno non concede alle membra un riposo
tranquillo.
Questi primi versi, prefigurando
la catastrofe finale, presentano l'amore come tormento: le sembianze e le parole
di Enea, invece di procurare gioia alla regina, sono infissi nel petto come
dardi dolorosi e Didone, al contrario di Enea, non trova riposo. Diverso,
sproporzionato è dunque l'investimento, e questa è la prima causa che crea
dolore negli amanti, tragicamente in uno dei due. Gli strumenti seduttivi di
Enea, oltre la virtus raccontata e connessa pure etimologicamente al
vir che ne è dotato[78],
sono l'aspetto bello (voltus, non per niente Enea è figlio e protetto di
Venere che lo ha pure imbellito[79])
e le parole (verba). Sono gli eterni mezzi del seduttore; gli stessi che
usa Odisseo, anche lui infatti abbellito dalla sua dea che è Atena[80].
L'imbellimento è la pienezza
della propria identità.
La somiglianza più alta dell'essere umano è quella con gli dèi immortali. La
consegue Odisseo (qeoi'si e[oike,
Odissea , VI, 243) quando Atena lo imbellisce per renderlo più gradito a
Nausicaa (Odissea , VI, vv. 229 e sgg.). Questo assimilarsi a dio
costituisce per la creatura dotata la più alta forma di assimilazione a se
stesso, il massimo della sua identità;"Quando è privo di ogni charis ,
l'essere umano non assomiglia più a nulla: è aeikelios . Quando ne
risplende, è simile agli dei, theoisi eoikei . La somiglianza con se
stessi, che costituisce l'identità di ciascuno e si manifesta nell'apparenza che
ognuno ha agli occhi di tutti, non è dunque presso i mortali una costante,
fissata una volta per tutte. Tra i due poli opposti del non rassomigliare a
nulla e del rassomigliare agli dèi, essa si situa in posizioni variabili a
seconda del prestigio o della celebrità di cui uno gode, della paura e del
rispetto che uno ispira...La grazia e la bellezza del corpo, facendo vedere chi
siete, danno la misura della vostra time , della vostra dignità o della
vostra infamia"
Viceversa:"A volte capita che anche gli uomini tentino di fare ciò che gli dèi
possono realizzare facilmente, ma in peggio, quando cercano di distruggere nel
cadavere di un nemico odiato ogni rassomiglianza del morto con lui stesso.
Oltraggiando il suo corpo, sfigurandolo, strappandogli la pelle, smembrandolo,
lasciandolo imputridire al sole o divorare dagli animali, si vuol far scomparire
ogni traccia della sua figura e della sua antica bellezza per non lasciare di
lui che orrore e mostruosità. Oltraggiare-cioè imbruttire e disonorare a un
tempo-si dice aeikizein , rendere aeikes o aeikelios ,
non simile"[81].
Per comprendere questa riflessione bisogna ricordare che
aj-eikhv"
, è formato sulla radice eijk-/oijk-/ijk-
come e[oika,
"sono simile", quindi significa "indegno" e "dissimile", ossia, secondo Vernant,
indegno di se stesso e dissimile da se stesso
L'amore è dolore,
affanno, o disgusto, ed è anche colpa: subito dopo la regina, parlando
con la fida sorella Anna, celebra l'eccezionalità dell'ospite troiano e
aggiunge che se non le fossero venuta in odio i letti e la fiaccole nuziali (si
non pertaesum animi taedaeque fuisset, v. 18) forse solo per l'ospite
troiano avrebbe potuto soccombere alla colpa:"huic uni forsan potui
succumbere culpae " (v. 19).
"Le vedove in Roma, pur essendo
loro concesso dalla legge un nuovo matrimonio, ritenevano degno d'onore
mantenersi univirae, cioè donne che avevano un solo marito"[82].
Questo naturalmente secondo gli antiqui mores al cui ripristino Virgilio
vuole contribuire.
La fiaccola del resto è latrice di
significato simbolico ambivalente: evoca le nozze ma anche i funerali, come
risulta da questo verso di Properzio dove Cornelia dice :"viximus insignes
inter utramque facem" (IV, 11, 46), sono vissuta nella luce tra l'una e
l'altra fiaccola (quella delle nozze e quella del rogo funebre). Tale fax
ambigua ritroveremo nei Remedia amoris di Ovidio (v. 38).
C'è da notare che da Virgilio non
viene altrettanto incolpato l'amore omosessuale: Niso ardeva per il bell'Eurialo
"amore pio " (Eneide , V, 296) di un amore santo.
Poco dopo Didone aggiunge che
dopo la morte di Sicheo solo Enea ha scosso i suoi sensi e ha colpito l'animo in
modo da farlo vacillare:"Adgnosco veteris vestigia flammae " (v. 23),
riconosco i segni dell'antica fiamma. Se ne ricorderà Seneca nella Medea
la cui nutrice vedendo la furia della moglie tradita dice:"irae novimus
veteris notae " (v. 394), conosco i segni dell'antica ira, poi Dante
facendone una traduzione letterale nel Purgatorio ("conosco i segni
dell'antica fiamma", XXX, 48). Ogni autore conosce la tradizione e se ne avvale
come base aggiungendo del suo. Così l'edificio cresce.
Dare retta a un impulso amoroso
viene vissuto dalla regina come una violazione del pudore, (Pudor , v.
27) considerato al pari di una divinità la cui offesa sarebbe meritevole di
morte, una punizione che la "spudorata" si infliggerà da sola.
Pudor (da pudeo)
e aijdwv" da
aijdevomai, mi vergogno.
"Pudor (è) senso morale
per cui si prova scrupolo e ripugnanza davanti a tutto ciò che nega i valori
morali e religiosi. E' affine all' aijdwv"
dei Greci, ma ha vitalità molto maggiore: la Pudicitia era una divinità
oggetto di un culto importante; al culto della Pudicitia patricia la
plebe aveva affiancato e contrapposto un culto della Pudicitia plebeia "[83].
Valerio Massimo nel proemio del VI libro invoca la Pudicitia:"virorum
pariter ac feminarum praecipuum firmamentum ", solido fondamento nello
stesso tempo per donne e uomini. Ella appunto è stata onorata come una dea:"Tu
enim prisca religione consecratos Vestae focos incolis, tu Capitolinae Iunonis
pulvinaribus incubas…[84]",
tu infatti abiti i focolari consacrati a Vesta dall'antico culti, tu giaci sui
cuscini di Giunone Capitolina.
Di fatto il latino ha assunto non
solo la funzione di lingua dei signori, come viene rilevato da Renzo ne I
promessi sposi , una funzione oramai tramontata, ma anche quella, tuttora
attuale di lingua del pudor : quando in italiano si vogliono evitare
termini sessuali pesanti si ricorre alla parola latina. Può bastare il solo
esempio di fellatio .
Il pudore
(aijdwv" )
è considerato già da Esiodo uno dei pilastri
(l'altro è Nevmesi",
la giustizia distributiva) del vivere umano e civile: quando se ne andranno
dalla terra non ci sarà più scampo dal male (Opere, 200-201).
L'
aijdwv" , la vergogna, ossia la
riservatezza e il ritegno contaddistinguono il giovane beneducato dal petulante
sfacciato nelle Nuvole di Aristofane dove il discorso giusto
prescrive al ragazzo di essere "th'"
aijdou'"...ta[galm& "(v. 995),
l'immagine del ritegno. Al tempo dell'ajrcaiva
paideiva (961, l'educazione antica)
infatti la castità (swfrosuvnh,
962) era tenuta in gran conto: nessuno modulando mollemente la voce andava verso
l'amante facendo con gli occhi il lenone a se stesso (980).
Nel mito di Prometeo del Protagora di Platone (322b): senza
aijdw'"
e divkh,
"virtù altrettanto morali quanto politiche", distribuite a tutti non
esisterebbero le città:"Hermes è incaricato di portarle agli uomini; ma, nella
distribuzione, deve fare l'opposto di quello che aveva fatto Prometeo: non dare
a ciascuno una capacità differente, ma le stesse a tutti egualmente e
indistintamente"[85].
Grande apprezzamento del pudore quale virtù di base, Senofonte esprime
nella Ciropedia quando annette al vizio capitale dell'ingratitudine
quello dell'impudenza che anzi considera madre di tutte le turpitudini:"eJvpesqai
de; dokei' mavlista th'/ ajcaristiva/ hJ ajnaiscuntiva: kai; ga;r auJvth
megivsth dokei' ei'jnai ejpi; pavnta ta; aijscra; hJgemwvn"(I,
2, 7), pare che all'ingratitudine di solito si accompagni l'impudenza: questa
infatti sembra essere la guida più grande verso tutte le brutture. "E qui ci
torna in mente l'importanza data da Platone e da Isocrate all'aidòs , senso di
onore e di pudore, per l'educazione dei giovani come per la conservazione di
ogni ordine sociale"[86].
Isocrate nell'Areopagitico (48) tra l'altro elogia i giovani che
rifuggivano la piazza (" e[feugon th;n
ajgoravn") al punto che, se talvolta
erano costretti ad attraversarla, si vedeva che lo facevano con molto pudore e
riservatezza ("meta; pollh'" aijdou'"
kai; swfrosuvnh" ejfaivnonto tou'to poiou'nte"").
Il pudore insomma è il retaggio dell'antica educazione nobiliare che questi
autori del IV secolo rimpiangono vorrebbero vedere ripristinata. Del resto il
pudore viene rimpianto anche da Dante tra le virtù del buon tempo
antico:"Fiorenza dentro dalla cerchia antica...si stava in pace, sobria e
pudica"[87].
Anche Orazio annette grande valore al ritegno quando, nella Satira
I 6 esprime gratitudine al padre "libertino" il quale lo seppe mantenere "pudicum,/qui
primus virtutis honos " (vv. 82-83), riservato, che è il primo grado della
virtù.
Virgilio dunque dà voce agli
scrupoli sessuali che trattengono regina, mentre la sorella Anna con la voce del
buon senso le consiglia di non opporsi anche a un amore gradito ("placitone
etiam pugnabis amori? ", v. 38) e dunque naturale, ma tale modo reale e
razionale di vedere eros viene smontato dal poeta. Quanto è davvero,
profondamente, razionale e reale è pure mitico. Lo affermo sulla scorta del film
Medea di Pasolini dove il centauro che educa Giasone adolescente
gli dice:" Te ne andrai in un paese lontano, di là dal mare. Qui farai
esperienza di un mondo che è ben lontano dall'uso della nostra ragione; la sua
vita è molto realistica come vedrai, perché solo chi è mitico è realistico e
solo chi è realistico è mitico". Il mito infatti cerca le origini, e chi non
le conosce non è cosciente della realtà. "La nostra origine è nei miti:
tutti i miti sono di origine"[88].
Inoltre il mito ci dà indicazioni sulla nostra vita psichica:"la psicologia
mostra i miti in vesti moderne, mentre i miti mostrano la nostra psicologia del
profondo in vesti antiche"[89].
Altra considerazione sui grandi significati del mito si trova nel libro di
Morin più volte citato:"Il mito non è la sovrastruttura della nazione: è ciò
che genera la solidarietà e la comunità; è il cemento necessario a ogni società
e, nella società complessa, è il solo antidoto all'atomizzazione individuale e
all'irruzione distruttrice dei conflitti…L'antico internazionalismo aveva
sottostimato la formidabile realtà mi"[90].
Simile a quello di Anna è il
consiglio della nutrice di Fedra che, con ragioni del resto assai diverse da
quelle di Didone, lotta contro la propria passione nell'Ippolito di
Euripide :" ouj lovgwn eujschmovnwn-dei'
s&, ajlla; tajndrov"", vv. 490-491, tu non hai bisogno di discorsi
speciosi ma di quell'uomo. Così il tenente Mahler del film Senso di
Visconti:"è molto meglio prendersi il piacere dove si trova". Le proposte
delle nutrici spesso sono convincenti quanto quelle dei seduttori di
professione:"nutrīcum et paedagogorum rettulēre mox in adulescentiam mores
"[91],
ben presto i ragazzi riproducono nella giovinezza i costumi di nutrici e
pedagoghi.
"Dal teatro attico, più che da
Apollonio, proviene il personaggio di Anna, la sorella della regina, che tiene
accanto a lei il posto, press'a poco, di confidente: più che al personaggio,
molto scialbo, di Calciope, la sorella di Medea, in Apollonio, Anna fa pensare a
Ismene, la sorella di Antigone , nella tragedia di Sofocle o a Crisotemi,
la sorella di Elettra , nella tragedia di Euripide: come questi
personaggi, ella, pur con tutto il suo affetto e la sua dedizione, resta in
fondo estranea al pathos e ai tormenti della sorella e si muove, quindi, in
un'atmosfera di umanità più comune e banale che, pur non potendosi dire
meschina, resta nettamente al di sotto della sublimità tragica. E' tuttavia
significativo che la parte della confidente sia affidata alla sorella della
regina, non ad una nutrice, personaggio ben noto al teatro attico"[92].
Fuoco ferita e follia tutti
insieme tormentano Didone durante la successiva cerimonia religiosa con cui la
regina cerca la pace:"quid vota furentem,/ quid delubra iuvant?
Est mollis flamma medullas/interea et tacitum vivit sub pectore
volnus./ Uritur infelix Dido totaque vagatur/urbe furens, qualis coniecta
cerva sagitta"
(IV, vv. 65-69) a che giovano i sacrifici, a
che i templi a chi è fuori di sé? divora i teneri midolli la fiamma intanto e si
ravviva in silenzio la ferita sotto il petto. Brucia l' infelice Didone e vaga
fuori di sé per tutta la città, quale cerva dopo che è stata scagliata la
freccia.-Est= edit. La radice deriva dall'indoeuropeo *ed-
da cui discendono pure il greco [esqivw<
*ejjjd-qivw
l' italiano inedia, l'inglese to eat , il tedesco essen .-mollis=molles.-Uritur:
c'è un consiglio dell'apostolo Paolo alle vedove che contiene questo verbo, con
questa diatesi:"Dico autem innuptis et viduis:"Bonum est illis si sic maneant
sicut et ego; quod si non contineant, nubant. Melius est autem nubere quam uri"
(Ai Corinzi , I, 7, 9), dico però a quanti non sono sposati e alle
vedove: è bene per loro che stiano così come sto io, ma se non si contengono, si
sposino. E' meglio infatti sposarsi che ardere (krei'tton
gavr ejstin gamh'sai hj; purou'sqai).
Possiamo fare una riflessione
tutta nostra: se l'amore è fuoco e il matrimonio lo spenge, il matrimonio nega
l'amore.
L'amore causato da una freccia che provoca una ferita la quale arde come una
fiamma è un aition e una situazione che si trova già nelle
Argonautiche di Apollonio Rodio: Eros scaglia contro Medea un dardo
poluvstonon
(III, 279), penoso; quindi la freccia ardeva nella ragazza sotto il cuore,
simile a una fiamma ("bevlo" d&
ejnedaiveto kouvrh/-nevrqen uJpo; kradivh/, flogi; ei[kelon",
III, 286-287). "Il libro IV, com'è ben noto, è il libro dell'Eneide in
cui la poesia ellenistica e la poesia neoterica sono più presenti e operanti:
Virgilio è stato continuamente stimolato da Apollonio Rodio e da Catullo e li ha
"emulati". Apollonio Rodio offriva nel III libro delle Argonautiche
(dove narrava come la giovanissima Medea si innamorasse di Giasone e gli desse
con la sua arte magica un aiuto decisivo per la conquista del vello d'oro) un
esempio difficilmente pareggiabile di finezza e delicatezza psicologica nel
seguire il primo nascere di una passione d'amore, il suo incerto rivelarsi, il
contrasto fra la passione e il senso del pudore e dell'onore, il trionfo
selvaggio della passione; e all'acume dell'analisi univa senso profondo del
pathos e intensità lirica nell'espressione dei sentimenti. Ma Medea è all'inizio
una giovinetta in cui la passione germina per la prima volta. Didone è una donna
matura che ha già sperimentato l'amore, il matrimonio, la perdita tragica del
marito, e al marito morto si sente legata da un vincolo religioso di fedeltà: se
Apollonio è attento alle prime incerte manifestazioni della passione,
Virgilio...nel IV libro parte già dalla fase in cui la passione è furore
irrazionale (importante nel libro il richiamo di immagini dionisiache che spezza
tutte le resistenze)"[93].
L'immagine della freccia che trafigge la cerva quale correlativo venatorio del
dardo d'amore è una " virgiliana comparatio " che impressionò Petrarca
schiavo e malato d'amore portandolo a identificarsi con la creatura colpita,
ossia, in definitiva, con Didone:"Huic ego cerve non absimilis factus sum.
Fugi enim, sed malum meum ubique circumferens "[94],
io sono diventato non dissimile a questa cerva. Sono fuggito infatti, ma
portando il mio male dappertutto in giro con me. Poco più avanti Petrarca cita
Orazio per significare l'impossibilità di liberarsi dal dardo amoroso:"celum
non animum mutant, qui trans mare currunt "[95],
cambiano il cielo non l'animo quelli che corrono al di là del mare.
Per quanto riguarda la dipendenza di Virgilio da Catullo segnalo due
versi del Liber : "ignis mollibus ardet in medullis " (45, 16),
arde il fuoco nelle tenere midolle, e "cum penitus maestas exedit cura
medullas "( 66, 23), quando una pena profonda ti consumò le afflitte
midolla.
La catena prosegue con la Didone delle Heroides di Ovidio il
quale descrive questo suo bruciare per Enea illustrandolo in maniera
particolareggiata con due paragoni, il secondo dei quali prefigura il suicidio
per amore:"Uror, ut inducto ceratae sulpure taedae;/ut pia fumosis addita
tura rogis "(VII, 25-26), brucio come fiaccole coperte di cera e impregnate
di zolfo; come i santi incensi gettati sui roghi fumosi.
Il dardo d'amore nell'Eneide è come una canna mortale ficcata nel
fianco:"haeret lateri letalis harundo " (IV, v.73).
Il sentimento amoroso è dunque connesso al dolore, alla morte e al senso di
colpa. La causa è il terrore dell'istinto che è sintomo di decadenza e di calo
del turgore vitale.
"combattere gli istinti-questa è la formula della décadence ; fintanto
che la vita è ascendente , felicità e istinti sono uguali"[96].
Di questa regola abbiamo un'iterata formulazione latina in Cicerone:"primum
ut appetitus rationi pareat...praestantissimum est appetitum obtemperare rationi
"(De Officiis , I, 141), la prima regola è che l'istinto obbedisca alla
ragione...la regola più importante è che l'istinto si sottometta alla ragione.
Purché l'istinto non venga criminalizzato o soppresso infatti :"l'umanità non si
riduce affatto all'animalità; ma senza animalità non c'è umanità"[97].
Rimasta sola nella casa vuota la digraziata regina si tormenta:"sola domo
maeret vacua " (v. 82) o in altri momenti inganna se stessa trattenendo in
grembo Ascanio "infandum si possit fallere amorem " (v. 85), per vedere
se possa illudere l'indicibile amore.
Amore è infamia e follia. Può diventare anche
crudeltà, nel caso che la donna
abbia a portata di mano creature deboli con cui prendersela:"Saevus Amor
docuit natorum sanguine matrem/commaculare manus.
Crudelis tu quoque, mater./Crudelis
mater magis, an puer improbus ille?
", il crudele Amore insegnò alle madri a
contaminare le mani col sangue dei figli. Crudele anche tu madre. Crudele la
madre di più o quel figlio malvagio? canta Damone nell Ecloga VIII (vv.
47-49) con riferimento a Medea, a Venere e a Cupido.
L'amore, in quanto connotato per natura da furor e improbitas ,
non dovrebbe riguardare la "razza padrona" degli optimates quali vengono
definiti da Cicerone nel Pro Sestio del 56 a. C. :" Omnes optimates
sunt qui neque nocentes sunt, nec natura improbi nec furiosi, nec malis
domesticis impediti ", 45, sono ottimati tutti quelli che non fanno del
male, né sono malvagi né squilibrati per natura, né impacciati da difficoltà
domestiche.
Anche Giunone, benevola e
protettiva verso la regina di Cartagine, individua l'amore di lei come ardore e
furore:"ardet amans Dido traxitque per ossa furorem " ( IV, 101), arde
d'amore Didone e ha contratto nelle ossa il furore.
Furens
nell'Eneide è pure Cassandra della quale Corebo era acceso da folle
amore:"insano Cassandrae incensus amore "(II, 343), cosa che gli costò la
vita poiché si trovava a Troia la notte dell'incendio avendo voluto portare
aiuto a Priamo in quanto aspirava a diventare suo genero:" infelix, qui non
sponsae furentis praecepta /audierit "( II, 345-346)), infelice che non
aveva dato ascolto alle profezie della fidanzata fatidica . La profetessa di
sventura ricompare un poco più avanti (II, 405):"ad caelum tendens ardentia
lumina frustra ", drizzando al cielo gli occhi ardenti invano.
Anche in questo caso ardore e pazzia vanno insieme, in quella profetica come in
quella amorosa.
Altra furens è la Sibilla cumana:"ea frena furenti /concutit et
stimulos sub pectore vertit Apollo " (VI, vv. 1OO-101), quei morsi alla
furente li scuote Apollo e sferra sotto il petto colpi di sperone. La pazzia
con ira e rabies secondo Giovenale rendono meno esecrabili,
rispetto ai delitti delle matrone romane perpetrati per denaro o per il potere,
i crimini di Medea e Procne:"et illae/grandia monstra suis audebant
temporibus, sed/non propter nummos. minor admiratio summis/ debetur monstris,
quotiens facit ira nocentem /hunc sexum et rabie iecur incedente
feruntur/praecipites… (VI, 644-649), anche quelle ai loro tempi osavano
grandi mostruosità, ma non per denaro. Meno stupore si deve alle mostruosità
somme, tutte le volte che è l'ira a rendere assassino questo sesso ed esse sono
trascinate a precipizio dalla rabbia furiosa che brucia il fegato.
La follia erotica si diceva è assimilabile a
quella religiosa, come già in
Platone il quale nel Fedro ricorda che il tema
dell'irrazionalità della passione amorosa è stato già trattato da Saffo e
Anacreonte ed elenca quattro modi di essere
fuori di sé: quello dei profeti come la Pizia di Delfi, quello dei fondatori di
religione, quello dei poeti, e quello degli innamorati.
Il filosofo tuttavia non considera negativamente questa "frenesia divina che è
molto più saggia della saggezza del mondo"[98].
Anzi Socrate vuole dimostrare:"wj"
ejp& eujtuciva/ th'/ megivsth/ para; qew'n hJ toiauvth/ maniva devdotai"
(Fedro, 245c) che tale follia è concessa dagli dèi per la nostra più
grande fortuna. C'è da notare che
maivnomai, "sono pazzo",
maniva,
"follia" e mavnti"
, profeta, hanno la radice comune
man(t) -/mhn-.
Si ricorderà che pure nella Storia del genere umano di
Leopardi l'ardore amoroso non è un
fatto negativo ("rarissimamente
congiunge due cuori insieme, abbracciando l'uno e l'altro a un medesimo tempo e
inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue").
Il fuoco non è infernale nella visione escatologica di Pindaro:
nell'isola dei beati " a[nqema de;
crusou' flevgei" (Olimpica II,
79), fiori d'oro bruciano, e non lo è nelle Rane di Aristofane
dove il Coro degli iniziati ai misteri nella Parodo canta:"
flogi; fevggetai leimwvn--govnu pavlletai
gerovntwn "(v. 344-345) di fiamma il
prato sfavilla, balza il ginocchio dei vecchi.
Nell'Eneide invece il
bruciare della regina Didone innamorata, prima ancora che l'amore venga
consumato e che fallisca, rende la donna miserrima (v. 117) secondo la
qualificazione della stessa dea che la protegge.
Il desiderio amoroso viene
realizzato durante la tempesta e a questo punto il male diviene irreversibile e
letale:"Ille dies primus leti primusque malorum/ causa fuit "(v.
169-170), quel giorno fu il primo della morte e il primo dei mali, e ne fu la
causa; anche perché Didone non si preoccupa della fama , ossia
dell'infamia che gliene deriverà, in quanto pensa a un amore coniugale, senza
contare che quel sant'uomo di Enea non aveva tempo per stare a lungo con lei.
Il desiderio non trova un limite
nella vergogna che viene momentaneamente repressa ma non superata da Didone: il
conflitto tra queste due forze contrastanti è drammaticamente sentito dalla
Medea vergine di Apollonio Rodio che il pudore (aijdwv")
tratteneva , mentre un desiderio
possente (qrasu;" iJvmero"
) spingeva (Argonautiche , III, 653). "Apollonio non è interessato agli
sviluppi pragmatici della storia, e privilegia invece la dinamica psichica"[99].
La Medea di Apollonio ondeggia a lungo in preda alle contraddizioni: prima
impreca contro Giasone (III, 466), poi contro il pudore e la fama ("
ejrrevtw aijdwv" , ejrrevtw ajglai?h
", III, 785-786). Poi però pensa di nuovo a
cosa dirà la gente, a quale sarà la sua vergogna (ai'jsco",
v. 797), quale la sua disgrazia (a[th,
v. 798). Sballottata tra il desiderio e il terrore, la fanciulla arriva ad
augurarsi di morire. "I tre monologhi raffigurano, con una rete di rispondenze
interne, i momenti cruciali di questo iter psichico, e si basano su
un'intensa dialettica tra forze della repressione e forze del represso; non si
tratta però, semplicisticamente, di una dialettica fra mondo esterno e mondo
interno, ma di uno scontro tutto interiore. E' questa forse la maggiore novità
della psicologia apolloniana, rappresentare cioè la repressione come componente
imprescindibile del campo psichico, una componente interiorizzata che dà all'eros
una potenza ancora maggiore. Se il primo monologo contiene all'inizio un "vada
alla malora" (ejrrevtw:
v. 466) riferito a Giasone, il terzo usa la stessa espressione rivolta invece al
pudore e alla fama (III 785-786): si tratta in entrambi i casi di negazioni
freudiane, che affermano con violenza espressiva la violenza delle due forze che
angosciano Medea, il desiderio e il pudore, cioè l'amore per Giasone e la
fedeltà al padre"[100].
Questo turbamento è naturale in una ragazza senza esperienza.
Assai meno naturali sono turbe del genere in una donna matura ed esperta.
Se poi la Fama è un monstrum
horrendum pieno zeppo di occhi, piume, lingue, bocche, orecchie (vv.
181-183), se è una dea foeda (v. 195), una divinità oscena, non è retta,
nobile e meritevole di un premio Didone che non se ne cura?
Invece la disgraziata verrà
punita.
"Se gli dèi olimpici non sono certo accusati e condannati si manifesta nel libro
IV...un'altra presenza divina, che è, invece, tanto ripugnante quanto terribile,
la presenza di un mondo demoniaco inferiore che, anche se talora asservito a
quello celeste, ne è diverso per natura: da questo mondo proviene la Fama,
divinità maligna e sinistra (173-195), il cui fascino demoniaco si avverte,
anche se l'abilità letteraria di Virgilio l'abbia un pò sciupato"[101].
La lussuria della regina scatena
l'ira di Iarba, pretendente respinto, e la complicità di Enea provoca la collera
di Giove che considera legittimo e santo l'ardore sacro della gloria ("si
nulla accendit tantarum gloria rerum ", v. 232); impuro e deleterio (ancora
una volta!) quello dell'amore. Il figlio di Venere dunque "naviget " (v.
237), navighi, non ami! Quindi il re degli dèi manda Mercurio per rinfocolare i
sensi di colpa. Appena vede Enea il messaggero infatti lo assale ("Continuo
invadit ", v. 265) rimproverandolo per il suo crimine.
L'eroe troiano davanti a tanto
rimprovero nemmeno cerca di difendere l'amore:"obmutuit amens/arrectaeque
horrore comae et vox faucibus haesit "(vv. 280-281), restò muto, fuori di
sé, gli si drizzarono i capelli per il terrore e la voce si arrestò nella gola.
Il v. 280 è formulare nell'epica
virgiliana: riecheggia II 744:"Obstpui steteruntque comae et vox faucibus
haesit ", mi paralizzai, si rizzarono i capelli e la voce rimase attaccata
alla gola. E' la reazione di Enea davanti all'umbra , più grande del
naturale, di Creusa perdutasi durante la notte della presa di Troia.
Questo verso torna identico a III
48 quando Enea si terrorizza sentendo il lamento di Polidoro venire da una
bacchetta[102]
.
La formula del IV canto torna di
nuovo in XII v. 868 e questa volta riguarda Turno paralizzato dal presagio della
propria morte.
Ma Enea deve compiere altre
imprese grandi e meravigliose, sicché non rimane agghiacciato a lungo : infatti
lo scalda un ardore legittimo e davvero degno di un eroe:"Ardet abire fuga
" (v. 281), arde di andarsene in fuga, e dà ordini per prepararla furtivamente,
riservandosi di parlarne a Didone nei momenti più dolci.
La regina però lo capisce da sola ("quis
fallere possit amantem? ", v. 296, chi potrebbe ingannare un'amante? ), lei
che temeva tutto anche se era tranquillo:"omnia tuta timens" (v. 298).
L'ossimoro che accosta parole di significato contrastante evidenzia quanto di
contraddittorio c'è nell'anima di questa donna innamorata e ansiosa.
L'allitterazione evoca un battere di colpi e contraccolpi.
Per giunta la Fama, impia
, porta la brutta notizia alla donna già sconvolta (furenti , v. 298).
Allora scoppia di nuovo l'incendio della pazzia e dell'amore:"Saevit inops
animi totamque incensa per urbem/ bacchatur ", vv. 300-301, ella infuria,
priva di senno, e infiammata baccheggia per tutta la città.
Quindi la disgraziata affronta
Enea al grido di "perfide " (305), che echeggia il lamento dell'Arianna
abbandonata di Catullo[103]
, prima lo aggredisce rinfacciandogli la malafede, poi lo supplica, evocando la
propria morte, invocandone il senso dell'onore, la gratitudine dovuta, e
cercando di impietosirlo:" Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum/posse
nefas tacitusque mea decedere terra?/nec te noster amor nec te data dextera
quondam/nec moritura tenet crudeli funere Dido? " (vv. 305-308), hai
sperato, perfido persino di dissimulare un così grande misfatto, e di poter
andartene dalla mia terra senza dir niente? non ti trattiene il nostro amore né
la destra data una volta né Didone pronta a morire di morte crudele? A proposito
della data dextera si ricorderanno della Medea di Euripide i già
citati vv. 21-22:"ajnakalei' de;
dexia'"-pivstin megivsthn, reclama il sommo impegno della mano destra.
Vediamo altri tre
versi:" per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,/si bene quid de te
merui, fuit aut tibi quicquam/dulce meum, miserere domus labentis et istam,/oro,
si quis adhuc precibus locus, exue mentem " (vv. 316-319), per la nostra
unione, per le nozze iniziate, se ho ben meritato di te, o se per te c'è stato
qualcosa di dolce in me, abbi pietà di una casa che vacilla e deponi questo
proposito, ti prego, se ancora c'è qualche posto per le preghiere. Anche questi
contengono e suscitano echi . Il primo "è un'"allusione" a Catullo 64, 141 sed
conubia nostra, sed optatos hymenaeos : ciò spiega le "preziosità" metriche di
gusto neoterico: coincidenza della fine del secondo piede con fine di parola,
cesura trocaica, lunga parola greca alla fine del verso; ma, pur con tutte le
preziosità metriche, il pathos di Virgilio è più grave, più "tragico"[104].
Il primo emistichio del v. 317 al
lettore di Dante ricorda la captatio benevolentiae di Virgilio a Ulisse e
Diomede:"s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,/s'io meritai di voi assai o
poco"[105].
Infine il dulce rammentato da Didone a Enea (v. 318) ricorda quello che
Tecmessa cerca di richiamare alla mente di Aiace quando, nella tragedia di
Sofocle, tenta di dissuaderlo dal suicidio:"
ajndriv toi crew;n--mnhvnhn prosei'nai,
terpno;n ei[ tiv pou pavqh/: cavri" cavrin gavr ejstin hJ tivktous& ajei--oJvtou
d& ajporrei' mnh'sti" eu'j peponqovto",-oujk aj;n levgoit& e[q& ou'Jto"
eujgenh;" ajnhvr" (Aiace , vv. 520-524), per l'uomo certo è
doveroso che rimanga un ricordo congiunto a qualche gioia se in qualche modo
l'ha provata: infatti grazia genera grazia, sempre. Chiunque perda il ricordo di
avere ricevuto del bene, non può più essere chiamato nobile.
Virgilio non utilizza la sentenza
finale per non togliere nobiltà al suo eroe, ma chi crede nel valore della
gratitudine sente che nel comportamento di Enea nei confronti di Didone c'è
qualcosa di vile e volgare.
Infatti l'ingratitudine è un
vizio capitale secondo diversi autori e la gratitudine, viceversa, un grande
valore.
Esiodo mette la gratitudine
(cavri" , Opere , v. 190) con
il pudore (aijdwv", v. 192) tra i
valori negati dall'estrema decadenza dell' età del ferro : allora gli uomini
nasceranno con le tempie bianche (poliokrovtafoi,
v. 181) oltraggeranno i genitori che invecchiano, useranno il diritto del più
forte, la giustizia starà nelle mani (divkh
d& ejn cersiv , v. 192), se ne andranno
Aijdwv" appunto e
Nevmesi" , la giusta distribuzione;
quindi "kakou'
d& oujk e[ssetai ajlkhv" (Opere
, 201) non vi sarà più scampo dal male.
Nella Ciropedia di
Senofonte leggiamo che un motivo serio di punizione e disonore tra i
Persiani è l'ajcaristiva :"kai;
oJ;n aj;n gnw'si dunavmenon me;n cavrin ajpodidovnai, mh; ajpodidovnta dev,
kolavzousi kai; tou'ton ijscurw'". Oi[ontai ga;r tou;" ajcarivstou" kai; peri;
qeou;" aj;n mavlista ajmelw'" e[cein kai; peri; goneva" kai; patrivda kai;
fivlou""(I, 2, 7), e quello di cui sanno che potendo contraccambiare un
favore, non lo contraccambia, lo puniscono severamente. Credono infatti che gli
ingrati trascurino completamente gli dei, i genitori, la patria e gli amici.
"Come cosa caratteristica dei Persiani-osserva Jaeger- Senofonte rileva che
l'ingratitudine è severamente punita in questo tribunale, in quanto essa appare
come origine dell'impudenza e pertanto di ogni malvagità"[106].
L'ingratitudine invero è biasimata come vizio capitale già da Penelope saggia (
"perivfrwn") quando rimprovera gli
Itacesi dicendo all'araldo:"ajll& oJ me;n
uJmevtero" qumo;" kai; ajeikeva e[rga--faivnetai, oudev tiv" ejsti cavri"
metovpisq& eujergevwn"( Odissea , IV, 694-695), il vostro animo
appare evidente e indegne le vostre azioni, e non c'è più gratitudine alcuna dei
benefici.
Nei Memorabili , Socrate fa
notare al figlio Lamprocle che particolarmente grave è considerata ad Atene
l'ingratitudine verso i genitori, e per questa mancanza di riconoscenza sono
previste delle pene, mentre negli altri casi, la città si limita a disprezzare
coloro i quali ricevendo del bene non mostrano gratitudine:"periora'/
tou;" eu'j peponqovta" cavrin oujk ajpodovnta""(II, 2, 13).
Anche Cicerone pone la gratitudine
in prima fila tra i doveri:"nullum enim officium referenda gratia magis
necessarium est " (De Officiis , I, 47), nessun dovere in effetti è
più necessario della gratitudine.
L'ingratitudine è il marchio della
persona volgare: Nietzsche nel 1864 (a vent'anni) scrisse una Dissertazione
su Teognide di Megara simpatizzando con le teorie del lirico antico. Lo
colpì fortemente il biasimo espresso per l'ingratitudine dell'animo plebeo:"Teognide
ritiene che non c'è niente di più vano e di più inutile che fare bene ad un
plebeo, dal momento che di solito non ringrazia mai[107].
Quindi cita alcuni versi della Silloge (105-112) che riporto in
traduzione mia :
"E' un favore del tutto vano fare
del bene ai vili:/è come seminare la superficie del mare canuto./Infatti
seminando il mare, non mieti folta messe,/né facendo del bene ai malvagi puoi
riceverne bene in cambio:/ché i malvagi hanno mente insaziabile: se tu
sbagli,/l'affetto per tutti i favori di prima si versa per terra./I buoni invece
gustano al massimo quanto ricevono ("oiJ d&ajgaqoi;
to; mevgiston ejpaurivskousi paqovnte"", v. 111),/e serbano memoria dei
beni e gratitudine in seguito". Contro l'ingratitudine tuona Re Lear, the
lunatic King: o ingratitudine, demonio dal cuore di marmo, più orrenda
del mostro marino quando ti manifesti in una figliola! (I, 4).
Ancora qualche parola sulla
cavri" che significa non solo
gratitudine ma anche altre cose nobili e belle : nell'Olimpica I di
Pindaro è "il fascino che foggia tutte le dolcezze per i mortali e,
portando onore, procura pure che spesso l'incredibile divenga credibile (vv.
30-32).
Plutarco
nel dialogo Amatorius , dà questa definizione di
cavri",
autorizzata da alcuni più antichi scrittori:"cavri"
ga;r ou'jn, w'j Prwtovgene", hJ tou' qhvleo" uJvpeixi" tw'/ a[rreni kevklhtai
pro;" tw'n palaiw'n "[108],
la compiacenza infatti o Protogene è chiamata dagli antichi la condiscendenza
della femmina al maschio.
Ma tra i nostri amanti non può esserci più nulla di buono poiché compiacenza e
condiscendenza devono essere reciproche mentre Enea non vuole saperne di
Didone, nemmeno quando questa arriva a dire " Saltem si qua mihi de te
suscepta fuisset/ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula/luderet Aeneas,
qui te tamen ore referret,/non equidem omnino capta et deserta viderer "(vv.
328-330), se almeno fosse stato da me concepito un figlio tuo prima della tua
fuga e nella mia reggia giocasse un piccolo Enea che per lo meno ti riproducesse
nel viso, certo non mi sentirei del tutto ingannata e abbandonata.
Sull'aggettivo parvulus sentiamo un'altra riflessione di La
Penna-Grassi:"Lo stile epico rifiuta i diminutivi, propri del sermo
familiaris , comuni nelle nugae catulliane, ma già meno frequenti
nell'elegia. Nell'Eneide sono stati contati sette diminutivi, ma
probabilmente questo è l'unico vero diminutivo affettivo: con molta
finezzaVirgilio ha sentito che l'umanità dolente della sua eroina non poteva
essere sempre "controllata" colla misura della sublimità epica. La concessione
ha, tuttavia, i suoi limiti: Virgilio ha probabilmente nella memoria un passo di
un epitalamio di Catullo (61, 216 ss.), dove il poeta augura che presto un
Torquatus...parvulus dal grembo della madre tenda le mani al padre e gli
sorrida; ma proprio il confronto con Catullo mostra che la tenerezza materna di
Didone manca di ogni leziosità"[109].-deserta:"è
ancora voce che appartiene al linguaggio erotico-elegiaco: così Catullo c. 64,
v. 57, descriveva Arianna abbandonata da Teseo (desertam in sola miseram…harena,
"abbandonata, misera, su una spiaggia deserta"[110].
Ma l'eroe è chiamato altrove dal
destino e non vuole sentire altra fiamma che quella del fatum . Enea
"rappresenta, come ognuno dei personaggi dell'Eneide , un punto di vista
soggettivo che lo individua; ma rappresenta insieme la volontà del Fato di cui è
portatore...Nella sua funzione di oggettività egli è dalla parte del Fato-e del
poeta che del Fato narra la realizzazione"[111].
Salvo l'affetto per la donna che
sta abbandonando (ci mancherebbe!), egli ha doveri più forti verso gli dèi, il
padre e il figlio. Sono gli argomenti classici degli amanti (uomini e ora anche
tante donne) che nemmeno ci pensano a lasciare la famiglia. Apollo attraverso
vari oracoli gli ha ordinato di raggiungere l'Italia:"hic amor, haec patria
est " (v. 347), questo è l'amore, questa è la patria. Inoltre l'eroe riceve
rimproveri dall'immagine turbata del padre morto, ovviamente in somnis
, nei sogni, in tutti: quotiens umentibus umbris-nox operit terras, vv.
351-352, ogni volta che la notte con umide ombre copre le terre, poi anche il
figlio lo ammonisce e l'interprete degli dèi mandato da Giove per quel suo
iniquo procrastinare il compimento del destino. Sicché conclude:"Desine meque
tuis incendere teque querellis:/ Italiam non sponte sequor " (vv. 360-61),
smetti di infiammare me e te stessa con i lamenti: non cerco l'Italia di mia
volontà. "Querellis voce che ci porta di nuovo nel mondo dell'elegia
erotica (vedi, per esempio, Catullo, c. 64, v. 130 e v. 195, dove querellae
sono i "lamenti" di Arianna abbandonata), è un termine che si presta molto bene
a un 'riassunto' del contrasto in atto: da un lato le "lamentele" di una donna
innamorata, dall'altro la coercizione del fato, che impone il sacrificio dei
propri sentimenti privati. Le ultime parole di Enea, racchiuse in un emistichio
( uno dei numerosi versi incompiuti del poema) esprimono appunto il senso
dell'invincibile pressione esercitata su di lui: è contro il suo cuore…che Enea
porta avanti la sua missione"[112].
Ma noi sappiamo che quella dell'amore, quando c'è, è la forza massima,
ineluttabile; lo sa anche Virgilio (omnia vincit Amor, et nos cedamus amori
" Ecloga X, v. 69, tutto vince Amore e noi all'Amore cediamo), e lo sa
pure Didone che si dispera siccome capisce che Enea non la ama.
Auerbach trova addirittura
grottesco il fatto che Dante nel Convivio interpreti "la separazione di
Enea da Didone come allegoria della temperantia"[113].
Sentiamo Dante:"chiamasi quello freno Temperanza…E così infrenato mostra
Virgilio, lo maggior nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte de lo Eneida ove
questa etade si figura; la quale parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto
libro de lo Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da
Dido tanto di piacere…e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partio,
per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel quarto de l'Eneida
scritto è!" (Convivio, IV, 26).
Quel "non sponte ",
ripreso dall'"invitus regina tuo de litore cessi " del VI canto (v. 460),
contro la mia volontà, regina, mi allontanai dalla tua spiaggia, rende bene
l'idea, anche se non voluta da Virgilio, della vigliaccheria dell'uomo.
Leopardi nello
Zibaldone manifesta antipatia per Enea, sia pure a causa di una sua presunta
perfezione:"Omero ha fatto Achille infinitamente men bello di quello che poteva
farlo...e noi proviamo che ci piace più Achille che Enea ec. onde è falso
anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec." (2)…Troppa virtù morale,
poca forza di passione, troppa ragionevolezza, troppa rettitudine, troppo
equilibrio e tranquillità d'animo, troppa placidezza, troppa benignità, troppa
bontà. Virgilio descrive divinamente l'amor di Didone per lui: da questo, e
quasi da questo solo, ci accorgiamo ch'egli è ancor giovane e bello; e sebben
questo in lui non ripugna alla (3609) natura e al verisimile naturale, come in
Ulisse, pur tanta è la serietà dell'idea che Virgilio ci fa concepir del suo
eroe, che la gioventù e la bellezza ci paiono in lui fuor di luogo…E così mentre
Virgilio si ferma e si compiace in descrivere la passion di Didone e i suoi vari
accidenti, progressi, andamenti, ed effetti…a riguardo d'Enea e della sua
passione (3610) parla così coperto, anzi dissimulato…anzi serba quasi un così
alto silenzio, che e' non mostra essa passione se non indirettamente e p.
accidente, e in quanto ella si congettura e si lascia supporre p. necessità da
quel ch'ei narra di Didone, e sempre volgendosi alla sola Didone. E par che
volentieri, se si fosse potuto, egli avrebbe fatto che il lettore non istimasse
Enea per niun modo tocco dalla passion dell'amore (di donna pur sì alta e sì
degna e sì magnanima e sì bella e sì amante e tenera), e giudicasse che Didone
avesse ottenuto il piacer suo, senza che quegli avesse conceduto. E chi potesse
così stimare seconderebbe il desiderio di Virgilio. Tanto egli ebbe a schivo di
far comparire nel suo eroe un errore, una debolezza, laddove non v'è cosa più
amabile che la debolezza nella forza, né cosa meno amabile che un carattere e
una persona senza debolezza veruna. E tanto egli giudicò che dovesse nuocere
(3611) appo i lettori alla stima non solo, ma all'interesse pel suo Eroe (che
mal ei confuse colla stima), il concepirlo e il vederlo capace di passione,
capace di amore, tenero, sensibile, di cuore".
A noi di tale "eroe" dà fastidio
piuttosto la doppiezza e ci piace metterlo a confronto con il Prometeo
incatenato di Eschilo che attribuisce dignità al suo peccato:" io
sapevo tutto questo:/di mia volontà , di mia volontà (
eJkw;n eJkwvn) ho commesso la
trasgressione, non lo negherò"(vv. 265-266).
Si può pensare anche all' Edipo di Sofocle che si punisce da solo
colpendosi gli occhi per non vedere gli orrori che pure ha commesso
inconsapevolmente:" Apollo, era Apollo o amici/colui che portò a compimento
queste cattive cattive mie queste mie sofferenze/Però di sua mano nessuno li
colpì/tranne me infelice"( Edipo re , vv.1329-1332)
L' affermazione di Prometeo tra
l'altro fornisce una legittimazione all'ira di Zeus e argomenti a Nietzsche
per distinguere "la natura ariana" da quella "semitica" fin dal mito di
Prometeo il quale :"per la dignità che conferisce al misfatto, è in uno strano
contrasto col mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, la
lusinga menzognera, la facilità a lasciarsi sedurre, la cupidigia, insomma tutta
una serie di passioni prevalentemente femminili vengono considerate come
l'origine del male. Ciò che invece contraddistingue il concetto ariano è la
sublime idea del peccato attivo come specifica virtù prometeica"[114].
Una virtù che a Enea manca.
Didone non accetta le scuse e,
infiammata ("accensa " v. 364), rimprovera all'amante in partenza una
malafede e un'ingratitudine, tanto grandi da avere spento in lei ogni
possibilità di credere nella buona fede che oramai in nessun luogo è sicura"Nusquam
tuta fides " (v. 372). Torniamo sulla già pluritratta fides e
sentiamo ancora La Penna-Grassi:" fides è propriamente quella garanzia
che si dà col foedus , specialmente collo stringere la destra (cfr. v.
307) e la cui violazione è punita dagli dèi. Didone si riferisce soprattutto
alla fides data da Enea col vincolo del matrimonio. Probabile che
Virgilio avesse in mente Euripide, Med. 412 s. "Gli uomini vogliono solo
frodi, la fede giurata per gli dèi non si regge più"; ancora più probabile l'eco
di Catullo 64, 143 s. Nunc iam nulla viro iuranti femina credat,/nulla viri
speret sermones esse fideles (ancora una volta si può misurare la
differenza di tono: Catullo è più elegiaco, più effusivo, Virgilio più tragico
nella sua concisione)"[115].
Quindi la regina, infiammata (accensa
, 364) investe Enea accusandolo di crudeltà disumana. Esprime perfino sfiducia
perfino in Giove e Giunone che non tutelano la fides :"Nusquam tuta
fides " (v. 373), la quale in nessun luogo è sicura. La donna sente che il
fuoco d'amore è diventato un incendio di odio:" Heu furiis incensa
feror (v. 376), ahi sono trascinata in fiamme dalle furie! Poi congeda
l'amante che la sta abbandonando maledicendolo:" i, sequere Italiam ventis,
pete regna per undas;/spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,/supplicia
hausurum scopulis et nomine Dido/saepe vocaturum. Sequar atris
ignibus absens/et, cum frigida mors anima seduxerit artus, omnibus umbra locis
adero. Dabis, improbe, poenas; audiam et haec manis veniet mihi fama sub
imos " (vv. 381- 386), va', insegui l'Italia coi venti, cerca un regno
attraverso le onde. Spero però che in mezzo agli scogli, se i pii numi hanno
qualche potere, berrai tra gli scogli la pena e invocherai spesso Didone per
nome. Ti inseguirò con fiaccole funebri anche da lontano e quando la gelida
morte avrà separato le mie membra dall'anima, sarò presente in tutti i luoghi
come ombra. pagherai il fio malvagio! starò in ascolto e questa fama mi
raggiungerà sotto gli abissi.
Si noti che ventis e
undas significano l'instabilità pericolosa della ricerca che corrisponde
all'inaffidabilità dell'anima di Enea: fissi sono invece gli scogli che
colpiranno il traditore facendogli bere quell'acqua dove erano stati scritti i
suoi giuramenti spergiuri. Didone favorirà quella morte e la fama che l'ha
infamata da viva la compenserà portandogliene la sospirata notizia. Anima
è il soffio vitale: deriva dall'indoeuropeo *anem- che ha dato come esito
in greco ajnem- da cui
a[nemo", vento e in latino anim-
da cui, oltre anima, animus, animo, coraggio, animal, animosus.
"Nella nuova battuta di Didone
(365-387) l'ira proprompe con violenza, variata non più dalla preghiera, ma solo
dal sarcasmo: è qui che Didone può ricordare meglio il volto selvaggio della
Medea di Euripide, che pure sa unire allo sfogo di una passione furente le
sottigliezze di una logica ironica e sarcastica: come Medea, Didone si sente
vittima dell'ingiustizia e senza protezione divina contro l'ingiustizia. Dalla
battuta, emerge chiaramente che il furor d'amore è divenuto furor
di odio senza confini e che il mondo dei valori di Enea resta del tutto estraneo
all'animo di Didone"[116].
Ma il pio eroe deve eseguire
comunque gli ordini degli dèi e non può permettersi l'amore:"At pius Aeneas,
quamquam lenire dolentem/solando cupit et dictis avertere curas,/multa gemens
magnoque animo labefacto amore,/iussa tamen divom exsequitur classemque revisit
" (vv. 393-396), ma il pio Enea, sebbene desideri mitigare la dolente
consolandola e rimuovere gli affanni con le parole, gemendo molto e scosso
nell'animo da grande amore, esegue nondimeno gli ordini degli dèi e torna a
vedere la flotta.
Pius Aeneas è una formula
che torna una ventina di volte nel poema. Qui l'epiteto pius "riappare
dopo un lungo intervallo (l'ultima volta in I 378). Poiché gli epiteti
virgiliani sono spesso coerenti con la situazione, anche qui il legame va
cercato. Pius esprime il rispetto e l'amore dei valori morali e
religiosi, soprattutto devozione alla famiglia, alla stirpe, alla patria, agli
dèi…Qui l'aggettivo può essere sentito in legame col dolore che egli prova per
Didone; ma più probabilmente prevale (forse senza escludere l'altro) il legame
col rispetto degli ordini divini"[117].
Secondo Conte, Enea deve
giungere alla "spoliazione di sè" per realizzare il suo scopo:"La pietas di Enea
potrebbe essere vista, se mi si concede, in termini di ossimoro, come
insensibile sensibilità, ossia una partecipazione al dolore di personaggi
perduti o vinti durante il cammino, ma al tempo stesso un vietarsi ad essa in
nome del valore della meta da raggiungere"[118].
Personalmente, almeno in questo caso, assimilo la pietas di Enea
all'ipocrisia del furfante bigotto. La assimilo pure al culto della
peiqarciva (disciplina) di Creonte
che, per reprimere la disobbedienza della nipote, la manda a morte, ed ella
morendo rivendica la pietà come virtù propria:":"O rocca della terra di Tebe e
dei miei padri/e dèi progenitori/io vengo portata via e non indugio
più./Guardate, maggiorenti di Tebe,/l'unica superstite della stirpe
regale,/quali sofferenze inumane da quali uomini subisco/poiché onorai la pietà"
( Antigone, vv.937-943).
Capisco e apprezzo di più la
motivazione dell'abbandono di Calipso da parte di Odisseo:"
ejpei; oujkevti h{ndanh nuvmfh " (Odissea
, V, 153), poiché la ninfa non le piaceva più. La pietas tanto celebrata
da Virgilio viene smontata da Orazio quando afferma che essa, nemmeno se
attestata dal sacrificio di un toro al giorno, porterà una sosta alle rughe né
alla vecchiaia che incalza né alla morte invitta:"nec pietas moram/rugis et
instanti senectae/adferet indomitaeque morti " (Odi, II, 14, 2-4).
Parimenti nel quarto libro delle Odi il poeta avverte il nobile Torquato
che né la stirpe né la facondia né la pietas potranno restituirlo alla
vita una volta che sarà morto e Minosse avrà dato sul suo conto giudizi
inappellabili:"Cum semel occideris et de te splendida Minos/fecerit arbitria,/Non
Torquate, genus, non te facundia, non te/restituet pietas " (vv. 21-24).
Altrettanto inefficace si rivela la pietas dei Meli di Tucidide quando
rispondono agli Ateniesi che saranno in grado di resistere alla loro
superprepotenza :"o{ti o{{sioi pro;" ouj
dikaivou" " (V, 104), in quanto da pii opposti a persone ingiuste.
Boccaccio nella novella di
Nastagio degli Onesti identifica la "commendata" pietà con il contraccambio
della devozione amorosa, e la malvagità con lo sprezzante rifiuto dell'offerta
d'amore. Questa storia anzi mostra che tale crudeltà "è dalla divina giustizia
rigidamente…vendicata"[119].
"Ma cos'è la pietà? Nel dialogo
Eutifrone, nonostante l'incalzante dialettica cui la pietà viene sottoposta,
non rimaniamo soddisfatti (forse perché oggi soffriamo per la sua particolare
mancanza). A partire da questa assenza attuale possiamo arrivare a dire che la
"pietà" è il saper trattare adeguatamente con l'altro…nel breve dialogo
Eutifrone…la pietà (to; o{sion)
viene dapprima definita come rapporto adeguato con gli dèi, per essere da ultimo
riconosciuta come virtù, vale a dire, un modo di essere dell'uomo
conforme al giusto"[120].
Non così nelle Baccanti di Euripide dove il Coro nel Primo Stasimo invoca
la Pietà come una divinità eccelsa che porta giù in terra le ali d'oro, perché,
udite le parole empie di Penteo contro Dioniso, scenda sulla terra a punirlo:"
J Osiva povtna qew'n,-
J
J Osiva d '
a{ kata; ga'n-crusevan ptevruga
fevrei",-tavde Penqevw" ajivvvei" ;" (vv. 370-373). Ma torniamo al pio
Enea.
Virgilio, mosso a compassione
della donna, e non volendo del resto incolpare il suo eroe, ritorce e fa
ricadere sull'amore la maledizione indirizzata a Enea dall'amante abbandonata:"Improbe
Amor, quid non mortalia pectora cogis!" (v. 412), malvagio Amore, a cosa non
spingi i petti mortali!
E' un'apostrofe contro l'amore
che viene messo allo stesso livello dell'auri sacra fames , la maledetta
fame dell'oro che ha spinto il re di Tracia a sgozzare l'ospite Polimestore:"Quid
non mortalia pectora cogis, auri sacra fames! " (Eneide , III,
56-57). "L'apostrofe in Europa è vecchia come la poesia: Omero la usa spesso (si
pensi all'allocuzione di Crise agli Atridi all'inizio dell'Iliade, che
richiama con evidenza l'immagine di uno che preghi con le braccia alzate)"[121].
Simile apostrofe accusatoria di
Eros è quella già citata di Apollonio Rodio (IV, 445).
Didone fa un'ultima prova "ne
quid inexpertum frustra moritura relinquat " (v. 415) per non lasciare nulla
di intentato, destinata com'è a morire invano. Quello dell'amore è un piano
inclinato e scivoloso che conduce inevitabilmente alla rovina (cfr. infelix,
pesti devota futurae già nel I canto, v.712). Dunque la regina manda la
sorella Anna da Enea a chiedere l'ultima grazia (extremam...veniam , v.
435) di un rinvio:"tempus inane peto, requiem spatiumque furori,/dum mea me
victam doceat fortuna dolere " (vv. 433-434), un tempo di intervallo chiedo,
una tregua e un respiro al mio furore, finché la mia sorte insegni a me vinta a
soffrire. L'intervallo si deve comunque concedere anche ai ragazzini nelle
scuole (danda est tamen omnibus aliqua remissio raccomanda Quintiliano
nella sua Institutio oratoria , I, 8) ma Enea rimane inesorabile:"fata
obstant ", v. 440, i destini si oppongono e la dura volontà dell'eroe si
conforma alla necessità che ha le mani d'acciaio.
La sua mente rimane immota come
le radici di una quercia scossa dal vento.
Didone soffre, ha visioni e ode
voci che accrescono il senso di colpa, quindi decide che si è meritata la morte.
Nemmeno la notte che porta riposo a tutte le creature lenisce l'affanno
dell'abbandonata:"Nox erat et placidum carpebant fessa soporem/corpora per
terras silvaeque et saeva quierant/aequora, cum medio volvontur sidera lapsu,/cum
tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres,/quaeque lacus late liquidos
quaeque aspera dumis/rura tenent, somno positae sub nocte silenti/(lenibant
curas et corda oblita laborum[122])/At
non infelix animi Phoenissa neque umquam/solvitur in somnos oculisve aut pectore
noctem/accipit: ingeminant curae rursusque resurgens/saevit amor magnoque irarum
fluctuat aestu " (vv. 522-532), Era notte e i corpi stanchi raccoglievano
per le terre il placido sonno e le selve e le acque furiose erano tranquille,
quando le stelle si volgono alla metà del loro giro, quando tace ogni campo, le
bestie e gli uccelli variopinti, sia quelli che abitano per largo tratto i
limpidi laghi, sia quelli delle campagne ispide di cespugli, posati nel sonno
sotto la notte silenziosa (calmavano gli affanni e i cuori dimentichi delle
fatiche). Ma la Fenicia infelice nell'animo non si libera mai nel sonno e non
accoglie la notte negli occhi o nel petto: raddoppiano gli affanni e l'amore,
insorgendo di nuovo, infuria e fluttua in un grande ribollimento di ire.
Ecco dunque il contrasto tra la
quiete della natura e l'agitazione della creatura che si sente in colpa. La
tragedia in effetti nasce sempre da un cozzo tra l'uomo e l'universo ai cui
ritmi invece tutti devono adeguarsi. I modelli di questo notturno sono diversi.
Il più antico e suggestivo è quello di Alcmane lirico corale, di lingua
dorica, del VII secolo:" Dormono le cime dei monti e i burroni/e le balze e
anche le gole/e le specie degli animali quante ne nutre la nera terra/e le fiere
montane e la stirpe delle api/e i mostri negli abissi del mare purpureo;
/dormono le razze degli uccelli dalle ampie ali" (fr. 58 D.).
Questo frammento probabilmente
faceva parte di un partenio recitato durante una festa notturna, e, da poesia di
occasione, è divenuto un topos con un lungo seguito nella letteratura europea ,
tanto che non è il caso di fare l'elenco delle imitazioni. Si può notare che non
mancano echi di formule omeriche, come del resto è di derivazione epica
l'osservazione attenta del mondo della natura. Tale attenzione è conseguenza di
un rapporto vivo con il mondo ed è rivolta alla quiete e all'armonia di un cosmo
da cui l'uomo non è ancora escluso. Il contrasto rilevato da Virgilio invece si
trova in Apollonio Rodio quando cala la notte che porta il desiderio del
sonno a tutti ma non a Medea tenuta sveglia dal desiderio di Giasone:" quindi la
notte portava la tenebra sopra la terra; nel mare i marinai fissarono l'Orsa
Maggiore e le stelle di Orione dalle navi, e qualche viandante e custode di
porte desiderava il sonno, e un denso torpore avvolgeva una madre di bambini
morti; né c'era più abbaiare di cani per la città, né chiasso sonoro: il
silenzio possedeva la tenebra che diventava nera. Ma il dolce sonno non prese
Medea: molti pensieri la tenevano sveglia poiché le mancava Giasone e temeva la
possente forza dei tori"(Le Argonautiche , III, 744-753). Già in questo
poeta alla natura forte e sana del lirico arcaico è succeduto un mondo che
incornicia il dolore degli uomini. Quella madre di bimbi morti sembra anticipare
vedove, orfani e simili sofferenti pascoliani.
Nella Didone di Virgilio questo
dolore indeterminato diviene odio per la vita causato dal senso di colpa. Didone
infatti non "si assolve" mai (neque umquam solvitur ).
Anzi si accusa da sola: " Non
licuit thalami expertem sine crimine vitam/degere, more ferae, talis nec tangere
curas/ Non servata fides cineri promissa Sychaeo " (vv. 550-552), non mi è
stato possibile passare la vita senza nozze e colpa come le bestie, e non
toccare tali affanni: non è stata osservata la fedeltà promessa al cenere di
Sicheo.-talis=tales. Vedremo l'antitesi di questo triste e letale
"tradimento" postumo nella fabula milesia, compresa nel Satyricon
(111-112), della "Matrona di Efeso", una vedovella che poche ore dopo la morte
del marito si tolse le gramaglie, e tutto il resto, senza rimorsi né ubbìe,
dando retta a un soldato che oltretutto dovette appendere il cadavere dello
sposo amato al posto di quello di un ladrone sottratto a una croce e affidato
alla sua sorveglianza.
Le bestie, rimugina Didone, non
si sposano né si sentono in colpa per l'accoppiamento. "Il mos ferarum ,
il modo di vivere delle fiere, è richiamato non come un modo di vivere
inferiore, indegno dell'uomo, ma come un modo di vivere innocente: le fiere si
accoppiano liberamente, promiscuamente, ma, appunto perché non hanno legami
matrimoniali stabili e non ne sentono l'esigenza, sono innocenti. E' ben
probabile che Virgilio tenga presente la descrizione dell'umanità primitiva del
V libro di Lucrezio (925 ss. ) e in particolare 932 volgivago (errando
da ogni parte) vitam tractabant more ferarum : ma si sa quanto sia
ambiguo l'atteggiamento di Lucrezio verso questo stato ferino; ferino, sì, ma
più puro di quello attuale e forse anche meno infelice (opportunamente il Page
confrontava anche con Ovidio, Fast. II 291 vita feris similis ,
che si riferisce alla vita primitiva e felice degli Arcadi). Il fraintendimento
consiste soprattutto nell'interpretare more ferae come condanna morale
dello stato ferino. Tale fraintendimento si trova già in Quintiliano (IX 2, 64),
che, in conseguenza, era portato a sentire nel passo una contraddizione
spiegabile coi sentimenti di Didone: da un lato ella si lamenterebbe del
matrimonio, ma dall'altro lascerebbe prorompere il proprio sentimento e
riconoscerebbe che una vita senza nozze sarebbe una vita da bestie"[123].
Quintiliano cita il v. 550 e metà del 551 aggiungendo un punto
interrogativo e considerandoli un esempio della figura dell'emphasis
:" Non licuit thalami expertem sine crimine vitam/degere, more ferae?"
L'enfasi è spiegata:"cum ex aliquo dicto latens aliquid eruitur...Quamquam
enim de matrimonio queritur Dido, tamen huc erumpit eius adfectus, ut sine
thalamis vitam non hominum putet, sed ferarum " (Institutio oratoria
, IX, 2, 64), quando da qualche detto scaturisce qualcosa di nascosto...sebbene
infatti Didone si lamenti del matrimonio, tuttavia la sua passione prorompe là
dove ella ritiene che la vita senza nozze sia non da uomini ma da bestie.
Quale che sia l'interpretazione di
Quintiliano, nel testo di Virgilio il letto e la colpa sono strettamente
congiunti e la presenza dell'uno significa quella dell'altra.
Ella dunque è colpevole, mentre
Enea è innocente poiché obbedisce agli ordini degli dèi che vengono ribaditi da
Mercurio. Il quale gli appare in sogno e gli dice pure che Didone è risoluta a
morire ("certa mori ", v. 564), ma questo non ha importanza né per l'uomo
né per il dio. Ella infatti rivolge nel petto inganni e una sinistra
scelleratezza :"illa dolos dirumque nefas in pectore versat "(v.
563). L'allitterazione in dolos dirumque sottolinea entrambe le colpe
della disgraziata. Qui si vede che mentre il sogno, ossia il desiderio
cammuffato, suggerisce l'inganno e il misfatto, trova anche il modo di
discolpare il dormiente proiettando sulla regina tutto il male che egli stesso è
già preparato a perpetrare contro di lei.
Bisogna solo evitare di essere
danneggiati dalla femmina "varium et mutabile semper ", v. 569. Dopo
queste parole l'immagine onirica tornò nell'oscuro e ribollente crogiolo
dell'inconscio, ovvero, con le parole di Virgilio:"sic fatus nocti se
immiscuit atrae " (v. 570), dopo avere parlato così, si mescolò alla notte
oscura. Il sogno però non si era mascherato abbastanza bene, sicché Enea si
svegliò terrorizzato:"Tum vero Aeneas subitis exterritus umbris/corripit e
somno corpus sociosque fatigat " (vv. 571-572), allora sì che Enea,
spaventato dall'apparizione improvvisa, strappa il corpo dal sonno e incalza i
compagni. A questo punto è necessaria un'occhiata alla teoria freudiana di cui
mi sono avvalso per interpretare la visione onirica di Enea.
La follia metodica dei sogni.
Alcuni versi riferiti si prestano
all'interpretazione di Freud il quale sostiene che "ogni sogno si rivela
come una formazione psichica densa di significato"[124]
e che nella follia onirica, come in quella di Amleto, c'è un metodo. L'autore de
L'interpretazione dei sogni riconosce il suo debito alla letteratura
classica:"Non diversa era l'opinione degli antichi sulla dipendenza del
contenuto onirico dalla vita" (p. 20). Quindi cita un episodio di Erodoto,
grosso modo, e, in latino dei versi di Lucrezio:"Et quo quisque fere
studio devinctus adhaeret,/aut quibus in rebus multum sumus ante morati/atque in
ea ratione fuit contenta magis mens,/in somnis eadem plerumque videmur obire:/causidici
causas agere et componere leges,/induperatores pugnare ac proelia obire,/nautae
contractum cum ventis degere bellum,/nos agere hoc autem et naturam quaerere
rerum/semper et inventam patriis exponere chartis ", De rerum natura
, IV, 962-970 ( gli ultimi tre versi non compaiono nella citazione freudiana), e
generalmente la passione cui ciascuno è strettamente legato, o ciò su cui ci
siamo molto intrattenuti prima, e in quel meditare si è più trattenuta la mente,
i medesimi pensieri ci sembra di incontrare nei sogni di solito: agli avvocati
trattano cause e confrontano leggi, i generali combattono e affrontano
battaglie, i marinai continuano la guerra ingaggiata coi venti, noi facciamo
quest'opera, e indaghiamo la natura sempre, e, scopertala, la esponiamo in carte
latine. Intanto vediamo l'etimologia di somnium : la radice sopn-
>somn- deriva dall'indoeuropeo *supn-che ha dato come esito in
greco uJpn- da cui
u{pno" .
Queste immagini oniriche di Enea
dunque secondo Lucrezio corrispondono ai suoi pensieri e desideri diurni
Ma torniamo all'inventore della
psicoanalisi che in verità utilizza molto i classici.
Spesso il sogno è l'appagamento
mascherato di un desiderio rimosso; in altre parole le idee latenti nel
presentarsi si mascherano, quindi, per conoscerle, bisogna cavar loro la
maschera. Allora bisogna tenere conto della condensazione per cui "ogni
situazione porta la traccia di due o più reminiscenze della vita reale...non è
neanche raro che il processo del sogno si diverta a formare un'immagine composta
con due idee contrastanti; per esempio una giovane donna sogna di portare un
ramo fiorito, quello dell'angelo nei quadri dell'Annunciazione (simbolo
d'innocenza; questa giovane si chiama Maria). Soltanto, in questo caso, il
ramoscello porta dei fiori bianchi e carnosi simili alle camelie. (Il contrario
dell'innocenza: la signora dalle camelie)"[125].
La condensazione onirica tra
l'altro, aggiungo, può spiegare gli ibridi mostruosi della mitologia e della
letteratura.
Poi, sempre per risalire alla
parte latente, e vera, si deve considerare lo spostamento psichico o
spostamento nel sogno:"tutto ciò che vi era di essenziale nelle idee latenti è
rappresentato nel sogno da particolari secondari"[126].
Per giunta le idee latenti si manifestano travestite, attraverso immagini:"Tali
idee non ci si presentano sotto la forma verbale più riassuntiva possibile, con
la quale noi abbiamo l'abitudine di concretare i nostri pensieri, ma il più
delle volte trovano un mezzo simbolico per esprimersi, il mezzo di cui si
serve il poeta che nella sua opera fa uso di raffronti e di metafore"(p.
67). Il sogno infatti si rappresenta "con una serie di immagini visive"
(p. 68) che derivano da idee alimentate dai ricordi che hanno lasciato maggiore
impressione e "la cui origine risale addirittura alla prima infanzia". Le idee
latenti, dicevamo, si camuffano perché la coscienza non le ammette e i sogni,
che si formano con lo stesso procedimento dei sintomi nevrotici e dei lapsus, "sono
realizzazioni velate di desideri inibiti"(p. 102).
Subito dopo Freud suddivide i
sogni "dal punto di vista di realizzazione di desideri...in tre categorie:
in primo luogo sta il sogno che senza camuffamenti rappresenta un desiderio
non inibito. E' questo il sogno di tipo infantile che diviene sempre meno
frequente man mano che il fanciullo cresce...In secondo luogo abbiamo il
sogno camuffato che rappresenta un desiderio inibito. La maggior parte dei
nostri sogni è di questo tipo ed ecco perché non possono venir compresi senza
l'analisi...Infine viene il sogno che esprime un desiderio inibito senza
travestimento o con un travestimento molto ridotto. Quest'ultimo sogno è sempre
accompagnato da una sensazione di angoscia che lo costringe all'interruzione"
(p. 103).
E' il caso del sogno di Enea il
quale comunque obbedisce subito, senza nemmeno chiedersi da dove venga
quell'ombra: se dal cielo, da se stesso, o dall'inferno:"Sequimur te, sancte
deorum, /quisquis es, imperioque iterum paremus ovantes " (vv. 576-577),
seguiamo te, santo tra gli dèi, chiunque tu sia, e obbediamo di nuovo al tuo
comando, festanti. La formula liturgica sancte deorum (v. 576) completata
da quel quisquis es (v. 577) derivato dai tragici e rivolto agli dèi
(Eschilo, Agamennone 160; Euripide, Troiane , 885) lascia spazio
all'unica interpretazione della provenienza divina dell'ordine cui dunque
bisogna obbedire.
Quanto all'ultima parola del
verso, si può accostare a Georgiche I, 423 (ovantes gutture corvi
, i corvi che festeggiano a squarciagola il ritorno del sole) e inferirne che
Didone era diventata noiosa, e che lasciare tale amante per Enea era una festa.
Per quale altro motivo infatti realisticamente e umanamente si lascia un'amante
(e pure un amante)?
Omero, lo abbiamo già accennato,
senza tante impalcature moralistiche e menzogne imperiali dice che Odisseo
desiderava lasciare Calipso, la quale lo trovò mentre piangeva semplicemente
poiché questa femmina, umana o divina che fosse, non gli piaceva più :" e lo
trovò seduto sul lido: mai gli occhi/erano asciutti di lacrime, ma gli si
struggeva la dolce vita/mentre sospirava il ritorno, poiché non gli piaceva più
la ninfa" (Odissea , V, vv.151-153). La storia virgiliana di Didone
comunque, secondo Auerbach, è più vicina al gusto moderno:"Nel grande evento
mondiale egli intrecciò, non sempre felicemente nei particolari, ma in complesso
in modo indimenticabile e costitutivo per l'Europa, il primo grande romanzo
d'amore spirituale nella forma fino ad oggi valida: Didone soffre un dolore più
profondo che Calipso, e la sua storia è l'unico brano di grande poesia
sentimentale che il medioevo abbia conosciuto"[127].
Insomma Enea fugge a tutto spiano:
estrae dal fodero la spada fulminea (vaginaque eripit ensem /fulmineum
, v. 579) e taglia le gomene. Tale ardore che sostituisce quello amoroso prende
contemporaneamente tutti i Troiani i quali danno di piglio ai remi e fuggono a
precipizio"idem omnis simul ardor habet, rapiuntque ruuntque " (v. 581).
La spada e il fulmine dovrebbero
essere simboli erotici se non addirittura fallici: il grande seduttore Alcibiade
si era fatto incidere sullo scudo Eros
fulminatore[128]
invece degli stemmi gentilizi.
Inserisco una scheda su un personaggio che può costituire l'altra faccia o la parte in ombra del "pio" Enea: Alcibiade, il grande esteta e seduttore, visto in parallelo con Don Giovanni e con il dandy decadente.
Inserisco una scheda su un personaggio che può costituire l'altra faccia o la parte in ombra del "pio" Enea: Alcibiade, il grande esteta e seduttore, visto in parallelo con Don Giovanni e con il dandy decadente.
Il grande avventuriero ateniese è inseribile, sostiene Baudelaire, nella
breve lista dei rappresentanti del dandismo dell'antichità, "il dandismo è
un'istituzione vaga, bizzarra come il duello; antichissima, perché Cesare,
Catilina, Alcibiade ce ne forniscono degli splendidi tipi"[129].
Poco più avanti il poeta francese dà una definizione del dandismo:" è l'ultimo
raggio di eroismo nei periodi di decadenza...è un sole che tramonta; come
l'astro che declina, è superbo, senza calore e pieno di malinconia".
Vediamo la malinconica fine di questo prototipo del dandy .
Plutarco
racconta che dopo la caduta di Atene (404 a. C.) Alcibiade ebbe paura dei
Lacedemoni che dominavano la Grecia e si recò da Farnabazo, in Frigia,
coltivandone l'amicizia e ricevendone onori:"qerapeuvwn
aJvma kai; timwvmeno""[130].
Cornelio Nepote afferma che Alcibiade conquistò Farnabazo a tal punto con
la sua signorilità che nessuno lo superava nell'intrinsichezza con il satrapo:"quem
quidem adeo sua cepit humanitate, ut eum nemo in amicitia antecederet "[131].
Attraverso l' humanitas riconosciamo in Alcibiade un altro aspetto del
dandy di Baudelaire:"Che questi uomini si facciano chiamare raffinati,
zerbinotti, bellimbusti, lions o dandys, tutti derivano da una medesima origine;
tutti partecipano del medesimo carattere di opposizione e di rivolta; tutti sono
dei rappresentanti di ciò che vi ha di meglio nell'orgoglio umano, di questo
bisogno, troppo raro presso gli uomini di oggi, di combattere e distruggere la
trivialità"[132].
Andrea Sperelli del Piacere di
D'Annunzio
può trovare un antenato in Alcibiade,
soprattutto in quello della decadenza:"il senso estetico aveva sostituito il
senso morale. Ma codesto senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e
sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio.... Gli uomini
d'intelletto, educati al culto della Bellezza, conservano sempre, anche nelle
peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezione della Bellezza è,
dirò così, l'asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le
passioni gravitano"[133].
L'esteta di D'Annunzio pensa di sè:"Io sono camaleontico , chimerico,
incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l'unità riuscirà sempre
vano. Bisogna omai ch'io mi rassegni. La mia legge è in una parola: NUNC
. Sia fatta la volontà della legge"[134].
Plutarco aveva scritto di Alcibiade che per accalappiare le persone era capace
di imporsi trasformazioni più rapide e radicali del camaleonte ("ojxutevra"...tropa;"
tou' camailevonto""),
il quale infatti non è creatura altrettanto versatile in quanto non in grado di
assumere il colore bianco, mentre per quest'uomo, che passava con uguale
disinvoltura attraverso il bene e il male, non c'era niente di inimitabile né di
non provato:" jAlkibiavdh/ de; dia;
crhstw'n ijovnti kai; ponhrw'n oJmoivw" oujde;n h'jn ajmivmhton oujd&
ajnepithvdeuton": a Sparta viveva da
sportivo (gumnastikov"),
si comportava da persona semplice e sobria (eujtelhv"),
perfino austera (skuqrwpov");
in Ionia invece appariva raffinato (clidanov"),
gaudente (ejpiterphv"),
indolente (rJav/qumo");
in Tracia si ubriacava (mequstikov")
e andava a cavallo ( iJppastikov");
e quando frequentava il satrapo Tissaferne superava nel fasto e nel lusso la
magnificenza persiana("uJperevballen
o[gkw/ kai; poluteleiva th;n
Persikh;n megaloprevpeian"[135]).
Insomma assumeva di volta in volta le forme e gli atteggiamenti più consoni a
quelli cui voleva piacere, o per dirla con Cornelio Nepote era "temporibus
callidissime serviens "[136]
abilissimo nell'adattarsi alle circostanze.
Aspetti del carattere simile a questo e ad altri di Alcibiade, Cicerone
attribuisce a Catilina nell'orazione Pro Caelio (del 56 a. C.) :"
Illa vero iudices, in illo homine admirabilia fuerunt, comprehendere multos
amicitia, tueri obsequio, cum omnibus communicare quod habebat, servire
temporibus suorum omnium pecunia, gratia, labore corporis, scelere etiam, si
opus esset, et audacia, versare suam naturam et regere ad tempus atque huc et
illuc torquere et flectere, cum tristibus severe, cum remissis iucunde, cum
senibus graviter, cum iuventute comiter, cum facinerosis audaciter, cum
libidinosis luxuriose, vivere ". (13). Quei famosi aspetti invero, giudici,
fecero stupire in quell'uomo: afferrare molti con l'amicizia e conservarli con
la compiacenza, mettere in comune con tutti ciò che aveva, venire incontro alle
circostanze critiche di tutti i suoi amici con il denaro, la sua influenza, la
fatica corporale, e se ce n'era bisogno anche con il delitto e l'ardimento,
modificare la sua indole e indirizzarla secondo le circostanze, volgerla e
piegarla di qua e di là, vivere con gli austeri severamente, con i gioviali
allegramente, con i vecchi seriamente, con i giovani benevolmente, con i
criminali temerariamente, con i libidinosi dissolutamente.
Alcibiade quindi anticipa Catilina, Sperelli, e anche l'esteta-seduttore di
Kierkegaard , il seduttore sensuale ed estensivo, don Giovanni,
"l'incarnazione della carne ovvero la spiritualizzazione della carne da parte
dello spirito proprio della carne"[137]
che vive di preda e ama "il casuale, l'accidentale", poiché "il sensuale è il
momentaneo. Il sensuale cerca la soddisfazione istantanea, e quanto più è
raffinato, tanto più sa trasformare l'istante del godimento in una piccola
eternità"[138].
Alcibiade del resto affascinava anche con la parola quindi
rappresenta pure il seduttore intellettuale, quello intensivo che "si
serviva degli individui soltanto come incitamento per gettarli poi via da sé,
così come gli alberi si scrollano delle foglie: lui ringiovaniva, le foglie
appassivano…L'attimo è bello e nell'attimo la donna è tutto, e di conseguenze io
non me ne intendo"[139].
Tali uomini, don Giovanni e Faust, sono gli erotici. Essi capiscono che
la donna è un inganno degli dèi, comprendono che ella desidera essere sedotta e
loro vogliono godere dell'inganno senza essere ingannati:"Questi erotici sono i
felici. Essi vivono in modo più voluttuoso degli dèi, perché banchettano sempre
soltanto con ciò che è più pregiato dell'ambrosia e bevono ciò che è più soave
del nettare. Essi…mangiano soltanto l'esca, senza essere mai presi. Gli altri
uomini abboccano, nel modo in cui i contadini pranzano con l'insalata di
cetrioli, e sono presi"[140].
Onorato dunque da Farnabazo per la sua finezza e la sua quasi illimitata
capacità di piacere, Alcibiade al tramonto ha ancora modo di soddisfare la
passione massima del dandy :" una specie di culto di se stesso, che può
sopravvivere alla ricerca della felicità che si trova negli altri, nella donna,
per esempio; che può sopravvivere anche a tutto ciò che si chiama illusione. E'
il piacere di meravigliare e la soddisfazione di non essere mai meravigliati. Un
dandy può essere uno scettico, può essere un uomo sofferente, ma, in
quest'ultimo caso, egli sorriderà come il lacedemone morsicato dalla volpe"[141].
Intanto gli Ateniesi, oppressi dalla tirannide dei Trenta, capivano, mentre
piangevano ripensando agli errori commessi e alle proprie follie, la più grande
delle quali consideravano la seconda ira contro Alcibiade ("wJ'n
megivsthn ejpoiou'nto th;n deutevran pro;" jAlkibiavdhn ojrghvn"[142]).
Allontanandolo di nuovo per una colpa non sua, si erano privati del comandante
migliore, un uomo dissoluto, ma capace e insostituibile come stratego. Qui
viene in mente un altro esteta antico, il Petronio di Tacito che come proconsole
in Bitinia, poi come console "vigentem se ac parem negotiis ostendit "[143],
si rivelò energico e all'altezza dei suoi compiti.
La fiducia nelle capacità di Alcibiade anzi era così forte che nei suoi
concittadini rimaneva una vaga speranza che la potenza di Atene non sarebbe
andata del tutto perduta fino a quando quell'uomo geniale fosse stato vivo. Già
una volta, pensavano gli Ateniesi, Alcibiade li aveva aiutati, e se ne avesse
avuto le possibilità, lo avrebbe fatto ancora. Né questo sognare dei più era
assurdo ("a[logon"[144]),
se anche i Trenta si preoccupavano di lui e davano la massima importanza a ciò
che egli faceva. I tiranni diretti da Crizia erano i nemici naturali del nostro
esteta, in quanto uomini volgari; una volgarità messa bene in rilievo da Lisia
quando, nell'orazione Contro Eratostene, racconta come Melobio, uno dei
Trenta, appena entrato in casa di Polemarco, strappò gli orecchini d'oro dalle
orecchie di sua moglie ("gunaiko;"
crusou'" eJlikth'ra"...Mhlovbio" ejk tw'n w[twn ejxeivleto"[145]).
Sappiamo da Tucidide che Alcibiade non faceva a meno del denaro e dei beni
materiali, anzi egli aveva desideri troppo grandi rispetto alle sue ricchezze (VI,
15, 3); ma i miseri quattrini per lui erano solo un mezzo. Diamo ancora la
parola a Baudelaire:" Se ho parlato del denaro, è perché il denaro è
indispensabile a coloro che si fanno un culto delle loro passioni; ma il
dandy non aspira al denaro come a una cosa essenziale; un credito indefinito
gli potrebbe bastare: egli lascia volentieri questa banale passione agli uomini
volgari"[146].
Costoro non si intendono di bellezza che si manifesta attraverso la
semplicità di cui Alcibiade si dimostrò capace quando viveva a Sparta,
primeggiando anche in quella energica, sobria, frugale semplicità (
eujtevleia)
che del resto faceva parte pure dello stile
alto degli Ateniesi come ebbe a dire il Pericle di Tucidide (II, 40, 1).
Anche questo aspetto della distinzione ateniese, e di Alcibiade, trova una
corrispondenza nel dandy baudelairiano:"il dandismo non è, come molte persone
poco riflessive vogliono credere, un diletto eccessivo della toeletta e
dell'eleganza materiale. Queste cose non sono per il perfetto dandy che un
simbolo della superiorità aristocratica del suo spirito. Così, ai suoi occhi,
desiderosi sopra tutto di distinzione , la perfezione della toeletta
consiste nella massima semplicità, che è, in realtà, il miglior modo di
distinguersi"[147].
Altrettanto afferma Tacito del suo elegantiae arbiter
[148], come abbiamo visto.
Abbiamo pure visto che il collegamento semplicità-aristocrazia viene fatto anche
da diversi autori moderni.
Alcibiade preoccupava Crizia che lo conosceva bene per essere stato suo
condiscepolo alla "scuola" di Socrate, e perciò mise in allarme gli Spartani che
pure non ne ignoravano le capacità.
Sicché Lisandro, il vincitore della grande guerra fratricida del Peloponneso,
ricevette l'ordine di eliminarlo da parte degli efori, sia che volessero fare
cosa gradita ad Agide, sia che pure loro ne temessero l'intelligenza e
l'attitudine per le cose grandi:"
ei[te kajkeivnwn fobhqevntwn th;n ojxuvthta kai; megalopragmosuvnhn tou'
ajndrov""[149]
. Il dandy moderno è antidemocratico ed è visto con sospetto dalla
democrazia che tutto livella:"Ma purtroppo la marea crescente della democrazia,
che tutto invade e tutto pareggia, avvolge nell'oscurità giorno per giorno
questi ultimi rappresentanti dell'orgoglio umano e versa fiotti di oblio sulle
tracce di questi prodigiosi mirmidoni", afferma Baudelaire[150];
e D'Annunzio ne Il piacere denuncia "il grigio diluvio democratico
odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente"; un nubifragio sotto
il quale "va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica
nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa
tradizione familiare d'eletta cultura, d'eleganza e di arte" (p. 38). Alcibiade
fu allontanato due volte dal popolo, che pure lo considerava stratego
straordinario come abbiamo visto, poi venne combattuto dagli oligarchi e
perseguitato dai Trenta tiranni. Agli uomini eccezionali invero nessun regime
è favorevole poiché tutti hanno una componente tirannica e tendono a
livellare le teste secondo il suggerimento di Trasibulo, tiranno di Mileto a
Periandro tiranno di Corinto:" oiJ
uJpetivqeto Qrasuvboulo" tou;" uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein "[151],
gli suggeriva di ammazzare quelli che si distinguevano tra i cittadini.
Non tutta la letteratura è favorevole agli
uomini straordinari.
Nelle Baccanti
di Euripide il Coro nel Primo Stasimo canta che Dioniso odia chi non
si prende cura di tenere il cuore e la mente lontani dagli uomini
straordinari:'"ajpevcein prapivda
frevna te;;;;;;-perissw'n para; fwtw'n"(vv.427-428).
Nell'Antigone
è Ismene, la sorella in un primo tempo timorosa e sottomessa agli ordini di
Creonte ad affermare:"obbedirò a coloro che sono arrivati al potere.
Infatti il/fare cose straordinarie (to; ga;r
perissa; pravssein) non ha senso, proprio nessuno" (vv. 67-68)-
In Delitto e
castigo di Dostoevskij, "gli uomini si dividono in -ordinari- e -straordinari-.Quelli
ordinari devono vivere nell'obbedienza e non hanno diritto di violare la legge,
perché essi, vedete un pò, sono appunto ordinari. Quelli straordinari, invece,
hanno il diritto di compiere delitti d'ogni specie e di violare in tutti i modi
la legge, per il semplice fatto d'essere straordinari" (p.290). Di questi
vorrebbe far parte il giovane assassino Raskòlnikov il quale afferma che :"Licurgo,
Solone, Maometto, Napoleone e via discorrendo, tutti sino all'ultimo sono stati
dei delinquenti, già per il semplice fatto che ponendo una nuova legge, per ciò
stesso infrangevano la legge antica, venerata dalla società e trasmessa dai
padri; inoltre certamente non si arrestarono nemmeno dinanzi al sangue…Vale anzi
la pena di osservare che la maggior parte di questi benefattori e fondatori
della società umana furono dei terribili spargitori di sangue. Insomma, io
dimostro che tutti gli uomini, e non solamente i grandi, ma anche quelli che
escono sia pur di poco dalla comune carreggiata, che sono cioè, in qualche
misura, capaci di dire qualcosa di nuovo, devono immancabilmente, per la loro
stessa natura, essere (più o meno s'intende) dei criminali". Ma questo ragazzo
che per dimostrare la sua straordinarietà ammazza due vecchie deve riconoscere
di non essere fatto della quella pasta di quegli uomibi e di essere solo "un
pidocchio estetizzante"[152].
Sbaglia anche il
Duvskolo"
Cnemone di Menandro quando non vuole essere considerato uno dei tanti:"nomivzeq&
eJvna tina;/oJra'n
me tw'n pollw'n"(484-485), fate conto
di vedere in me uno dei tanti se non do un esempio per tutti quanti vengono a
disturbarmi, esclama arrabbiato. Ma più avanti anche lui si ricrederà. Viceversa
Moschione, irresoluto ma non disonesto, nel monologo iniziale della Samia
si presenta come uno dei tanti:"tw'n
pollw'n ti" w[n"(v. 11).
Nella letteratura
russa c'è l'abulico Oblomov , l'archetipo dell'inetto Zeno, che
non sopporta di essere confuso con "gli altri" e ha un ecceionale scatto
autoritario quando il servo Zachàr osa dire:"Io pensavo che gli altri non sono
peggio di noi e cambiano casa", ripeté con orrore:"Gli altri non sono
peggio!..ecco cosa sei arrivato a dire! Adesso lo so che sono per te un
qualunque altro!" . Quindi:"Vattene! Non ti voglio più vedere!" esclamò Oblomov
imperiosamente, indicando l'uscio. "Ah! Gli altri! Gli altri, benissimo![153].
Tra le tante
espressioni favorevoli agli uomini straordinari ne riporto una di Seneca:"fuge
multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum…iste homo non est unus e populo,
ad salutem spectat " (epist., 10, 1 e 3), evita la folla, evita la compagnia
di poche persone e anche quella di una sola…questo non è uno dei tanti, mira
alla salvezza dell'anima.
Infine Madame
Bovary detesta la mediocrità del marito in tutte le manifestazioni di lui,
comprese quelle erotiche:"si persuase facilmente che nella passione di Charles
per lei non vi era nulla di eccessivo" ; quindi si ripeteva:"Dio mio, ma perché
mai mi sono sposata?" (p. 36).
Straordinario fu Alcibiade, e fece paura anche ai suoi stessi compagni di
partito: aveva passioni più grandi di quanto consentissero le sue ricchezze,
sia per l'allevamento dei cavalli, sia per le altre spese, e molti lo temevano
per le sue stravaganze, per la grandezza e l'eccentricità delle sue vedute, ci
racconta Tucidide[154].
D'Annunzio ricorda questa descrizione di antimediocrità quando in Maia
gli pone la domanda:"E qual gioia/ti parve più fiera?", quindi gli attribuisce
la risposta:"La gioia/d'abbattere il limite alzato".
Allora Lisandro mandò un messaggio a Farnabazo il quale incaricò del misfatto
alcuni parenti suoi. Alcibiade ebbe dei sogni premonitori, ma, lo abbiamo
imparato da Tacito e ancor più dall'esperienza personale, " quae fato manent
, quamvis significata, non vitantur "[155],
ciò che spetta al destino, sebbene rivelato non si evita.
Le versioni della sua morte sono due: in ogni caso egli morì con una donna e per
fuggire alle fiamme che possono evocare la sua vita tumultuosa. Chi fosse
questa donna, non ha importanza. Fu certo l'ultima di una serie molto lunga
comprendente etere, schiave prigioniere di guerra, ragazze di buona famiglia e
regine, come la moglie del re spartano Agide, sedotte tutte dalla "genialità
della sensualità", dalla "potenza demoniaca della sua sensualità"[156]
si può dire di lui come fa Kierkegaard di Don Giovanni, l'erotico che mangia
l'esca senza farsi all'amo.
Questa volta però Alcibiade si lasciò prendere; forse perché egli tendeva non
solo al piacere ma anche al potere[157],
e se il primo scopo,con qualche sforzo, poteva ancora raggiungerlo, il secondo
oramai gli era sfuggito per sempre.
Plutarco dunque racconta che, secondo alcuni, i sicari diedero fuoco alla casa
dove egli abitava, in Frigia, con l'etera Timandra. Alcibiade si lanciò fuori e
gli assassini, non osando avvicinarsi, lo colpirono vilmente da lontano, finché
la vittima designata cadde. Timandra, nei limiti delle sue possibilità, gli
diede onorevole sepoltura. In questa versione c'è una donna, una cortigiana che
si occupa delle esequie del seduttore. Nell'altra, la presenza femminile è la
causa della morte di questo don Giovanni antico. "Sua passion predominante", si
ricorderà il libretto di Da Ponte, "è la giovin principiante"[158].
Ebbene il figlio di Clinia avrebbe sedotto una ragazza di buona famiglia e i
fratelli di lei, non sopportando l'offesa, diedero fuoco alla casa e lo uccisero
mentre ne saltava fuori attraverso il fuoco ("dia;
tou' puro;" ejxallovmenon",Vita di
Alcibiade , 39, 9). Queste fiamme mi danno l'occasione per un'ultima
citazione di Baudelaire:"il carattere della bellezza del dandy consiste
soprattutto in quell'aria fredda che gli viene dalla ferma risoluzione di non
commuoversi; si direbbe un fuoco latente che si lascia indovinare, che potrebbe
ma non vuole divampare"[159].
Anche Don Giovanni, alla fine dell'opera, scompare nel fuoco:"Da quel tremore
insolito.../Sento...assalir...gli spiriti.../Donde escono que' vortici/ di foco
pien d'orror!...Cresce il fuoco, compariscono diverse furie, s'impossessano di
Don Giovanni, e seco lui sprofondano"[160].
Quella exacerbatio cerebri di cui parla S. Kierkegaard nel
Diario del seduttore
[161],
o piuttosto quel fuoco interno, prima di spegnersi, fuoriesce, divampa e uccide
l'uomo. Cornelio Nepote ci informa che allora egli aveva circa quarant'anni ("Alcibiades
circiter quadraginta natus diem obiit supremum "[162]),
ma nel 404 doveva averne qualcuno di più. Stava comunque declinando
quella sua giovinezza e follia che sembrava essere oltre i limiti naturali"(hJ
ejmh; neovth" kai; a[noia para; fuvsin dokou'sa ei'jnai"[163]
) vantata da lui stesso di fronte al popolo prima della spedizione in
Sicilia. Alcibiade aveva fatto "della giovinezza il proprio cavallo di
battaglia"[164].
Viene da pensare che un personaggio come Alcibiade, il giovane leone allevato[165]
in casa dell'altro leone[166]
che aveva fatto di Atene la scuola dell'Ellade[167],
non potesse sopravvivere né alla potenza di Atene né alla propria giovinezza.
Lord Henry avrebbe potuto rivolgere anche a lui, nei momenti d'oro ricordati da
Tucidide, le parole dette a Dorian Gray:"Sì, gli dèi furono benigni con voi,
Gray. Ma gli dèi, dopo breve tempo rivogliono i loro doni. Avete soltanto pochi
anni da vivere veramente. Quando la vostra gioventù se ne sarà andata, avrete
perduto anche la vostra bellezza, e vi renderete conto d'un tratto che non ci
sono più vittorie per voi, o che dovete accontentarvi di quelle banali vittorie
che la memoria del vostro passato renderà più amare delle sconfitte. Ogni mese
che passa vi avvicina a qualche cosa di orrendo. Il tempo è geloso di voi, e si
accanisce sui vostri colori di giglio e di rosa. Le vostre tinte appassiranno,
le guance si faranno cave, si appannerà il vostro sguardo. Soffrirete
tremendamente...Godete della vostra giovinezza finché la possedete! Non sprecate
il tesoro dei vostri giorni ascoltando la gente noiosa, cercando di consolare i
predestinati all'insuccesso, donando la vostra vita agli incolti, ai mediocri,
ai volgari...Vivete! Vivete la meravigliosa vita che è in voi! Nulla deve andar
perduto per voi. Cercate continuamente nuove sensazioni. Non abbiate paura di
nulla...Un nuovo edonismo! Di questo ha bisogno il nostro secolo. Potreste
esserne il simbolo visibile. Nulla è vietato alla vostra persona. Il mondo è
vostro, per una stagione...Perché la vostra gioventù durerà un tempo così
breve-così breve! Gli umili fiori di prato avvizziscono, ma rifioriranno ancora.
Quest'altro giugno l'acacia sarà d'oro, come è ora...Ma noi non torniamo mai
alla nostra giovinezza. L'onda di gioia che pulsa in noi a vent'anni, si fa
tarda. Le membra non ci ubbidiscono più, i sensi si consumano. Diventiamo
ripugnanti fantocci, perseguitati dal ricordo delle passioni di cui abbiamo
avuto timore e delle squisite tentazioni alle quali non avemmo il coraggio di
cedere. Gioventù! Gioventù! Non c'è nulla al mondo che valga la giovinezza!"[168].
Probabilmente fu per non
sopravvivere agli ultimi bagliori della sua giovinezza, per non arrivare all'età
del Casanova di Arthur Schnitzler il quale "a cinquantatre anni, quando
"il fulgore interiore ed esteriore andava lentamente spegnendosi" era "spinto a
vagare per il mondo non più dal giovanile piacere dell'avventura, ma
dall'inquietudine dell'avanzante vecchiaia"[169]
che Alcibiade volle morire in quell'ultimo fuoco, lanciato per l'ultima volta
dall' Eros fulminatore[170]
che si era fatto incidere sullo scudo invece degli stemmi gentilizi.
Segue, nell'Eneide , il
punto di vista della regina che è opposto a quello di Enea. Appena sveglia
Didone si accorge dell'abbandono, si infuria e vorrebbe attaccare il fuoco, che
la divora, a Enea, per distruggerlo:"ferte citi flammas, date tela, impellite
remos! " (v. 594), portate, svelti le fiamme, spiegate le vele, spingete i
remi! Per lei le azioni di Enea sono tutt'altro che pie:"nunc te facta impia
tangunt? " (v. 596), soltanto ora ti colpiscono le scelleratezze? domanda a
se stessa.
Quindi torna la denuncia della
perfidia:"En dextra fidesque! " (v. 597), ecco la fedeltà dell'impegno!
C'è il rimpianto di non avere usato il suo fuoco per provocare una
conflagrazione generale:"faces in castra tulissem/implessemque foros flammis
[171]
natumque patremque/cum genere extinxem[172],
memet super ipsa dedissem " (vv. 604-606), avrei potuto portare le fiaccole
nell'accampamento, e riempire di fiamme le corsie delle navi e il figlio e il
padre annientare con tutta la razza, e me stessa avrei potuto gettare sopra di
loro. Se non nella vita potevano essere uniti almeno nella morte.
Segue una maledizione per la cui
attuazione sono chiamate a raccolta potenze celesti e infere. Anzitutto il
sole:"Sol, qui terrarum flammis opera omnia lustras " (v. 607), Sole che
con le tue fiamme rischiari tutte le opere della terra. Il sole che vede tutto
come divinità suprema è un tovpo"
della letteratura greca che prosegue in quella europea[173].
Gli altri numi invocati sono
Giunone, la dea pronuba che è stata "interpres curarum et conscia
" (v. 608), intermediaria e al corrente delle pene di Didone; Ecate, la divinità
infernale "nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes " (609) invocata
a ululati nei trivi notturni per le città; Hecate triformis torna nella
preghiera nera della Medea di Seneca (v. 7): " Un po’ tutta Didone è una
filigrana di Medea".
Vengono poi chiamate le Furie
vendicatrici e tutti gli dèi di Elissa morente "Dirae ultrices et di
morientis Elissae" (v. 610). La regina li prega di rivolgere prima o poi la
loro potenza contro quell'infandum caput (v. 613) quella testa
esecranda, abominevole.
Questo è una altro
tovpo" interessante: l'uomo è la sua
testa. Ricorro ancora all'Antigone il cui primo verso fa:"
w'j koino;n aujtavdelfon jIsmevnh" kavra",
o capo davvero fraterno di Ismene, sangue mio.
L'espressione non è una perifrasi
qualsiasi, né una semplice sineddoche come annotano i commenti rammentando
anche, di solito, " il sacro capo/ del tuo Parini" di Foscolo[174].
La testa significa l'acropoli
della persona: un'immagine coniata da Platone[175],
e ripresa da Cicerone nelle Tusculanae disputationes :"Plato...rationem
in capite sicut in arce posuit " (I, 10), Platone collocò la ragione nel
capo come in una rocca.
Di tale termine nel senso
pregnante qui indicato, Sofocle fa largo uso (p. e. Edipo re , vv. 40,
950, 1207,1235), sempre in momenti critici, per segnalare che si vuole chiamare
in causa la parte più importante e significativa dell'uomo.
Al capo, e al viso ci si rivolge
per ottenere la comprensione o l'intelligenza senza la quale tutto diviene
doloroso. E' l'espressione del volto, e in
questo particolarmente degli occhi, che suscita sentimenti forti e duraturi.
Abbiamo visto che Thomas Mann ne La montagna incantata spiega l'amore
del protagonista per una compagna di sanatorio come attrazione quasi esclusiva
per il volto quale portatore della spiritualità della persona.
La testa di Enea ha suscitato prima l'amore e
l'adorazione, quindi l'esecrazione e l'abominio dell'amante abbandonata.
Sfrondando l'intellettualismo che secondo
Saul Bellow[176]
soffoca La montagna incantata , l'idea è la stessa in Virgilio e in T.
Mann.
La testa anche odiosa, oppure indebolita e portatrice di significati poveri,
significa pur sempre la quintessenza dell'uomo.
Per esempio, nell'Odissea , Ulisse per evocare i morti supplica molto le
loro teste esangui ( polla; de;
gounouvmhn nekuvwn ajmenhna; kavrhna,
XI, 29). Queste sono svigorite e dotate di coscienza solo crepuscolare, eppure
continuano a rappresentare persona.
Didone dunque si uccide
maledicendo Enea gli augura quanto di peggio può capitare a un uomo: la guerra,
la morte prematura e la mancanza del sepolcro in mezzo alla sabbia:"sed
cadat ante diem mediaque inhumatus harena " (v. 620)
Vengono prefigurate le guerre
puniche: la discendenza di lei e quella di lui dovranno sempre odiarsi:"nullus
amor populis nec foedera sunto " (624), nessun amore né alleanza ci sia mai
tra i due popoli, secondo la disposizione testamentaria della regina.
Quindi viene evocata la figura di
Annibale:"exoriare
[177]
aliquis nostris ex ossibus ultor,/ qui face Dardanios ferroque sequare
colonos,/nunc, olim, quocumque dabunt se tempora vires " (vv. 625-627),
sorgi tu dalle mie ossa, un vendicatore che segua col fuoco e col ferro i coloni
Dardani, ora, in avvenire, in qualunque momento si offriranno le forze. Questa
grande fallita in amore, nel momento di morire, auspica la grande guerra contro
i Romani di quello che sarà il più nobile fallito del mondo antico, secondo una
definizione di G. De Sanctis. Quindi, sempre nell'auspicio di Didone, "la lotta
mortale si amplia in un quadro grandioso, che coinvolge gli uomini, la storia,
la natura. Il quadro è solennemente semplificato dalla concisione espressiva, di
gusto, si direbbe, tacitiano, che con l'accostamento di ciascun acc. al suo dat.
fa risaltare terribilmente la lotta e il suo carattere implacabile[178]":
"Litora litoribus contraria, fluctibus undas/imprecor, arma armis: pugnent
ipsique nepotesque " (vv. 628-629), auguro che i lidi contro i lidi, le onde
contro i flutti, le armi contro le armi combattano loro stessi e i discendenti.
L'ultimo verso (629) è ipermetro"l'ultima sillaba, -que , è in più e si
elide con la prima del verso seguente, haec . Giustamente gli interpreti
hanno cercato una funzione espressiva nella eccezionalità metrica. Con più
finezza di tutti il Pascoli sente che il verso "esprime il traboccare e qualche
cosa che non ha fine"...La guerra continua in un futuro infinito, infinito come
l'odio prorompente, traboccante della regina"[179].
Interessante è anche il v. 631
dove Virgilio dice che Didone cercava di spezzare al più presto la luce odiosa
(" invisam quaerens quam primum abrumpere lucem " ).
E' possibile ravvisare l'antitesi
della morte cercata dall'uomo dotato di grandezza eroica ("ta;
hJrwika; megevqh") che l'Anonimo Sul Sublime (IX, 10)
individua nell'Iliade riportando una preghiera di Aiace il quale chiede
a Zeus di morire nella luce per vedere ed essere visto mentre compie qualche
nobile impresa:
"Zeu'
pavter (fhsivn), ajlla; su; Jru'sai uJp& hjevro" ui'Ja" jAcaiw'n,-poivhson d&
ai[qrhn, do;" d& ojfqalmoi'sin ijdevsqai:-ejn de; favei kai; o[lesson"(Iliade
, XVII, 645-647), Zeus padre (dice), libera dalla caligine i figli degli Achei,
fai il sereno, concedi agli occhi di vedere: poi nella luce annientaci pure.
Aiace, commenta l'Anonimo, nella luce cerca una possibilità di impiegare il suo
valore per trovare in ogni modo un sudario degno della sua virtù ("wJ"
pavntw" th'" ajreth'" euJrhvswn ejntavfion a[xion",
IX, 10) e morire kalw'"
nobilmente.
Anche negli Annales di Ennio c'è un combattente che muore
cercando la luce con gli occhi:"Oscitat in campis caput a cervice revulsum,/semianimesque
micant oculi lucemque requirunt " (vv. 483-484 Skutsch) apre la bocca nei
campi la testa staccata dal collo, e semivivi brillano gli occhi cercando la
luce.
Del resto non solo gli occhi dell'eroe o del milite gregario, ma quelli
dell'uomo comunque "cercan morendo-il Sole[180]";
così il moribondo di Foscolo; così Osvald che alla fine degli
Spettri di Ibsen invoca il sole.
Didone invece vuole spezzare la
luce: sale furibonda i gradini del suo alto rogo e snuda la spada di Enea, dono
richiesto non per questo uso: " altos /conscendit furibunda
rogos ensemque recludit/Dardanium, non hos quaesitum munus in usus "
(vv. 646-647). Non è difficile individuare nella spada un simbolo fallico, sulle
tracce di Freud:" Tutti gli oggetti allungati: bastoni, tronchi, ombrelli
(per il modo di aprirli, che può essere paragonato all'erezione!) intendono
rappresentare il membro maschile, così come tutte le armi lunghe e acuminate
coltelli, pugnali, picche"[181].
A maggior ragione questa spada nata come segno d'amore.
Meno malizioso del mio il commento
di Conte:"A conclusione di una serie di azioni dal ritmo serrato, viene ora il
gesto di sguainare la spada appartenuta all'eroe troiano: il narratore
puntualizza che si tratta di un dono dei momenti felici dell'amore (e che la
notazione rivesta una qualche importanza ce lo dice già la cura formale del
passo, dove un iperbato si accavalla a un'anastrofe in uno spazio davvero
ristretto). Bene: noi sappiamo che in ogni racconto c'è una sorta di legge,
quella della motivazione compositiva, per cui nessun oggetto deve rimanere
inutilizzato e nessun episodio deve restare senza conseguenze: succede così che
questo oggetto, regalato un tempo come segno d'amore, diventa
ora-inevitabilmente-strumento di morte per chi lo ha ricevuto. E' il motivo dei
doni fatali a chi li riceve, sviluppato dalla tragedia greca e però già noto in
Omero: Aiace si uccide con la spada regalatagli da Ettore"[182].
Didone si uccide conservando
comunque il senso della propria grandezza poiché se non è possibile la felicità
nella vita, per i magnanimi è sempre possibile, in una forma o in un'altra, la
grandezza dell'eroismo:"Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,/et nunc
magna mei sub terras ibit imago " (vv. 653-654), ho vissuto e compiuto il
percorso che la Fortuna mi aveva assegnato, e ora grande l'ombra mia andrà sotto
terra. Magna ha valore predicativo.
La Fortuna
La fortuna corrisponde alla
Tuvch la cui presenza è molto
forte in gran parte della letteratura ellenistica, cominciando anzi da
Euripide con il quale si trasformano o tramontano gli dèi tradizionali,
mentre al loro posto si alza nel cielo la sorte ambigua, cangiante e
capricciosa: l'infausta tuvch è
subentrata ai fausti dèi. La regina protagonista dell' Ecuba la
considera una dei tiranni di un'umanità rimasta senza fedi né valori, una specie
di creature materialiste, sanguinarie, idolatre:"non c'è tra i mortali chi sia
libero:/infatti siamo schiavi delle ricchezze oppure della sorte"(vv. 864-865).
L'uomo cerca di vivere secondo ragione, ma i suoi tentativi vengono frustrati
dalla fortuna. La sua salvezza e la sua libertà stanno nel considerarla con
calma ironica.
Nello Ione , che prelude
più di ogni dramma di Euripide alla commedia di Menandro, il riconoscimento del
figlio da parte della madre avviene per casi fortuiti, per mezzo di questa
tyche oramai spogliata da connotazioni teologiche. La sorte dunque non è
costantemente maligna: Ione che è stato sul punto di uccidere la madre
le rivolge un'apostrofe:"O tu che cambi mille volte le sorti dei mortali:/ li
getti nella sventura, poi doni loro il successo/
Tuvch..."(vv.1512-1514).
La Fortuna è pure la divinità di Menandro:
nel Misantropo , Sostrato il giovane ricco che vuole sposare una ragazza
povera e dare in moglie a un povero sua sorella, risponde all' obiezione del
padre:"Non voglio prendermi insieme un genero e una nuora pezzenti"(v. 795), con
l'affermazione che tutto quanto appartiene a un uomo non è veramente suo ma
della Sorte che, come ha dato, può togliere.
Polibio
nelle sue Storie torna spesso a
parlare della Fortuna indicandola quale grande potenza che manovra le vicende
umane a proprio arbitrio: Emilio Paolo, dopo Pidna mostrava Perseo, il re
macedone sconfitto e umiliato, ed esortava i presenti a non esaltarsi troppo per
i successi a non decidere con arroganza o in modo inesorabile verso alcuno, e,
in generale, a non fidarsi mai del tutto della prosperità presente ("mhvte
kaqovlou pisteuvein mhdevpote tai'" parouvsai" eujtucivai"",
XXIX 20 1). L'ammonizione finale di Emilio Paolo è interessante e può
tornare utile a chi non vaneggia: La differenza tra gli imbecilli e i saggi
consiste nel fatto che i primi imparano a spese degli insuccessi propri, gli
altri a spese del prossimo ("tou'to ga;r
diafevrein e[fh tou;" ajnohvtou" tw'n nou'n ejcovntwn, diovti sumbaivnei tou;"
me;n ejn tai'" ijdivai" ajtucivai" paideuvesqai, tou;" d& ejn tai'" tw'n pevla"",
XXIX 20 4). Si può aggiungere che i veri imbecilli non imparano mai.
Polibio ricorda anche le
parole di Demetrio Falereo, scrittore, filosofo peripatetico e uomo
politico che governò Atene per Cassandro dal 317 al 307. Ebbene egli scrisse un
trattato Sulla Tyche , e dalla distruzione dell'impero persiano da parte
di Alessandro inferisce la crudeltà e la volubilità della Fortuna che tutto
continua a mutare contro ogni nostro calcolo ("panta
para; to;n logismo;n to;n hJmevteron kainopoiou'sa", XXIX 21, 5).
Nel libro XXIII lo storiografo di
Megalopoli, riflettendo sulla morte di Filopemene, scrive che egli cadde
battuto, più che dai Messeni, dalla Fortuna la quale può sostenere un essere
umano a lungo, però mai per tutta la vita. I fortunati allora sono coloro che,
raramente abbandonati dalla Fortuna, anche se quella una volta cambia parere,
subiscono disavventure di modesta entità ("ka[n
pote metanoh'/, metrivai" peripesovnta" sumforai'"", 12, 6).
Un altro esempio di mutevolezza
della Fortuna Polibio lo ricava dal fatto che al tempo della Terza guerra Punica
nel Peloponneso furono rimesse alla luce("eij"
to; fw'"") le statue dello stratego Licorta[183]
e riposte al buio ("kata; to; skovto"",
XXXVI, 13, 1) quelle del delatore Callicrate: quindi si capì che la funzione
della Tyche è quella di rovesciare le situazioni e sottomettere i legislatori
alle leggi che essi stessi hanno concepito. Qui invero la Fortuna non sembra
indifferente alla Giustizia. Un'ultima riflessione polibiana sulla Fortuna si
trova nella conclusione delle Storie dove l'autore si augura di non
cambiare condizioni né disposizione d'animo, dato che vede la
Tuvch pronta a invidiare gli uomini
e spiegare tutta la sua forza soprattutto nei casi in cui uno crede di avere
conseguito il massimo della felicità e del successo nella vita . In quest'ultima
riflessione la Fortuna sembra simile alla divinità erodotea la quale, invidiosa
e perturbatrice (I, 32), non permette a Policrate di Samo, o a Creso di Lidia,
o a Serse di Persia, di rimanere a lungo sui vertici della ricchezza e del
potere.
Un riconoscimento dell'onnipotenza della Fortuna si trova nella
Vita di Demetrio
(35) di Plutarco il quale, a proposito delle alterne vicende del grande
avventuriero, fa questo commento :"Sembra che non ci sia stato altro re cui la
Fortuna abbia imposto rivolgimenti così grandi e improvvisi come a Demetrio; e
che ella stessa, la Sorte, non sia stata, nelle vicende degli altri sovrani,
tante volte piccola e poi grande, né divenne tanto umile da splendida che era, e
poi ancora, da misera potente. Dicono che Demetrio nei più gravi sconvolgimenti
apostrofava la Fortuna con le parole di Eschilo[184]:
"Tu che mi hai fatto, ora sembri schiacciarmi".
La riflessione sulla mutevolezza della sorte non è soltanto ellenistica o
post-euripidèa: si pensi al discorso di Solone a Creso in Erodoto quando
il saggio ateniese dice al pacchiano re barbaro che l'uomo è del tutto in balia
del caso (pa'n ejsti a[nqrwpo"
sumforhv, I 32); oppure, risalendo
ancora molto più indietro, si ricordi Archiloco il quale rivolge
un'ammonizione "fatalistica" a se stesso in questi termini: animo (qumevv),
animo sconvolto da affanni senza rimedio/sorgi e difenditi dai malevoli,
contrapponendo/il petto di fronte, piantandoti vicino agli agguati dei
nemici/con sicurezza: e quando vinci non gloriartene davanti a tutti,/e, vinto,
non gemere buttandoti a terra in casa./Ma nelle gioie gioisci e nei dolori
affliggiti/non troppo: riconosci quale ritmo governa gli uomini ("mh;
livhn / givgnwske d& oi'Jo" rJusmo;" ajnqrwvpou" e[cei", fr. 67aD. ) .
Passiamo alla letteratura latina: Seneca ripropone questa gnome
radicalizzandola nella consolazione indirizzata alla madre Elvia dall'esilio in
Corsica[185]:"nec
secunda sapientem evĕhunt, nec adversa demittunt" (Ad Helv. , 5, 1),
i successi non esaltano il saggio e le avversità non lo abbattono. Infatti tutto
ciò che viene dall'esterno e non dipende da noi è di poca importanza:"leve
momentum in adventiciis rebus est ". Bisogna stare sempre all'erta contro
gli attacchi della fortuna:"Illis gravis est, quibus repentina est: facile
eam sustĭnet qui semper expectavit " (5, 3), è terribile per quelli sui
quali giunge imprevista: le resiste facilmente chi ne aspetta sempre l'attacco.
Tacito
invece
nelle Historiae ( I, 18), lo
abbiamo visto, afferma che quanto spetta al destino non si evita nemmeno se
veniamo preavvisati, mentre negli Annales Lo stesso storiografo del
resto dichiara di non sapere se le vicende umane si svolgano regolate dal fato e
da una necessità immutabile oppure vadano a caso:" mihi...in incerto
iudicium est fatone res mortalium et necessitate immutabili an forte volvantur
" (VI, 22) .
Concludiamo con Il Principe :
Nel penultimo capitolo Machiavelli
volendo stabilire "Quanto possa la Fortuna nelle cose umane e in che modo
se li abbia a resistere" attribuisce tanta importanza alla fortuna quanta alla
capacità dell'uomo: " iudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della
metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra metà, o
presso, a noi"[186].
Pertanto non bisogna "iudicare" che non si debba "insudare molto nelle cose ma
lasciarsi governare dalla sorte". Infatti la fortuna"dimostra la sua potenzia
dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa
che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla".
Didone riconosce a se stessa delle
capacità realizzative che l'avrebbero anche resa felice se non avesse incontrato
Enea :"Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi,/ulta virum poenas inimico a
fratre recepi:/heu nimium felix, si litora tantum/numquam Dardaniae
tetigissent carinae " (vv. 655-658), ho fondato una città splendida, ho
visto mura mie, vendicato il marito ho punito il fratello nemico: oh troppo
felice, se solo le le navi della Dardania non avessero mai toccato le nostre
coste! "I tre perfetti statui, vidi, recepi scandiscono orgogliosamente
le sue res gestae…Ulta è participio congiunto con valore temporale,
inimico a fratre anastrofe. L'esclamazione successiva felix, heu nimium
felix è, in termini sintattici, l'apodosi ellittica del seguente periodo
ipotetico dell'irrealtà"[187]
Il rimpianto della non conoscenza
del seduttore che ha sconvolto la vita, il desiderio di annullare la tragica
storia d'amore appartiene già alla Medea di Euripide (v. 1 e ss.), a
quella di Apollonio Rodio ( Le Argonautiche , IV, 32-33), a quella di
Ennio (246-9 Vahlen 2) e, con influenza chiaramente visibile, all'Arianna dell'opus
maximum di Catullo"utinam ne tempore primo/Gnosia Cecropiae tetigissent
litora puppes " (64, 171-172), oh se mai fin dal primo momento le navi
cecropie non avessero toccato le rive di Cnosso!
La versione virgiliana appare più
semplice e più ricca di pathos.
"Un modo sottile di richiamare le
proprie radici culturali è nella poesia di Virgilio quella che Pasquali ha
chiamata "arte allusiva". Il poeta, riecheggiando un passo o un verso o parte di
un verso di un poeta greco o latino, presuppone che il lettore riconosca il
passo riecheggiato e talvolta confronti l'originale colla rielaborazione di
Virgilio, che talvolta innova e affina l'originale: infatti il poeta dell'età
augustea non "imita", ma "emula" i poeti da cui si ispira, gareggia con essi"[188].
Infine Didone vuole mandare a Enea
un messaggio letale e un annunzio di futuri danni:"Hauriat hunc oculis ignem
crudelis ab alto/dardanus et nostrae secum ferat omina mortis " (661-662),
beva con gli occhi questo fuoco il crudele troiano dal largo, e porti con sé i
presagi della mia morte. Conte fa notare l'iperbato in enjabement di
crudelis…Dardanus.
Quindi l'atto del suicidio:"Dixerat,
atque illam media inter talia ferro/conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore/spumantem
sparsasque manus. It clamor ad alta/atria; concussam bacchatur Fama per urbem"
(vv. 663-666), aveva detto e in mezzo a tali parole le compagne la vedono caduta
sul ferro e la spada spumeggiante di sangue e le mani cosparse. Sale il grido
fino agli alti atri; la Fama va infuriando per la città sconvolta.
Vedremo che questo suicidio "per
ferro" sarà imitato da Ovidio nei Remedia amoris (v. 19) quando il poeta
di Sulmona vuole insegnare una via di uscita non all'amore comunque ma a quello
per persone indegne, ossia portatrici di morte invece che di vita e di gioia.-spumantem:
prefigura la schiuma di sangue che, secondo la profezia della Sibilla del sesto
canto, arrosserà il Tevere:" Bella, horrida bella/et Thybrim multo spumantem
sanguine cerno" ( vv. 86-87), guerre, guerre raccapriccianti e il Tevere
spumeggiante di molto sangue io vedo.-bacchatur: al v.301 era la donna
abbandonata che baccheggiava infiammata per la città messa in moto dalla Fama
spietata, ora è la stessa Fama che, presa la fiaccola da Didone, smania
attraverso Cartagine sconvolta.
La morte della regina prefigura la
distruzione della sua città:"Lamentis gemituque et femineo ululatu/tecta
fremunt, resonat magnis plangoribus aether,/non aliter quam si immissis ruat
hostibus omnis/Karthago aut antiqua Tyros flammaeque furentes/culmina perque
hominum volvantur perque deorum " (vv. 667-671), gli edifici fremono di
lamenti e di gemiti e di ululati femminei, l'etere risuona di grandi pianti, non
altrimenti che se Cartagine tutta o l'antica Tiro crollasse, entrati i nemici, e
le fiamme furiose si avvolgessero sui tetti degli uomini e degli dèi.
Didone che muore furente
preannunzia la fine del suo Stato per una sorta di responsabilità collettiva del
capo e per l'assimilazione possibile della donna non solo alla terra, come
abbiamo visto, ma anche alla città. Così una città può far pensare a una donna.
Lo afferma Tolstoj a
proposito di Mosca:"Ogni russo, guardando Mosca, prova la sensazione di trovarsi
al cospetto di una madre, ogni straniero, guardandola e ignorandone il carattere
materno, deve però almeno sentirne la femminilità: questo accadde anche a
Napoleone..."Una ville occupèe par l'ennemi ressemble à una fille qui a perdu
son honneur " pensava"[189].
In effetti anche la sorella Anna
identifica la morte di Didone con la fine della città con il popolo e i
maggiorenti:"Extinxti te meque, soror, populumque patresque/Sidonios urbemque
tuam " (vv. 682-683), hai annientato te e me, sorella, e il popolo e i
patrizi sidoni e la tua città.-Extinxti: forma sincopata per
extinxisti. "Populumque patresque: il Danielino afferma che qui si
accenna alle parti in cui era ordinata la cittadinanza cartaginese (oltre alla
regia potestas, populus e optimates), ma certo il nesso suggerisce al lettore di
Virgilio anche il familiare S. P. Q. R., e dunque si tratta, come altrove, di un
riferimento alla realtà romana"[190].
Si può quindi pensare alla costituzione mista.
Didone muore senza dire altre
parole; invece è la ferita che stride profonda nel petto:"infixum stridit sub
pectore volnus " (v. 689). Le ferite spesso parlano: non sempre sono "
dumb mouths "[191]
, bocche mute, come quelle di Cesare assassinato. "Una ferita è anche una bocca.
Una qualche parte di noi sta cercando di dire qualcosa. Se potessimo ascoltarla!
Supponiamo che queste "intensità sconvolgenti siano una sorta di messaggio: sono
"cicatrici", ferite, che segnano la nostra vita"[192].
Gli occhi erranti cercano,
finalmente, la luce e la donna manda un ultimo gemito quando l'ebbe trovata.
L'episodio si conclude con parole, se non di speranza come il secondo coro
dell'Adelchi , certo di pietà per la donna che " nec fato merita nec
morte peribat/misera ante diem, subito accensa furore "(v. 697),
moriva né per il destino suo né per morte meritata, infelice, prima del tempo,
accesa da un subitaneo furore.
Ancora fuoco e follia.
"Nonostante la presenza corale del
popolo, nonostante l'affetto e l'assistenza affettuosa della sorella, Didone è
sola nella sua infelicità. La profondità della sua ferita non può essere
compresa né da Enea né dagli altri; e l'aggravarsi del dramma dall'innamoramento
alla rottura, al maturare del disegno del suicidio, al suicidio stesso, è nello
stesso tempo un accentuarsi della solitudine, l'ampliarsi di un allucinante
deserto. In questo modo di interpretare e cantare l'amore Virgilio restava
fedele a un filo costante della sua sensibilità: già nella seconda ecloga, già
nelle Georgiche l'amore, questo furore cosmico irrazionale, è infelicità
e solitudine: ciò resta vero e importante, anche se nell'Eneide può
avere avuto il suo peso la considerazione che rappresentare l'amore come piacere
e gioia era indegno della dignità epica e tragica"[193].
All'inizio del canto successivo (V), Enea voltandosi a
guardare Cartagine dalla sua flotta che prende il largo[194]
vede brillare le mura, ed egli con gli altri fuggiaschi, intuiscono, pur senza
saperlo, che quei bagliori sinistri provengono dal rogo di Didone:" Quae
tantum accenderit ignem causa latet ; duri magno sed amore dolores
polluto notumque, furens quid femina possit ,/triste per augurium
Teucrorum pectora ducunt " ( vv. 5- 7),
è oscuro il motivo che ha acceso un fuoco così
grande; ma inducono il cuore dei Teucri a un funesto presagio i tremendi dolori
di un grande amore violato e il fatto che è noto di che cosa sia capace una
donna sconvolta dalla passione. La fiamma dell'amore è diventata il fuoco del
rogo.
Vediamo qualche altro caso, in
letteratura, dove all'amore sono connessi, il fuoco tragico e distruttivo , la
follia e la rovina.
L'amore che infiamma il Nerone di
Tacito per Poppea (flagrantior in dies amore Poppeae , Annales
, XIV, 1) sarà una delle cause che scateneranno il giovane imperatore
spingendolo fino al matricidio. Agrippina a sua volta brucia, ma il suo ardor
è smania di conservare il potere che è il fine (come per Alcibiade) mentre
l'incesto è solo un mezzo:" Tradit Cluvius ardore retinendae Agrippinam
potentiae eo usque provectam ut medio diei, cum id temporis Nero per vinum et
epulas incalesceret, offerret se saepius temulento comptam et incesto paratam
" (Annales XIV, 2) Cluvio[195]
racconta che Agrippina per smania di conservare il potere era arrivata al punto
che in pieno giorno quando Nerone si scaldava col vino e il banchetto, si
offriva a lui ubriaco diverse volte ornata in modo seduttivo e pronta
all'incesto.
Anche Anna Karenina , la quale è un'adultera che inganna e tradisce un
marito vivo, è collegata al fuoco nelle varie fasi del suo amore:"Il suo viso
splendeva d'un vivido fulgore, ma questo fulgore non era allegro: ricordava il
fulgore terribile di un incendio in mezzo a una notte oscura; vedendo il marito,
sollevò la testa e, come svegliandosi, sorrise"[196].
Questa è la fase ascendente della sua relazione con Vronskij. Alla fine,
nell'epilogo tragico la fiamma diventa quella di un cero funebre:"E la candela
alla cui luce aveva letto un libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di
male, avvampò di una luce più vivida che mai, le illuminò tutto quello che prima
era nell'oscurità, crepitò, cominciò a offuscarsi e si spense per sempre" (p.
772).
Il fuoco amoroso di Orazio invece si spegne amabilmente, nel canto di
Fillide, l'ultima fiamma, che manda un calore già lontano :"Age iam,
meorum/finis amorum./(Non enim posthac alia calebo/femina),condisce modos,
amanda/voce quos reddas; minuentur atrae/carmine curae " (Odi , IV,
11), su, estremo dei miei amori, (infatti non brucerò più per altra donna),
impara bene i ritmi da ripetere con voce amabile; si schiariranno con i versi i
foschi affanni.
Torniamo al tema della ferita.
E' notevole che nel V canto volnus è conseguenza di una gara cruenta di
pugilato:"duro crepitant sub volnere malae " (v. 436), crepitano le
mascelle sotto i colpi cruenti. Si possono accostare i due diversi tipi di
ferita pensando al fr. 27D. di Anacreonte (-pro;"
[Erwta puktalivzw", voglio fare a pugni con Eros.
Passiamo al VI canto. La regina
si trova tra coloro "quos durus amor crudeli tabe peredit " (442) che un
amore spietato divorò con consunzione crudele. Neanche la morte basta a
dissolvere la sofferenza d'amore degli umani:"curae non ipsa in morte
relinquont " (v. 444), gli affanni neppure nella morte li lasciano. e
vediamo che il volnus di Didone non si cicatrizza nemmeno dopo il
suicidio :"recens a volnere Dido-errabat silva in magna " (VI, 450-451,
Didone errava nella gran selva, con la ferita fresca. L'accoppiata recens
vulnus è utilizzata da Seneca nella Consolazione indirizzata Ad Helviam
Matrem (del 42 d. C.) dall'esilio in Corsica:"Gravissimum est ex omnibus
quae umquam in corpus tuum descenderunt recens vulnus, fateor " (III, 1), la
più grave tra tutte quelle che sono mai penetrate nel tuo corpo, lo ammetto, è
la ferita recente. Enea vede l'ex amante suicida come immagine sfocata:"Quam
Troïus heros/ut primum iuxta stetit adgnovitque per umbras/obscuram, qualem
primo qui surgere mense/aut videt aut vidisse putat per nubila lunam,/demisit
lacrimas dulcique adfatus amorest " (vv. 451-455), appena l'eroe troiano si
trovò accanto a lei e la riconobbe in mezzo alle ombre, oscura, come chi
all'inizio del mese vede sorgere o crede di avere visto la luna fra le nuvole,
fece cadere le lacrime e le parlò con dolce amore. L'immagine ha il suo modello
nel poema di Apollonio Rodio quando Linceo che aveva grande acume visivo,
credette di vedere Eracle in lontananza, come uno che ha visto o ha creduto di
vedere la luna offuscata nel primo giorno del mese (Le Argonautiche , IV,
1478-1480). Eracle è l'eroe tradizionale del poema, contrapposto a Giasone:
ebbene questa immagine "che verrà splendidamente reimpiegata da
Virgilio…suggella definitivamente l'irrecuperabilità di Eracle all'universo
argonautico"[197].
Enea cerca di scusarsi dicendo che
lui non voleva (invitus ) ma sono stati gli ordini degli dèi (iussa
deum ), gli stessi che lo costringono (cogunt ) ad attraversare le
ombre, a spingerlo con la loro autorità suprema (imperiis egere suis );
egli del resto non avrebbe potuto credere di arrecarle tanto dolore con la
partenza. L'eroe fa un discorso imbarazzato (456-466) con il quale tenta di
mitigare la donna ancora ardente e cerca di spengere quel fuoco con le proprie
lacrime:"Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem/lenibat dictis animum
lacrimasque ciebat ", vv. 467-468), con tali parole Enea cercava di placare
l'animo infiammato che biecamente guardava e faceva cadere le lacrime.
"L'humanitas di Enea ha
nel IV libro dei forti limiti che solo nell'incontro con Didone
nell'oltretomba...saranno superati: solo allora Enea comprenderà fino in fondo
ciò che l'amore significava per la donna; ma ciò avverrà in una situazione in
cui l'humanitas sarà tanto profonda quanto inutile, giacché il tentativo
di mutare un destino ormai compiuto per l'eternità non sarà allora neppure
pensabile...l'estraneità fra i due perdura anche in questo episodio, salvo che
le parti sono come invertite: questa volta è Enea che prega e piange, come nel
IV libro era stata Didone. E come egli allora non si era arreso a Didone, così
ora Didone è irremovibile, quasi per una specie di contrappasso"[198].
La donna "che s'ancise amorosa"[199]
non perdona l'amante che l'ha abbandonata; anzi manifesta il suo sdegno col non
rispondergli e non rivolgergli lo sguardo: "Illa solo fixos oculos aversa
tenebat ", v. 469, quella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall'altra
parte. Eliot nel silenzio di Didone riconosce "il più espressivo
rimprovero di tutta la storia della poesia" e "non soltanto uno dei brani più
commoventi , ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in poesia"[200].
Possiamo accostare a questo rancore muto quello del suicida Aiace nei confronti
di Ulisse nell'XI canto dell'Odissea (vv. 542-564).
In effetti non si può manifestare
un'ostilità più radicale e nello stesso tempo più educata che opponendo il
silenzio ai vani tentativi giustificatòri di quanti ci hanno inflitto i danni
più gravi.
L'interpretazione pur troppo
diffusa dell'amore inteso come rovina massima, piaga e fuoco interni deleteri
più di ogni altra ferita e fiamma esterna, viene utilizzata dagli scrittori
cristiani e si trova concentrata in un episodio della vita di San Benedetto, una
delle Vite dei Santi Padri del domenicano di Pisa Domenico Cavalca
(circa 1270-1342). Il pio autore sostiene che all'incendio erotico e al trauma
mentale dell'amore sono da preferire le ustioni e le "punture del corpo" e che
anzi è consigliabile infliggersi da solo queste per spengere quelle. L' episodio
che riferisco qui di seguito potrebbe inserirsi anche nei Rimedi contro l'amore
che tratteremo più avanti ma lo pongo dopo Didone per mostrare quale danno
perpetuo e quante altre vittime abbia fatto la grande calunnia nei confronti
della gioia più profonda e sublime che gli dèi abbiano concesso al genere
umano:"una volta avea Benedetto nel secolo[201]veduto
una bella femina; la quale lo nimico li ridusse alla memoria, e formòlli in tal
modo nella memoria e immaginazione la bellezza di questa femina, e di tanto
fuoco gli accese l'animo, che la fiamma dello amore appena gli capea nel suo
petto[202];
e quasi poco meno che vinto di disordinato amore, deliberava di lassare lo
eremo. E subitamente soccorso dalla grazia d'Iddio, tornando a se medesimo e
vergognandosi, vedendo quivi appresso uno grande spineto e orticheto,
spogliandosi ignudo, gittòssi fra quelle spine e ortiche e, quivi poi che fu
voltato un buono pezzo, tutto sanguinato e ferito n'uscì. E così per ferite del
corpo guarì della ferita della mente, perciò che la voluttà trasse in dolore[203];
e ardendo penosamente per le punture del corpo di fuori, spense il fuoco che
illicitamente ardea dentro. Vinse dunque lo peccato perché mutò incendio. E da
quel tempo innanzi fu in lui ogni tentazione di carne domata; ché, secondo che
elli dicea poi alli suoi discepoli, niun tale disordinamento poi sentì"[204].
L'amore nelle
Bucoliche e nelle Georgiche . Teocrito e il sentimento della natura.
Nell opere precedenti all'Eneide
Virgilio fa bruciare, soffrire e lottare per amore non solo gli uomini e le
donne, ma anche gli animali che sono omologati agli umani nel patimento amoroso.
Fanno eccezione le api che hanno
il costume "meraviglioso" di non concedersi all'accoppiamento né di sciogliere
neghittose i corpi in Venere né di produrre la prole con le doglie:"neque
concubitu indulgent nec corpora segnis/in Venerem solvunt aut fetus nixibus
edunt " (Georgica IV , vv. 198-199). concubitu: è una forma di
dativo che si trova anche nella prosa classica.-segnis=segnes con
funzione predicativa.
Nella II Bucolica
il pastore Coridone arde d'amore per il bell'Alessi. (Formosum pastor
Corydon ardebat Alexin , 1) che non ha pietà di lui. Già nelle Ecloghe
Virgilio è il poeta dell'amore infelice e luttuoso, il cantore della passione
sulla quale si proietta un'ombra di morte:" O crudelis Alexi, nihil mea
carmina curas?/nil nostri miserere? Mori me denique coges" (vv. 6-7), o
crudele Alessi, non ti curi dei miei canti? non hai compassione di me? Infine mi
costringerai a morire , sospira l'innamorato ardente .
Coridone non ha tregua dall'ardore
amoroso nemmeno quando il bestiame e, con motivo teocriteo[205]
perfino i ramarri, riposano al fresco:"Nunc etiam pecudes umbras et frigora
captant / Nunc viridis etiam occultant spineta lacertos " (vv. 8-9), ora
anche il bestiame cercano di prendere le ombre e il fresco, ora i rovi spinosi
nascondono perfino i verdi ramarri.-viridis=virides. Il modello
siracusano viene da Virgilio caricato di pathos.
In Teocrito, sostiene Snell,
"traspare sempre la dissonanza fra l'elemento bucolico primitivo e quello
letterario raffinato, ed è proprio in questo contrasto che si cela il fascino
della sua poesia. Nel lamento per Dafni troviamo:"Lo piangevano gli alberi che
crescono presso il fiume Imera, mentre si scioglieva come neve dell'Emo o dell'Ato
o del Rodope o dell'estremo Caucaso" (VII, 74-77). Questa è letteratura poiché
parlare di Emo, di Ato, del Rodope o del Caucaso non è linguaggio di pastori-è
tono patetico di tragedia...Quando Teocrito fa enumerare queste montagne ai suoi
pastori, è press'a poco come quando Menandro mette in bocca, non a persone
colte, ma agli schiavi, citazioni della tragedia. Con cosciente ironia egli si
prende gioco dei pastori siciliani. Ma quando Virgilio leggeva queste e simili
espressioni in Teocrito, egli le prendeva nel senso che avevano originariamente,
cioè come espressioni di contenuto patetico, cariche di sentimento...Se
l'Arcadia di Virgilio è traboccante di sentimento, i suoi pastori sono lontani
tanto dalla vera vita rustica quanto da quella raffinata delle città. Nel loro
idillio campestre la pace delle sere festive prevale sul duro lavoro quotidiano,
si dà più rilievo all'ombra fresca che alle intemperie, e alla morbida sponda
del fiume che all'aspra montagna. I pastori indugiano a suonare il flauto e a
cantare, più che non si occupino di colare il siero o rimestare il formaggio.
Tutto ciò si delinea già in Teocrito, ma Teocrito ha ancora molto gusto per il
particolare preciso e realistico; Virgilio tende più al sentimentale, cerca ciò
che ha un valore interiore. In Arcadia non si fanno calcoli, non si ragiona in
termini precisi e definiti. Tutto vive nella luce del sentimento...Virgilio
legge in Teocrito che durante le ore meridiane le lucertole dormono nelle siepi
spinose. In Teocrito ciò è detto in tono di meraviglia perché qualcuno è per
istrada a quell'ora, "quando anche le lucertole fanno la siesta" (VII, 22); ma
in Virgilio un pastore infelice in amore canta:"Mentre gli animali cercano ombra
e frescura, e le lucertole si nascondono nelle siepi di spino, io devo sempre
cantare del mio amore" (II, 8)"[206].
Anche nella poesia bucolica, come
nella tragedia e nella commedia "i Greci confermano il talento di creare forme
esemplari"[207].
Secondo Max Pohlenz gli
idilli bucolici di Teocrito, come altra poesia ellenistica, sono ispirati da un
autentico amore della natura:"Non l'umore del momento o una moda han fatto di
lui un poeta bucolico, ma un impulso interiore, l'amore sincero per la natura.
Quando nel Tirsi
[208]
narra la morte del primo poeta pastore[209],
l'estremo saluto di questo è rivolto alla natura tutta, ai lupi e agli orsi non
meno che alle sue greggi, e per la morte di Dafni si lagnano gli usignoli,
piangono le fonti, s'attristano i fiori e gli animali"[210].
La natura per Teocrito "rappresenta ancora la sfera vitale cui egli, come una
parte del tutto, è indissolubilmente avvinto; essa entra a costituire il
contenuto della sua esistenza nella stessa misura della poesia dotta, della sua
arte. Diverso fu l'atteggiamento verso la natura di quanti effettivamente
vivevano nelle grandi città. Ad Alessandria il re Tolemeo, che soffriva di
podagra, invidiava i proletari seminudi e privi di bisogni; l'uomo di cultura
vedeva circonfusa d'una luce radiosa la semplice vita dei pescatori e dei
lavoratori manuali. Ci si entusiasmava per i lontani popoli viventi allo stato
di natura, per tutto ciò che era primitivo. Callimaco esaltò la tranquilla
felicità che regnava nella misera capanna di Ecale, e un suo personaggio,
Aconzio, cerca la solitudine della foresta per confidare agli alberi le sue pene
d'amore e incidere sulla corteccia il nome dell'amata…La fantasia si dipingeva
una vita semplice, priva di bisogni, naturalmente innocente: ma come un paradiso
che i moderni popoli civilizzati avevano irrimediabilmente perduto"[211].
Alla fine della II bucolica
virgiliana il tramonto raddoppia le ombre ma non pone fine all'ardore di
Coridone e alla passione che trascina ciascuno sconvolgendo ogni misura :"trahit
sua quemque voluptas...et sol crescentes decedens duplicat umbras ./me
tamen urit amor : quis enim modus adsit amori? " (v.65 e 67-68), Chi è
afferrato da Eros ignora la giusta misura siccome l'amore è follia:"A
Corydon, Corydon, quae te dementia cepit! ", v. 69. Il modus invece,
la misura è topicamente la quintessenza del rectum , il giusto in
Orazio:"est modus in rebus, sunt certi denique fines,/quos ultra citraque
nequit consistere rectum " (Satire , I, 1, vv. 106-107), c'è una
misura nelle cose, ci sono limiti definiti dopotutto al di là e al di qua dei
quali non può sussistere il giusto. Per Seneca il modus si identifica
sempre con la virtus : "cum sit ubique virtus modus " (De
Beneficiis , II, 16, 2). Dietro questa concezione "vi sono secoli di
filosofia ellenistica: la mesovth"
era stata peripatetica, la metriovth"
era stata definita e propugnata dall'accademico Crantore, poi dal neostoico
Panezio, il quale aveva avuto sulla morale della classe colta romana una grande
influenza"[212].
L'eccesso è la quintessenza di
ogni male nella cultura greca classica.
La
formulazione più chiara e sintetica è quella del Solone di Plutarco.
Quando Creso, il pacchiano re barbaro gli fece vedere i suoi cospicui
tesori e gli chiese se conoscesse qualcuno più felice di lui, nominò personaggi
non famosi e non ricchi, ma "belli e buoni". Allora Creso lo giudicò strambo (ajllovkoto")
e zotico (a[groiko"), tuttavia
volle domandargli se lo mettesse in qualche modo nel novero degli uomini
felici. Il legislatore ateniese quindi rispose: "Ai Greci, o re dei Lidi, il
dio ha dato di essere misurati (metrivw" e[cein
e[dwken oJ qeov"), e per questa misuratezza ci tocca una saggezza non
arrogante ma popolare, non regale né splendida "[213].
Erodoto e Sofocle, in quanto seguaci della religione delfica condannano spesso
la dismisura. Diamo la formula del Secondo Stasimo dell'Antigone:"
Sia nel tempo prossimo sia nel futuro/come nel passato avrà vigore/ questa
legge: nulla di smisurato/ si insinua nella vita dei mortali senza rovina" (vv.
611-614).-
Anche il "sacrilego" Euripide
considera questo valore:"ajcalivnwn
stomavtwn-ajnovmou t& ajfrosuvna"-to; tevlo" dustuciva, cantano le
Baccanti nel Primo Stasimo (vv. 387-389), di bocche senza freno, di
sfrenata stoltezza, il termine è sventura.
Più avanti
il coro canta che Dioniso odia chi non si
prende cura di tenere il cuore e la mente lontani dagli uomini straordinari[214]:'"ajpevcein
prapivda frevna te;;;;;;-perissw'n para; fwtw'n"(vv.427-428).
La virtù che consiste nell'evitare
la dismisura si presenta in vari saggi della letteratura antica: ricordo il
Catone Uticense della Pharsalia celebrato da Lucano come uomo
ricco di virtù in testa alle quali c'è quella serbare la giusta misura ("servare
modum ", II, 381).
Secondo questa concezione,
l'amore, in quanto dismisura, è vizio che può addirittura arrivare all'abominio
di una Pasife, cui Sileno nella VI bucolica rivolge un' apostrofe, carica di
pathos simile a quella diretta a Coridone:"A, virgo infelix, quae te dementia
cepit? " (v. 47).
"Teocrito rappresenta con vivacità
il suo mondo pastorale ed è affezionato ai suoi umili personaggi, ma per lo più
si sente che guarda ad essi con distacco e anche con ironia, mettendoli
lievemente e benevolmente in caricatura. Dell'ironia, della comicità teocritea
quasi niente resta in Virgilio. Un esempio molto chiaramente indicativo è nella
seconda ecloga. Nel monologo di Coridone che, nella solitudine dei boschi,
lamenta il suo amore infelice per Alessi, Virgilio trae spunto dall'idillio 11
di Teocrito, dove il Ciclope Polifemo chiede invano l'amore della ninfa Galatea.
Il Ciclope, brutto, rozzo, goffo, è un innamorato ridicolo; Coridone, benché sia
un uomo di campagna, non ha nulla di caricaturale: è solo un amante infelice, di
animo candido"[215].
La III ecloga è una gara
poetica tra due pastori (Menalca e Dameta) che dicono versi alternati , a botta
e risposta, in forma di carme amebeo, mentre un terzo pastore (Palemone) fa da
arbitro. Il premio è una vitella. Il certame finisce in parità. Per quanto
riguarda il nostro argomento, mentre la natura vegetale è in rigoglio e la
stagione è splendidissima (nunc frondent silvae, nunc formosissimus annus
, v. 57), il toro che dovrebbe rappresentare il colmo del vigore sessuale nel
mondo animale giace emaciato sull'erba grassa e fa esclamare a Dameta:"idem
amor exitium pecori pecorisque magistro " (v. 101), amore è ugualmente una
rovina per il gregge e per il custode del gregge !.
Poco dopo Palemone menziona amori
dolci accanto agli amari, ma anche i primi vengono neutralizzati dalla paura:"quisquis
amores/aut metuet dulcis, aut experietur amaros ", vv. 109-110, chiunque
temerà i dolci amori o proverà quelli amari.-dulcis=dulces. In effetti,
se torniamo per un momento alla storia precedente vediamo che alla dolcezza
dell'amore Enea si lascia andare senza paura, e non senza lacrime, solo quando
incontra l'amante morta:"demisit lacrimas dulcique adfatus amorest ",
Eneide , VI, 455, lasciò cadere le lacrime e le parlò con dolce amore.
L' ecloga VIII, dedicata ad
Asinio Pollione[216],
è il carme della gelosia che fa soffrire Damone e brucia Amarillide lasciata dal
malvagio Dafni: "Dapnhis me malus urit " (v. 83). Nel racconto di
Alfesibeo la ragazza cerca di ricondurre a sé con incantesimi l'amato che l'ha
lasciata, al pari dell'abbandonata del secondo idillio di Teocrito,
l'incantatrice Simeta la quale ugualmente brucia ("pa'sa
kataivqomai" ardo tutta, si duole al v. 35) per Delfi, il traditore che
si è scordato di lei.
La storia di Simeta abbandonata
dal bell'atleta Delfi contiene i tovpoi
dell'amore come fioco, ferita, malattia, follia. La ragazza racconta che come lo
vide impazzì e il suo cuore fu lacerato (II, 81-82). Quindi un morbo ardente la
devastava (v. 85) e giaceva nel letto gialla, emaciata, perdendo i capelli.
Li usa lo stesso seduttore che
finge di essere invaso da passione amorosa:"Amore accende una fiamma più
temibile di Efesto…e con cattive follie (kakai'"
manivai" ) allontana la vergine dal talamo e la sposa che abbandona il
letto ancora caldo del marito (II, 133 sgg.). L'impiego del locus ha successo
poiché corrisponde allo stato d'animo di Simeta che racconta:"
ejpravcqh ta; mevgista" (v. 143), si
fece il massimo e giungemmo entrambi al piacere. Qui interviene l'ironia di
Teocrito a farci sorridere.
Nel terzo idillio dove un capraio
spasima per Amarillide Eros viene definito "un dio tormentoso" (baru;"
qeov" , III, 15) che certamente ha succhiato la mammella di una
leonessa.
La potenza di Amore è ineluttabile
e le pene inflitte da lui sono incurabili: nella X ecloga Cornelio Gallo
cerca di sfuggire alla sofferenza amorosa, che Licoride gli infligge , col
proposito di percorrere le montagne dell'Arcadia a caccia di aspri cinghiali
mescolato alle Ninfe :"Interea mixtis lustrabo Maenala Nymphis,/aut acris
venabor apros "(vv. 55-56).-acris=acres.
Andare a caccia è un rimedio
d'amore che anche Ovidio suggerirà, , tra altri che vedremo nel prossimo
capitolo, sulla linea di Teofrasto il quale considerava la passione amorosa "pavqo"
yuch'" scolazouvzh""[217],
un'affezione dell'animo disoccupato:" tam Venus otia amat; qui finem quaeris
amoris,/cedit amor rebus; res age: tutus eris "[218],
così Venere ama il tempo libero; tu che cerchi la fine di un amore, datti a
delle attività e sarai sicuro: l'amore si ritira davanti alle attività. Tra
quelle raccomandate c'è appunto lo studium venandi:"Vel tu venandi
studium cole; saepe recessit/turpiter a Phoebi victa sorore Venus "[219],
oppure tu coltiva la passione per la caccia; spesso si è ritirata con vergogna
Venere vinta dalla sorella di Febo.
Ma l'infelice poeta elegiaco che
cerca di diventare Dafni e resistere all'amore, non ha successo. "La
dafnizzazione di Gallo è il dono di Virgilio all'amico"[220],
commenta G. B. Conte dopo avere ricordato il primo idillio di Teocrito (il
Tirsi) dove Dafni si ricusa ad Eros come al giogo che lo priverebbe della
sua libera natura :"Dafni anche nella casa di Ades sarà una dura sofferenza per
Eros " (kakovn ... a[ lgo" [ Erwti
v. 103). Dafni vuole ribaltare il solito rapporto tra l'uomo e l'amore, e invece
di subire sofferenze da Eros intende infliggergliene. Tuttavia non ci riesce
perché il bovaro alla fine del suo canto annuncia la sua morte ad opera di Eros
che lo trascina nell'Ade.
Gallo della X ecloga virgiliana
dunque dovrebbe liberarsi dalla sofferenza amorosa andando tra le belve:"Sede di
Eros e del sofferente elegiaco era stata la città; sede nuova non potrà che
essere una sede lontana da Eros, a lui estranea, nelle selve, fra le tane delle
fiere"[221].
Invano: le fatiche non possono mutare Amore, neppure se diventassero tormentose
in quanto affrontate in climi estremi:"omnia vincit Amor, et nos cedamus
amori " (ecloga X, v. 69), tutto vince Amore e noi all'Amore cediamo.
Bruno Snell confronta
alcuni versi dell X ecloga con simili esametri del VII idillio del poeta
siracusano per notarne le differenze:" In Teocrito (VII, 111sgg.), in una
scherzosa preghiera a Pan, troviamo:"Se non esaudirai la mia preghiera, possa tu
pascolare il gregge d'inverno nella fredda Tracia presso l'Ebro, e l'estate poi
presso gli Etiopi nell'estremo Sud". In Virgilio, Gallo si lamenta (X, 65
sgg.):"Contro il mio amore infelice nulla mi giova, né se in pieno inverno bevo
acqua dell'Ebro ed erro sotto la neve della Tracia, né se le pecore degli Etiopi
pascolo, sotto il segno del Cancro" (cioè nella più calda estate). Virgilio
trasforma i motivi teocritei in modo che quasi il lettore non se n'accorge, e
solo tardi si è compresa l'importanza del passo ch'egli ha compiuto nelle sue
Egloghe oltre l'arte giocosa del poeta ellenistico. Virgilio, mentre legge
Teocrito, il poeta greco ammirato e apprezzato, e ne ritrae le immagini che vede
già, senza volerlo, con gli occhi di nascente classicismo, si riavvicina sempre
più alla serietà e al pathos della poesia greca classica...Il ritorno di
Virgilio all'arte classica, nelle Egloghe , si rivela innanzitutto in
questo, che le sue poesie non sono, come quelle di Teocrito, brevi scenette di
vita, ma opere d'arte ordinate ed elaborate. "[222].
Passiamo alle Georgiche.
Nella terza Georgica
che tratta l'allevamento la conflagrazione amorosa riguarda, oltre
gli umani, anche gli animali:"Carpit enim vires paulatim uritque videndo/
femina, nec nemorum patitur meminisse nec herbae/ dulcibus illa quidem
inlecebris et saepe superbos/cornibus inter se subigit decernere amantis, "
(v. 215-218) logora infatti le forze a poco a poco e li brucia guardandoli la
femmina, e non lascia che si ricordino dei boschi né dell'erba, ma quella certo
li attira con dolci seduzioni e spesso costringe i fieri pretendenti a
combattere con le corna.-femina : che la femmina, tanto quella umana
tanto questa bestiale metta in secondo piano tutti gli altri interessi del
maschio è scritto nella stessa etimologia del nome : si pensi che esso "deriva
dall'indoeuropeo *dha-/dhe- che ha dato come esito in greco
qh-, in latino fe -"[223]
da cui derivano qhlhv, mammella,
qhvleia, femmina appunto,
qh'lu" femminile, femina ,
felix e felicitas . In altre parole: sine femina non est vita;
si est tamen, non est vita beata .- amantis=amantes.-cornibus…decernere
: in questi versi l'istinto amoroso si associa non solo al fuoco ma anche a Eris.
Tale istinto è uguale per tutte le creature
viventi: "Omne adeo genus in terris hominumque ferarumque/et genus aequoreum,
pecudes pictaeque volucres/ in furias ignemque ruunt: amor omnibus idem "(vv.
243-244) così ogni specie sulle terre di uomini e di animali, e la razza marina,
il bestiame e gli uccelli colorati si precipitano in ardori furiosi, amore è lo
stesso per tutti. Esso accresce la ferocia delle belve:"Tempore non alio
catulorum oblita leaena/saevior erravit campis nec funera volgo/tam multa
informes ursi stragemque dedere/per silvas; tum saevos aper, tum pessima tigris;/heu,
male tum Libyae solis erratur in agris " (vv. 245-249), in nessun altro
tempo dimentica dei cuccioli la leonessa ha errato più furiosa per le pianure,
né tanti lutti e strage sparsero gli orsi orribili per le selve; allora il
cinghiale è furioso, allora la tigre è più feroce che mai; ahi allora si vaga
con rischio nei campi deserti della Libia.-leaena: si ricordi la
levaina
Medea
(v. 1342) che avrebbe fatto meglio a dimenticarsi dei figli e la
divpou" levaina (Agamennone
, 1258),
la bipede leonessa Clitennestra che
invece ha fatto a pezzi il marito.-saevos=saevus.
L'amore insomma è uguale, o molto
simile, per tutti. Già Euripide nel IV Stasimo dell'Ippolito canta
la potenza universale di Eros che ammalia (qevlgei)
la natura dei cuccioli montani e dei marini e quante creature nutre la terra e
quelli che il sole guarda bruciando, e gli uomini. La mandante è Cipride che su
tutti questi impone da sola la sua regale maestà (vv. 1274 sgg.).
Orazio nell'Ode
III 13, promettendo alla fons Bandusiae il sacrificio di un capretto,
mette in rilievo l'aspetto pugnace dell'amore quando nota che la fronte turgida
per le corna nascenti prepara alla bestiola amore e battaglie:"cras donaberis
haedo,/cui frons turgida cornibus/primis et venerem et proelia destinat "
(vv. 3-5).
Nella letteratura italiana
Boccaccio in un brano di chiara derivazione virgiliana fa descrivere
l'invasamento erotico e bellicoso degli animali dalla dea Venere che vuole
convincere Fiammetta ad assecondare la sua passione amorosa e adulterina:"ne'
boschi li timidi cervi, fatti tra sé feroci quando costui[224]
li tocca, per le disiderate cervie combattono, e, mugghiando, delli costui caldi
mostrano segnali; e i pessimi cinghiari[225],
divenendo per ardore spumosi, aguzzano gli eburnei denti; e i leoni africani, da
amore tocchi, vibrano i colli"[226].
Ero e Leandro con altri casi di
folle ardore amoroso.
Torniamo alla III Georgica
dove Virgilio, volendo significare che la mania amorosa riguarda tutti i
viventi, fa l'esempio del giovane Leandro che, incendiato dalla fiamma d'amore,
subisce la morte per acqua quando vuole incontrare la sua puella. Non
bastano a fermare il ragazzo "magnum cui versat in ossibus ignem/durus amor
"(vv. 259-260) cui un amore spietato scatena un grande fuoco nelle ossa, né
l'Ellesponto in tempesta né le invocazioni dei genitori "nec moritura super
crudeli funere virgo "(v. 263), né la ragazza pronta a morire sopra di lui
con morte crudele .
La storia d'amore e morte di
Ero e Leandro è stata raccontata da Ovidio in due delle Heroides
. La prima (XVIII) è quella del ragazzo che identifica la luce della fiaccola,
agitata a Sesto dalla fanciulla, con la ragazza stessa e con l'amore che,
riscaldandogli il petto, gli fornisce la forza per superare a nuoto il gelido
abisso:"Ut procul adspexi lumen" meus ignis in illo est;/illa meum"dixi"
litora lumen habent " (vv. 87-88), come da lontano vidi la luce, dissi:" il
mio fuoco è in quella; quelle spiagge hanno la mia luce.
Nella risposta (XIX) Ero afferma
che anche se le loro forze sono impari, loro due bruciano di ugual fuoco:"Urimur
igne pari, sed sum tibi viribus impar " (v. 5). Tuttavia il fuoco che brucia
le donne è più pervasivo e consuma completamente la loro anima: gli uomini
possono distrarsi ora con la caccia (modo venando ), ora coltivando la
terra feconda (modo rus geniale colendo , v. 9), o con gli impegni del
foro o della palestra, o domando cavalli, o con l'uccellagione, o con la pesca.
Ma ella, anche se ardesse d'amore meno violentemente (vel si minus acriter
urar , v. 15) non avrebbe altra possibilità di azione che quella di amare.
Infine ricordo il Leandro del poemetto di
Museo[227]
dove il giovane qualifica Eros con deinov"
(tremendo) e il mare come ajmeivlico"
, spietato (Ero e Leandro , v. 245) poi, con immagine derivata da Nonno
di Panopoli[228],
pensa di contrappesare l'acqua marina con il fuoco amoroso che lo brucia fin
dentro le fibre. Quindi incoraggia il cuore ordinandogli di attenersi al fuoco e
di non temere l'acqua, anche se priva di fondo (v. 247).
L'acqua poi prevale sulla vita ma, siccome
amor omnibus idem, l'amore è il medesimo per tutti, se anche può uccidere,
tuttavia non può fermare gli amanti appassionati:"Inde ferae pecudes
persultant pabula laeta/et rapidos tranant amnis: ita capta lepore/te sequitur
cupide quo quamque inducere pergis " (De rerum natura , I, 14-16),
quindi le bestie selvagge saltano per i pascoli rigogliosi,/e attraversano a
nuoto i fiumi vorticosi: così presa dal fascino tuo/ciascuna ti segue
cupidamente dove continui a condurla.-amnis=amnes. A proposito di
rapidos amnes si ricorderà la Medea di Seneca che sicuramente non ignora
questi versi:" :"Non rapidus amnis, non procellosum mare… possit inhibere
impetum/irasque nostras…Amor timere neminem verus potest "(vv. 411
sgg.), non fiume travolgente, non mare in tempesta …potrebbe arrestare l'impeto
dell'ira mia…Il vero amore non teme nessuno.
Ma torniamo all'amore- guerra
della terza Georgica dove la razza aspra dei lupi e dei cani e perfino i
cervi imbelli danno battaglia ("dant proelia ", v. 265). Certo però che
supera tutto e si distingue il furore delle cavalle:"Scilicet ante omnes
furor est insignis equarum " (v. 266), cui Venere stessa attribuì questa
disposizione quando le quattro di Potnia (in Beozia) sbranarono con le mascelle
le membra di Glauco che le teneva lontane dai maschi. Come si vede l'amore,
consentito o represso che sia, è sempre unito al dolore e alla morte.
Il Socrate dei Memorabili
di Senofonte aveva già detto che bisogna guardarsi dal bacio e persino
dalla visione dei belli poiché questi iniettano un veleno più dannoso di quello
dei ragni (I, 3, 11 sgg.). La guerra amorosa non manca mai di provocare ferite
o ustioni che l'amante spesso si procurara da solo.
Properzio addirittura
va in cerca della piaga amorosa"Interea nostri quaerunt sibi vulnus ocelli
" (II, 22, 7), intanto i miei occhi cercano chi li ferisca. Su questa elegia
torneremo per la presenza di un altro locus.
Anche nel romanzo greco (II
d. C.) ci sono cenni alla ferita creata da amore:"
davknei to; fivlhma th;n kardivan" (Le
avventure pastorali di Dafni e Cloe , 1, 25, 2), il bacio morde il cuore,
sussurra il protagonista maschile della storia d'amore di Longo Sofista,
quel Dafni cui il bacio di Cloe pare più acerbo dell'ago di un'ape.
Non è da meno Clitofonte di
Achille Tazio che dice a Leucippe:"kai;
su; mevlittan ejpi; tou' stovmato" fevrei": kai; ga;r mevlito" gevmei", kai;
titrwvskei sou ta; filhvmata", Leucippe e Clitofonte , 2, 6, 6,
anche tu devi portare un'ape sulla bocca: infatti sei piena di miele e i tuoi
baci feriscono.
C'è, veramente, anche un bacio che
non punge, ed è quello che il canto per Adone delle Siracusane teocritee
attribuisce al ragazzo amato da Venere:"
ouj kentei' to; fivlhm& , e[ti oiJ peri; ceivlea purraiv" (XV, 130), non
punge il tuo bacio, ancora intorno alle labbra c'è la peluria fulva. A questa
peluria rossiccia possiamo associare le messi mature di cui Adone è simbolo,
secondo l'insegnamento che Ammiano Marcellino attribuisce alle religioni
misteriche riguardo a questa storia d'amore e morte nelle[229]:"quod
simulacrum aliquod esse frugum adultarum religiones mysticae docent " (XIX,
1, 11). Particolarmente è l'uccisione del bellissimo giovane che viene
interpretata come simbolo della mietitura del grano: quando Giuliano giunge ad
Antiochia nell'estate del 361 d. C. si celebravano le feste in onore di Adone,
amato da Venere e ucciso dal cinghiale:"quod in adulto flore sectarum est
indicium frugum" (XXII, 9, 15), simbolo delle messi recise quando sono del
tutto mature. E sono appunto di un biondo tendente al rosso.
Vediamo qualche esempio di
ustione amorosa nelle Metamorfosi di Ovidio:"sic deus in
flammas abiit, sic pectore toto/uritur " ( I, 495-496), così il dio si
infiammò, così in tutto il petto/brucia. Si tratta di Febo che brucia per Dafne.
Più avanti (III, 464) è Narciso che brucia per amore di se stesso:"uror amore
mei, flammas moveoque feroque ", brucio per amore di me stesso e porto e
agito le fiamme. Il poeta di Sulmona del resto negli Amores presenta
anche un altro punto di vista, il proprio, che è ben diverso:" "Candida me
capiet, capiet me flava puella;/est etiam in fusco grata colore venus " (
II, 4, 39- 40) una ragazza chiara mi conquisterà, mi conquisterà una
bionda;/l'amore è gradito anche in una scura.
Nel Pervigilium Veneris
che celebra l'inizio della primavera e la potenza di Afrodite, Amore è in
vacanza ("feriatus est amor ", v. 31) perciò gli è stato ordinato di
andare inerme, di andare nudo:"neu quid arcu, neu sagitta, neu quid igne
laederet " (v. 33), per non ferire qualche creatura con l'arco, con la
saetta, con il fuoco. Eppure, avverte l'autore, o l'autrice, "Nymphae,
cavete, quod Cupido pulcher est:/ totus est in armis idem quando nudus est amor
" (vv. 34-35), guardatevene o Ninfe, poiché Cupido è bello: ed è tutto armato
anche quando è nudo Amore.
Cesare Pavese ribalta la
posizione del vulnus : per lui è la vita che infligge ferite e l'amore
anestetizza il dolore :"Perché il veramente innamorato chiede la continuità, la
vitalità (lifelongness ) dei rapporti? Perché la vita è dolore e l'amore
goduto è un anestetico e chi vorrebbe svegliarsi a metà operazione?"[230].
Si potrebbe commentare questa affermazione intelligente con quest'altra di
Pindaro:" ejslw'n ga;r uJpo; carmavtwn
ph'ma qnavskei-palivgkoton damasqevn" (Olimpica II, 19-20),
infatti sotto nobili gioie muore la sciagura recrudescente domata.
Orfeo e Aristeo
nell'interpretazione di Gian Biagio Conte. Orfeo poeta d'amore e la poesia
elegiaca. Un poco di inglese.
In un suo lavoro in inglese[231]
il professore di Pisa individua in Aristeo il più completo eroe del regno
georgico, una figura emblematica della cultura dell'agricoltore e il prototipo
del perfetto agricola che trova nella tenacia i mezzi più efficaci del successo;
egli sarà capace di apprendere da Proteo la causa delle sue disgrazie e di
ricevere dalla madre la prescrizione divina di un rituale che deve compiere
senza deviare nemmeno nel minimo dettaglio. Le due virtù richieste per il suo
successo sono prima la tenacia, per conoscere, poi l'obbedienza, per eseguire. "Tenacitas
(persistence), a humble but effective virtue, is exactly the same force as that
of the farmer who combacts the relutance of the misrly earth " (p.54), la
tenacia, una virtù umile ma produttiva, è esattemente la stessa forza del
contadino che combatte la riluttanza della terra avara.
E' quella, aggiungo, valorizzata
per primo da Esiodo nel suo poema le Opere e i giorni.
Nell'ultimo capitolo del De
beneficiis Seneca utilizza il paragone con la figura del contadino operoso
per elogiare e rendere visibile la perseveranza nel fare i benefici anche
all'ingrato:"huic ipsi beneficium dabo iterum et tamquam bonus agricola cura
cultuque sterilitatem soli vincam " (VII, 32), a questo stesso farò ancora
del bene e come un agricoltore bravo vincerò la sterilità del suolo con un
lavoro assiduo.
Conte individua una parola chiave
nell'avvertimento della madre Cirene:"Nam sine vi non ulla dabit praecepta,
neque illum/orando flectes; vim duram et vincula capto/tende "(IV,
398-400), infatti senza violenza non darà alcuna risposta, né lo pregherai con
preghiere; dopo averlo preso, tendi i lacci e una dura violenza.
"Durus, another key word in these lines,
indicates the other, complementary aspect of "tenacity". It often appears in the
Georgics to signify the "hard" reluctance of nature, which can be overcome only
by toil. Thus, labor omnia vicit/improbus et duris urgens in rebus
egestas (I. 145-146)...durus uterque labor (II. 412)...ipse labore manum
duro terat (IV. 114)...and in the end the farmers too must be "hard"
themselves, "resistant to toil": dicendum est quae sint duris agrestibus
arma,/quis sine nec potuere seri nec surgere messes (I. 160-161). ".
Vediamo la traduzione: durus , un'altra parola chiave in questi versi,
indica l'altro, complementare aspetto della tenacia. Essa appare spesso nelle
Georgiche per significare la dura riluttanza della natura, che può essere
vinta solo dal lavoro. Così il lavoro inflessibile ha domato tutto e l'indigenza
che spinge nei duri frangenti (I, 145-146)...dura l'una e l'altra
fatica (II, 412)...egli stesso consumi la mano nella dura fatica...e alla
fine anche i contadini devono essere duri loro stessi, resistenti alla fatica:
bisogna dire quali siano le armi dei duri contadini, senza le quali non
avrebbero potuto essere seminate né levarsi le messi (I, 160-161).
Aggiungo di mio che l'agricoltura
è come una guerra, non meno dell'amore il quale comporta pure labor ,
ma mentre la fatica del contadino, secondo Virgilio, è produttiva, quella degli
amanti è distruttiva.
Torniamo al
Conte:"Resistance to toil, knowing how to persevere in an arduous task with
faith and obstinacy-these are Roman virtues. They are ancient virtues but remain
relevant, and it is these which obtain success for Aristaeus when they are
wedded to scrupulous obedience to divine dictates ", resistenza al lavoro,
sapere perseverare in uno strenuo dovere con fede e ostinazione-queste sono
virtù romane. Sono virtù antiche ma rimangono rilevanti, e sono queste a
ottenere successo per Aristeo quando sono coniugate a scrupolosa obbedienza ai
dettami divini.
Orfeo, d'altro lato, fallisce.
Egli fallisce perché contravviene alle rigorose condizioni imposte dal dio della
morte: rupta tyranni/foedera (Georgica IV. 492-93), è infranto il
patto del tiranno...egli volta gli occhi sull'oggetto del suo amore, e così
viola la lex (condizione) dettata da Proserpina (487). L'amore lo
trasporta e fa di lui un mentecatto...La pazzia d'amore inganna Orfeo: in quanto
suo prigioniero, egli non mantiene l'obbedienza alla volontà degli dèi (p. 55).
Del resto "Orpheus is not only an unfortunate lover: he is above all a poet,
a passionate singer of his love " (p. 57), Orfeo non è soltanto un amante
sfortunato; egli è soprattutto un poeta, un cantore appassionato del suo amore.
Procediamo con il testo di Conte già tradotto. Nelle Argonautiche di
Apollonio Rodio (I. 496-511) Orfeo placa una lite tra i suoi compagni di
navigazione cantando un poema scientifico (empedocleo) sulla genesi del cosmo:
tale modo quasi lucreziano non sarebbe del tutto estraneo a un poema didattico e
georgico, come quello di Virgilio. Ma invece questo Orfeo canta d'amore, il
dolore della separazione, la perdita della donna che ama. In breve, questa è una
poesia fatta di vicende personali, di passione infelice. In questo modo noi
abbiamo identificato un'altra ragione dell'intrinseca debolezza di Orfeo: egli
non è solo un amante ma un amante-poeta, un personaggio che rivolge l'amore, o
piuttosto la sofferenza d'amore a oggetto esclusivo del suo canto. Egli è
davvero il prototipo del poeta-cantore. Materia del suo canto (riassumo) è la
sofferenza amorosa. Inoltre egli è solo (un desocializzato aggiungo, come un
artista decadente) e il furore erotico che è la vera fonte della sua poesia (il
suo canto è nutrito dalla passione che lo accieca) finisce con il distruggerlo.
Il medesimo paradosso si trova all'origine di molta poesia elegiaca...Come può
un poeta elegiaco essere definito esattamente in un pungente epigramma? Domizio
Marso[232]
(ex incertis libris , verse 9 Morel corrisponde al frammento 7-3
Courtney) definisce Tibullo come elegis molles qui fleret amores ( un
elegiaco che piange su teneri amori), una definizione che potrebbe essere
applicata all'elegia in generale. Cantando il suo erotikon pathema
(sofferenza amorosa), l'Orfeo di Virgilio canta nei modi di un poeta elegiaco,
proprio come Gallo, il fondatore dell'elegia latina che soffre d'amore nella X
Ecloga (14-15)...la poesia d'amore fallisce poiché è costituzionalmente
separata dall'azione: è completamente e integralmente egotistica...C'è davvero
un'opposizione tra poesia georgica e poesia d'amore che nasce da un'opposizione
tra una "dimensione pratica" e una "dimensione contemplativa...La solitudine
allontana il poeta d'amore dal mondo reale, lo rinvia a se stesso, lo rende
egotisticamente indifferente ad ogni sollecitazione esterna. Chiuso in questa
autonomia, egli non è capace (né vuole) rompere il suo circolo chiuso, fuori dal
quale soltanto può esserci la salvezza. Questo è il paradosso del poeta
elegiaco, e il paradosso di Orfeo, uno che ha il potere di cantare ma non quello
di agire...Da una parte c'è Virgilio e il mondo di Aristeo, dall'altra una
poesia del tutto privata che obbedisce soltanto alla legge del servitium
amoris, inventa una forma del mondo chiusa e assoluta, e di fatto sostiene
un ideologia anarchica indifferente ai valori della collettività "[233].
Vorrei fare una riflessione su
questo e segnalare che i sentimenti privati, quelli conseguenti agli amori
penosi in particolare, divengono prevalenti in letteratura rispetto agli
interessi storici e politici sotto le tirannidi che tolgono spazio alla
dialettica, all'interesse per la collettività e ammettono la propaganda al
potere oppure l'effusione di stati d'animo individuali purchè innocui o
funzionali al regime. La gioia amorosa non lo è mai.
Virgilio del resto, continua
Conte, non è che non provi simpatia e comprensione per Orfeo. "Al contrario,
Virgilio sa come rendere omaggio alla poesia elegiaca come la forma poetica più
adatta a rappresentare la debolezza umana e capace di conquistare la simpatia
per la sofferenza di chiunque soffra un fallimento esistenziale...Mentre mostra
tutta la forza e la malia del destino del poeta Orfeo, Virgilio simultaneamente
denuncia i costi della scelta "debole" , quella dell'elegia, e il prezzo "amaro"
della sua scelta "forte" , la missione di una committenza didattica che esalti i
valori semplici e solidi della vita del contadino. Il suo arator è
durus , e le virtù che lo guidano devono essere indifferenti al funereo
lamento del povero usignolo privato del suo nido; ma questa è la dura
legge del mondo che Giove ha voluto per gli uomini, il mondo del lavoro.
Conte in una nota segnala
opportunamente il nesso di quest'ultima asserzione con i vv. 207-211 della
Georgica II :"aut unde iratus silvam devexit arator/et nemora evertit
multos ignava per annos/antiquasque domos avium cum stirpibus imis/eruit: illae
altum nidis petiere relictis;/at nudis enituit impulso vomere campus ", o da
dove l'aratore operò una deforestazione con ira, e sradicò i boschi per molti
anni improduttivi, e antiche dimore di uccelli strappò con le radici profonde:
quelli volarono in alto lasciati i nidi, ma nuovo brillò sotto la spinta del
vomere una campo. In questi versi c'è anche la violenza dell'uomo che pure vuole
migliorare la sua condizione sulla terra:" il poeta didattico osserva questa
azione violenta dalla prospettiva degli uccelli che vivevano sugli alberi che
sono stati tagliati, quando essi vedono il loro nido sacrificato alle dure
necessità del contadino...Il protagonista delle Georgiche-il paziente,
tenace agricola capace di coronare la sua fatica con il successo-è anche
un carattere non privo di ombre, e richiede, anche lui, della vittime"[234].
Come farà Enea.
Aggiungerei che la violenza
dell'uomo nei confronti della natura viene segnalata con maggiori indicazioni
negative da Sofocle il quale nel primo stasimo dell'Antigone
mette in luce l'inanità della sofiva
tecnologica:" Possedendo il ritrovato della tecnologia,/ che è un qualche
sapere , oltre l'aspettativa (sofovn ti to;
macanoven-tevcna" uJpe;r ejlpivd& e[cwn-tote; me;n kakovn, a[llot& ejp& ejsqlo;n
eJvrpei)/ora si volge al male, ora al bene./ e le leggi della terra
unendo/e degli dei la giurata giustizia/è grande nella città; bandito dalla
città è quello con il quale /coesiste il brutto morale, per la sfrontatezza./Non
mi stia accanto sul focolare/né abbia lo stesso pensiero/chi compie queste
azioni" (vv. 365-375).
La
violenza dell'uomo.
Alla violenza dell'uomo nei confronti della terra coltivata e degli animali
aggiogati sembra alludere anche Virgilio quando, nella IV Bucolica
, descrive l'età dell'oro:"non rastros patietur humus, non vinea
falcem,/robustus quoque iam tauris iuga solvet arator ", (vv. 40-41), la
terra non soffrirà i rastrelli, né la vigna la falce, anche il robusto aratore
scioglierà i tori dal giogo. Come l'età dell'oro anche le isole beate di
Orazio producono pane e vino senza violenza:" Nos manet Oceanus
circumvagus arva beata/Petamus, arva divites et insulas,/Reddit ubi Cererem
tellus inarata quotannis/Et imputata floret usque vinea " (Epodi ,
16, 41-44), ci attende l'Oceano che gira intorno a campagne felici, dirigiamoci
a quelle campagne e isole fertili, dove ogni anno la terra dà le messi senza
essere arata, e la vite fiorisce continuamente senza essere potata.
Per la scienza e la tecnica che si
volgono al male è molto chiara la condanna di
Brecht il quale viene citato da G.
Steiner a proposito del canto corale dell'Antigone :"Il commento al
secondo stasimo (sic!) che Brecht fornisce con le sue note di lavoro (Anmerkungen
zur Bearbeitung ), è lapidario: "L'uomo, mostruosamente grande (ungeheuer
gross ) quando sottomette la natura, diventa un grande mostro quando
sottomette gli uomini, suoi simili". Come Hölderlin prima di lui, Brecht traduce
ta; deina;
con Ungeheuer , parola densa di
significati che designa "ciò che è mostruoso", "ciò che è inquietante", "ciò che
è insolitamente, ossessivantemente eccessivo nel bene e nel male"[235].
Sui limiti della sofiva
tecnologica sentiamo anche Di Benedetto:"affiora in Sofocle una tendenza
diversa, secondo la quale sofov"
appare in contesti che tendono a svuotare l'aggettivo della sua positività e a
conferirgli un valore chiaramente negativo. Va menzionato a questo proposito
anzitutto il passo del primo stasimo dell'Antigone dove al v. 365
sofovn
è associato alle qualità inventive della
tevcna:
senonché in questo stasimo la tevcna
è presentata in un contesto in ultima analisi restrittivo e lo stesso vale per
sofovn,
collocato con evidenza all'inizio della frase"[236].
Si veda un ancora più esplicito svuotamento della
sofiva
tecnologica nel discorso di Diotima del Simposio platonico:"kai;
oj me;n peri; ta; toiau'ta sofo;" daimovnio" ajnhvr, oJ dev, a[llo ti sofo;"
w[n, hj; peri; tevcna" hj; ceirourgiva" tinav", bavnauso""
(203a), chi è sapiente in tali rapporti (quelli tra gli uomini e gli dèi) è un
uomo demonico, quello invece che si intende di qualcos'altro, o di tecniche o di
certi mestieri, è un facchino.
Nel Menesseno Platone chiarisce il disvalore della scienza
separata dalla giustizia:"pa'sav te
ejpisthvmh cwrizomevnh dikaiosuvnh" kai; th'" a[llh" ajreth'" panourgiva, ouj
sofiva faivnetai" (247), la scienza
separata dalla giustizia e dalle altre virtù si vede che è malizia, non
sapienza.
A questo si può aggiungere la favola di Filemone e Bauci che nel Faust
di Goethe vengono sacrificati con tante altre vittime umane, per
strappare il terreno al mare e a loro stessi:" E sul principio ,/furono tende e
furono capanne./Ma sorse poi, dov'è più folto il verde/subito un gran palazzo"
racconta Filemone. E prosegue Bauci"Facevano, di giorno, il finimondo,/senza
concluder nulla, i suoi vassalli./Colpi su colpi, di badili e zappe!/Ma dove
nella tenebra notturna/era un vagar di vivide fiammelle,/una diga si ergeva
all'indomani./Debbono avere sanguinato, a notte,/vittime umane. Ché s'udìan, nel
buio,/gemiti di dolore./Verso il mare fluivano torrenti/rossi di fuoco. E al
sorgere del sole,/ecco, un canale era scavato, già./Un uomo senza Dio! Gli fanno
gola/la nostra capannuccia ed il boschetto./Un vicino orgoglioso e tracotante,/a
cui dobbiamo, ahimè, restar soggetti!"[237].
E' questi lo stesso Faust la cui avidità poi provoca l'assassinio dei due
vecchietti.
James Hillman alla giustizia aggiunge la bellezza:"Bellezza e Giustizia
sono i veri fini. I pensatori più profondi li hanno individuati. Platone, ad
esempio. E ogni anima lo percepisce immediatamente: il benessere economico non
fa piacere all'anima quanto la Bellezza e la Giustizia"[238].
Conte conclude il suo saggio del quale ci siamo avvalsi quasi per intero,
notando che durities (la durezza) è la fisionomia costitutiva del
carattere dell'arator , un aspetto indispensabile di quella perseveranza
che lo aiuterà a superare la prova. La sua scelta di vita non conosce insuccesso
ma il prezzo è alto. Questo è lo stesso prezzo che il poeta didascalico Virgilio
deve pagare per il suo rifiuto della poesia d'amore". Per questo prezzo pagato,
del resto, aggiungo, riceverà non piccoli compensi da Mecenate il quale ebbe in
Virgilio il vate desideroso e capace "di trasmettere valori forti e verità
antiche", di soddisfare "la magnifica ambizione di una grande nuova letteratura
latina che sceglie di indirizzare essa stessa la coscienza della collettività
nazionale"[239].
Voglio ricordare, per mettere di nuovo in luce l'ipocrisia del potere, che
Mecenate, etrusco di Arezzo, ha fama di gaudente, anzi di dissoluto se diamo
retta a Seneca che lo contrappone a Regolo, documentum fidei, documentum
patientiae, modello di lealtà e resistenza, definendolo " voluptatibus
marcidum"[240],
smidollato dai piaceri.
Riprendiamo il filo del Terzo
Stasimo dell'Antigone (vv. 782-790):
Greco
"Eros che sulle ricchezze ti
abbatti,/che nelle morbide guance/della fanciulla trascorri la notte,/vai e
vieni tanto sul mare quanto/nelle agresti dimore:/e degli immortali nessuno ti
sfugge né degli uomini effimeri;/ma chi ti trattiene è impazzito".
-kthvmasi
:"Uno dei primi effetti della bellezza femminile su di un uomo è quello di
levargli l'avarizia"[241]
. ). Più avanti vedremo che anche Lucrezio ha espresso questo concetto: "labitur
interea res " (De rerum natura , IV, 1124), si scialacqua nel
frattempo il patrimonio.
Un altro nesso tra amore e
ricchezza viene indicato dal contadino non innamorato di Teocrito nel X
idillio: i due dèi che li rappresentano, Eros e Pluto, sono entrambi ciechi di
mente in quanto tutti e due dissennati (vv. 19-20). Quanto alla cecità di Pluto,
il dio della ricchezza nella parte iniziale dell'ultima commedia di
Aristofane afferma di essere stato accecato da Zeus per invidia verso gli
uomini, e in particolare nei confronti delle persone oneste che egli voleva
beneficare (Pluto, 87-92)-
malakai'": c'è una certa contraddizione con la bellicosità di Eros, e
infatti l'amore non rientra nella logica aristotelica, ma fa parte di quelle
manie che magari sono più sagge della saggezza del mondo, eppure sono sempre
pazzie.-uJperpovntio": quante
volte guardando il mare (povnto"),
il pontivwn te kumavtwn-ajnhvriqmon
gevlasma" (Prometeo incatenato , 89-90), " e l'innumerevole
sorriso delle onde marine", abbiamo pensato all'amore, poiché l'uno e l'altro
rappresentano l'idea dello sconfinato e dell'eterno! -ajgronovmoi"
aujlai'": i luoghi agresti invece significano raccoglimento,
autenticità, introversione e rapporto con se stesso, un poco come l'amore che ci
mette in contatto, crediamo, con una creatura comprensiva della nostra umanità,
come un altro io molto simile a quello che siamo.
La natura del resto contiene
presentimenti d'amore, come ha capito benissimo Dino Buzzati:" Tutto ciò
che ci affascina nel mondo inanimato, i boschi, le pianure, i fiumi, le
montagne, i mari, le valli, le steppe, di più, di più, il cielo, i tramonti, le
tempeste, di più, la neve, di più, la notte, le stelle, il vento, tutte queste
cose, di per sé vuote e indifferenti, si caricano di significato umano perché,
senza che noi lo sospettiamo, contengono un presentimento d'amore...Che
interesse avrebbe una scogliera, una foresta, un rudere, se non vi fosse
implicata una attesa? E attesa di che se non di lei, della creatura che ci
potrebbe fare felici?...Gli vengono pure in mente le carovane delle
miagolanti befane venute dall'America che scendono dai pullmann dinanzi ai
musei e alle cattedrali. Forse che anche le sciagurate, nel girovagare da un
paese all'altro, inseguono quel presentimento d'amore? Esattamente così,
compatitele. Pure in quei ruderi standard pieni di salute resiste ancora, a
loro insaputa, il richiamo; hanno sessanta, settanta, ottant'anni, sono donne
morigerate e rispettabili, impazzirebbero di vergogna se potessero sapere ciò
che le trascina su e giù per il mondo. Eppure se nei viaggi non ci fosse quel
barlume romanzesco e inverosimile, mai si muoverebbero di casa. Il vagabondare
di frontiera in frontiera, di albergo in albergo, diventerebbe un supplizio"[242].
Un'altra interpretazione possibile dell'amore che va e viene sul mare e nelle
dimore agresti è che Eros riguarda i pesci e le bestie dei campi come gli
uomini; insomma quell' amor omnibus idem di cui si è detto.
-ajqanavtwn:
anche gli dèi sentono le pene amorose. Si può pensare , per esempio, all'Apollo
innamorato di Dafne delle Metamorfosi di Ovidio (I, 495-496) citato
sopra.-fuvximo": sottinteso
ejstiv.-aJmerivwn:
dorico per hJmerivwn. Proprio perché
viviamo un giorno, cerchiamo di immortalarci su questa terra, e una via è fare
figli secondo il corpo. Un'altra, meno materiale, è farli secondo lo spirito.
Infatti lo scopo cui tende amore, secondo la Diotima di Platone, è la
procreazione nel bello secondo il corpo e secondo l'anima:"tovko"
ejn kalw'/ kai; kata; to; sw'ma kai; kata; th;n yuchvn" (Simposio
, 2O6b).-mevmhnen: perfetto
di maivnomai. L'innamorato del
Duvskolo" di Menandro, Sostrato,
dice:"Sono giunto qui, perché non posso dirlo, tranne che questa faccenda mi
trascina in questo luogo ( e{lkei dev
m j aujtovmaton to; pra'gm j eij" to;n
tovpon , v. 545).
Apriamo una sezione relativa
all'amore come punizione e malattia mentale.
La donna quale nemica o
inganno. Compresenza di amore e odio.
Esiodo considera la femmina
umana quale agente patogeno per l'umanità. In tutta la sua opera "traspare
un apprezzamento crudo e malevolo della donna quale causa d'ogni male, estraneo
alle concezioni cavalleresche"[243]
.
Nella Teogonia il poeta racconta che Zeus si era sdegnato poiché
Prometeo l' aveva ingannato donando agli uomini il fuoco, ed egli, subito, in
cambio del fuoco preparò per loro un malanno ( "
aujti;ka d& ajnti; puro;" teu'xen kako;n
ajnqrwvpoisi " (v. 570). Esso fu
plasmato da Efesto con la terra: era simile ad una vereconda fanciulla che
Atena adornò con un cinto, una veste, un velo, serti di fiori e una corona d'oro
dove lo stesso Ambidestro aveva cesellato figure di fiere terribili, quanti ne
nutre la terra ed il mare (v. 582). Una prefigurazione delle leonesse, le tigri
e le scille in cui abbiamo visto trasfigurate Clitennestre e Medee. Comunque
questa creatura divenne uno splendido malanno ("kalo;n
kakovn", v. 585) per gli uomini, un
inganno scosceso (" dovlon aijpuvn"[244],
v. 589) e senza rimedio. Ecco già delineato il "popolo nemico" da cui derivano a
quello dei maschi malanno e sciagura ("ph'ma",
v.592).
La donna come inganno scosceso e letale rimarrà topica: Orazio mette in
guardia da Pirra, che è simplex munditiis ma provoca il naufragio degli
amanti inesperti,:"Miseri, quibus/intemptata nites : me tabula sacer/votiva
paries indicat uvida/ suspendisse potenti/vestimenta maris deo ", poveretti
quelli cui brilli senza che ti abbiano conosciuta: la sacra parete con la tavola
votiva rivela che io ho appeso le vesti fradicie al potente dio del mare (Odi
, I, 5, 12-16). Il poeta scampato al pelago dell'amore è grato al dio Nettuno
che l'ha salvato.
L'uomo innamorato è come un marinaio nel mare in tempesta. Chi si libera
dall'amore fugge da un pericolo mortale. Questo locus sembra
capovolgere il mito di Ulisse il quale si salva dai flutti per tornare dalla sua
donna. Properzio nella penultima elegia del III libro identifica la fine
dell'inganno amoroso con l'ingresso della sua nave nel porto dove finalmente può
sentirsi libero dal servitium amoris .
Cito alcuni versi nei quali oltre il topos del naufragio si trova
quello della cottura :"Correptus saevo Veneris torrebar aeno,/vinctus
eram versas in mea terga manus./ Ecce coronatae portum tetigere carinae,/Traiectae
Syrtes, ancora iacta mihi est " (III, 24, 13-16), afferrato venivo arrostito
nella caldaia tremenda di Venere, ero stato legato con le mani girate dietro la
schiena. Ecco che la nave ha toccato il porto incoronate di fiori, e
oltrepassate le Sirti, ho gettato l'ancora. L' incantatrice è stata travisata
dallo sguardo ammaliato dell'amante il quale a sua volta adorandola l'ha illusa
sull'onnipotenza della bellezza che ha visto in lei :"Falsa est ista tuae,
mulier fiducia formae,/olim oculis nimium facta superba meis./ Noster amor tales
tribuit tibi, Cyntia, laudes " (III, 24, 1-3), è ingannevole questa tua
fiducia nell'aspetto, donna, resa una volta troppo superba dai miei occhi. Fu il
mio amore a donarti, Cinzia, tali lodi. Nell'ultima elegia di questo libro lo
schiavo d'amore per liberarsi dal servitium si aiuta con il ricordo (di
ascendenza catulliana[245])
dell'iniuria: "Flebo ego discedens, sed fletum iniuria vincit " (III,
25, 7), piangerò nel lasciarti ma l'offesa vince il pianto, e si consola con la
previsione dell'invecchiamento della sua domina :"At te celatis
aetas gravis urgeat annis,/et veniat formae ruga sinistra tuae./Vellere tum
cupias albos a stirpe capillos/ah speculo rugas increpitante tibi,/ exclusa
inque vicem fastus patiare superbos, et quae fecisti facta queraris anus./ Has
tibi fatalis cecinit mea pagina diras./Eventum formae disce timere tuae " (III,
25, 11-18), ma l'età greve incomba sugli anni dissimulati e vengano rughe
sinistre sulla tua immagine bella. Che allora tu voglia strappare dalla radice
i capelli bianchi, quando lo specchio ti rinfaccerà le rughe, e a tua volta
respinta possa tu sopportare la sprezzante alterigia, e lamentarti ormai vecchia
del male che hai fatto. Questi cattivi presagi ti ha cantato la mia pagina
fatale, impara a temere la fine della tua bellezza.
Questa dunque è ingannevole come l'amore ed effimera come mutevoli sono le
donne.
Ancora qualche considerazione sull'iniuria
che, ovviamente, appartiene anche alla sfera morale giuridica, politica ed
economica: Cicerone nel De Officiis afferma che essa deve essere sempre
evitata"fugienda semper iniuria est " (I, 25). Ebbene grandissimo movente
di iniuria è la cupiditas : in questo caso non quella amorosa ma
imperiorum, honorum, gloriae . E' il caso di Giulio Cesare qui omnia iura
divina et humana pervertit (I, 26) il quale sconvolse tutte la leggi divine
e umane. Anche in questo caso è stato messo in discussione il diritto di
proprietà: non dell'uomo sulla donna ma del padrone di casa. Sentiamone il
commento di C. E. Gadda:"Così...fra Poseidonio e Panezio, fra Peripatetici ed
Accademici, e nel bel mezzo dell'onesto e dell'utile, della Giustizia e della
Temperanza, della Prudenza e della Fortezza, salta fuori tutt'a un tratto, una
rabbia pazza, da padron di casa con la museruola, contro i decreti-legge del 707[247]
che rimettevano agli inquilini...non i loro peccati, ma i fitti arretrati. Con
repertini morsi di vipera il risentimento del moralista-padron di casa azzanna
da morto colui , "qui omnia iura divina et humana pervertit " . La stizza
dell'aver dovuto condonare quei fitti mescolata con quella del prestito forzoso
impsto dal dittatore a tutta la gente per bene, gli fa esclamare che quegli non
fu un uomo, ma un mostro, un sadico folle, assetato di voluttà malvagia:"Tanta
in eo peccandi libido fuit, ut hoc ipsum eum delectaret peccare, etiamsi causa
non esset "[248],
tanto grande fu in lui la brama di commettere falli che gli piaceva questo
stesso commetterli, anche se non c'era motivo.
La causa che scatena l'iniuria e il peccare è comunque la
libido .
Voglio prendere ancora una riflessione ciceroniana sull'iniuria e
applicarla al nostro discorso erotico: se la più odiosa delle offese è quella
fatta con la frode, meno quella con la forza, il tradimento amoroso è quello più
lontano dalla dignità dell'uomo (e della donna):"Cum autem duobus modis, id
est aut vi aut fraude, fiat iniuria, fraus quasi vulpeculae, vis leonis videtur;
utrumque homine alienissinum, sed fraus odio digna maiore " ( De officiis
, I, 41), siccome l'offesa si fa in due modi, cioè con la violenza o con la
frode, la frode sembra il mezzo della volpastra, la violenza del leone; l'una e
l'altra sono del tutto estranee all'uomo, ma la frode merita maggior odio.
Nelle Opere Esiodo torna sull'argomento: Zeus diede agli uomini
un male, la donna in cambio del fuoco:"Toi'"
d& ejgw; ajnti; puro;" dwvsw kakovn"
(v. 57). Anche nel " più recente e paesano dei due poemi d'Esiodo che ci
restano"[249]
la donna riceve ornamenti e attributi speciosi, e, per quanto riguarda il nostro
tema, Afrodite le versò sul capo la grazia e la passione struggente e
gli affanni che fiaccano le membra ("cavrin...kai;
povqon ajrgalevon kai; guiokovrou" meledwvna" ", vv. 65-66).
Nella Teogonia
[Ero"
stesso viene qualificato come
lusimelhv" (120-121), che strugge
le membra.
Questo epiteto viene attribuito
alla brama amorosa pure da Archiloco (frammento 118 D) :"mi prostra, amico, il
desiderio che strugge le membra"(lusimelhv"...povqo").
Il topos dello struggimento dovuto a Eros
viene riproposto da Saffo:" Eros che strugge le membra (lusimevlh")
di nuovo mi agita,/dolceamara (glukuvpikron)
implacabile (ajmavcanon) belva (o[rpeton)
(fr. 130 V.).
"La parola
lusimevlh" è tradizionale[250],
ma Saffo le conferisce una forza nuova combinandola con quello che segue. Amore
è visto come o[rpeton, e il termine
è, senza dubbio intenzionalmente, vago: esso può indicare pressoché ogni
creatura che cammina a quattro zampe o striscia, da un serpente[251]
fino al gigante Tifone imprigionato sotto l'Etna[252];
e può anche implicare qualcosa di sinistro, e quindi è precisato con
ajmavcanon, poiché da una creatura
del genere non ci si può difendere...Infine c'è
glukuvpikron; e con questa parola,
che non si ritrova più sino all'età ellenistica, Saffo esprime la quintessenza
dei suoi sentimenti contraddittori riguardo all'amore. Il grado di
concentrazione espressiva di Saffo si può vedere paragonandolo con la maniera
più diffusa di Teognide, che dice di Amore
pikro;" kai; glukuv" ejsti kai; ajrpalevo"
kai; ajphnhv"[253]
In pochissime parole Saffo
esprime la propria tumultuosa condizione, insieme fisica e mentale, desiderata e
odiata ad un tempo"[254].
L'amore dolceamaro trova
un'eco nel carme 68 di Catullo (vv. 17-18):"non est dea nescia nostri,/quae
dulcem curis miscet amaritiem ", non mi ignora la dea[255]
che agli affanni mescola dolce amarezza. L'ossimoro è divenuto un luogo comune
della letteratura: si possono ricordare il dulcium/mater saeva Cupidinum
, madre crudele[256]
di dolci amori di Orazio (Odi , IV, 1, 4-5) e la "dolcezza amara", sia
pure non erotica, di Giuseppe Giusti (Sant'Ambrogio , 65).
Questa prima donna, chiamata
Pandora poiché tutti gli dèi le avevano fatto un dono, questo inganno scosceso e
senza rimedio ("dovlon aijpu;n ajmhvcanon"
Opere , v. 83), accolto incautamente da Epimeteo invano avvertito da
Prometeo, diffuse mali e malattie sulla terra e sul mare togliendo il coperchio
all'orcio dove erano rinchiusi:"pleivh
me;n ga;r gai'a kakw'n, pleivh de; qavlassa", v. 101, piena è la terra di
mali e pieno il mare. Nel vaso, sul quale infine Pandora ripose il coperchio per
volere di Zeus, rimase solo la Speranza (Mouvnh
d& aujtovqi jElpiv", v. 96).
A questo punto il mito della
prima donna si collega a quello dell'età dell'oro.
La storia del decadimento
dall'aurea stirpe primigenia (cruvseon me;n
prwvtista gevno", v. 109) a quella finale, e attuale, ferrigna (
nu'n ga;r dh; gevno" ejsti; sidhvreon,
v. 176), prende l'avvio dal racconto dei mali conseguiti alla mossa malaccorta o
malvagia di Pandora, l'Eva dei Greci. La descrizione dell'età del ferro è ancora
attuale: i suoi delitti assomigliano molto a quelli dell' epoca moderna che
"Fichte definisce epoca della colpevolezza, della "compiuta peccaminosità"
ovvero della libertà vuota, del feroce conflitto che disgrega ogni ordine, della
lotta egocentrica e spietata di tutti contro tutti, dell'anarchia dei
particolari sradicati da ogni totalità"[257].
In sintesi estrema Esiodo afferma che gli uomini useranno il diritto del più
forte (ceirodivkai , v. 189) in
tutte le loro relazioni, una legge che è naturale per gli animali ma non per gli
uomini: infatti la violenza è cattiva per il misero mortale (v. 214) e la
giustizia prevale sulla violenza:"divkh d j
uJpe;r u{brio" i[scei" (v. 217).
Lucrezio considera non del
tutto aurea l'età primitiva: allora un genere umano molto più duro (multo...durius
V, 925-926) in quanto creato da una tellus...dura , tirava avanti la vita
secondo il modo errabondo delle belve ("vulgivago vitam tractabant more
ferarum ", v. 932). Gli esseri umani non coltivavano la terra
accontentandosi di quello che essa creava "sponte sua ", v. 938).
Mangiavano ghiande e corbezzole e altre dure pasture (pabula dura , v.
944) comunque abbondanti per i miseri mortali (miseris mortalibus ampla
). Per quanto riguarda il nostro tema, ossia il rapporto tra i sessi, "Et
Venus in silvis iungebat corpora amantum;/conciliabat enim vel mutua quamque
cupido/vel violenta viri vis atque impensa libido/vel pretium, glandes atque
arbuta vel pira lecta " (V, 962-965), e Venere nelle selve congiungeva i
corpi degli amanti; infatti conquistava ciascuna o la reciproca brama o
l'impetuosa violenza dell'uomo e la passione sfrenata o una mercede: ghiande e
corbezzole o pere scelte.
Condizioni, a dire il vero, non
molto diverse dalle attuali. In fondo la prima mossa che si fa, tra persone
civili, quando si vuole corteggiare una donna è invitarla a cena.
Il pericolo delle belve era più
terrificante e deleterio: capitava spesso che qualcuno di quei primitivi
offrisse viva pastura alle fiere (pabula viva feris praebebat , v. 991) "et
nemora ac montis gemitu silvasque replebat/viva videns vivo sepeliri viscera
busto " (vv. 992-993), e riempiva i boschi i monti e le foreste di gemiti,
vedendo i visceri vivi mentre venivano sepolti in un vivo sepolcro. Nota bene
Ivano Dionigi che "la sapiente combinazione degli elementi fonici
(allitterazione e poliptoto) conferisce al verso pateticità e anche cupezza (si
badi al martellante suono v )"[258].
Il professore dell'Ateneo bolognese ricorda anche, molto a proposito, che
l'immagine dell'animale come sepolcro vivente risale a Gorgia che definisce così
gli avvoltoi:" Gu'pe" e[myucoi tavfoi"
(in Subl. 3, 2). Quelli che non morivano subito rimanevano straziati
finché atroci spasimi li privavano della vita. Questa è la parte negativa, ma ce
n'è anche una positiva nell'età più antica: le guerre non distruggevano in un
sol giorno molte miglia di uomini schierati, né c'era la morte per acqua
marina:"nec poterat quemquam placidi pellacia ponti/subdola pellicere
[259] in fraudem
ridentibus undis./Improba navigii ratio tum caeca iacebat "(V, 1004-1006),
né la seduzione subdola del mare in bonaccia poteva trarre in inganno alcuno con
il sorriso delle onde[260].
Allora la detestabile arte del navigare giaceva sconosciuta.
E' questa una delle tante
espressioni contrarie alla navigazione dettata da brama di lucro. Si ritrova
nell'età dell'oro raffigurata da Tibullo: sotto il regno di
Saturno, al tempo dell'armonia tra l'uomo e la natura, non c'erano le
navi, non c'era il commercio, né
l'aggiogamento del toro, né l'imbrigliamento del cavallo,
né la proprietà privata, né il profitto: allora la terra con i suoi figli,
piante e animali, erano generosi nei confronti degli uomini e questi vivevano
senza preoccupazioni :"nondum caeruleas pinus contempserat undas,/effusum
ventis praebueratque sinum;//nec vagus ignotis repetens compendia terris/presserat
externa navita merce ratem.// llo non validus
subiit iuga tempore taurus,/non domito frenos ore momordit equus; // non domus
ulla fores habuit, non fixus in agris/qui regeret certis finibus arva lapis//
Ipsae mella dabant quercus,
ultroque ferebant/obvia securis ubera lactis oves" (I, 3, 37-46),
ancora il pino non aveva sfidato le onde azzurre, e non aveva esposto ai venti
il seno aperto[261]:
né il marinaio errante cercando profitti in terre ignote aveva caricato la barca
di merci straniere. in quel tempo il toro
robusto non si sottopose al giogo, il cavallo non morse il freno con bocca
domata; le dimore non avevano porte, non c'era pietra conficcata nei campi che
segnasse la terra da arare con limiti certi. Le querce offrivano il miele da
sé, e le pecore spontaneamente portavano le poppe gonfie di latte a quegli
uomini senza preoccupazioni. La navigazione è uno degli aspetti della violenza
umana nei confronti della natura, come fa notare già Sofocle nel Primo Stasimo
dell'Antigone .
Non meno negativamente considera
la traversata marina Properzio il quale anzi impreca contro l'inventore
di quel viaggiare marino che lo ha portato lontano da Cinzia:"A pereat,
quicumque ratis et vela paravit/primus et invito gurgite fecit iter " (I,
17, 13-14), ah, perisca chiunque per primo costruì le navi, e si aprì il cammino
tra i gorghi riluttanti.-ratis=rates.
Anche Seneca attraverso il
coro della Medea maledice la navigazione come attività troppo audace per
l'uomo:" Audax nimium, qui freta primus/rate tam fragili perfida
rupit/terrasque sua posterga videns/animam levibus credidit auris " (vv.
301-304), Audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi
flutti e vedendo alle spalle la terraferma affidò la vita ai venti incostanti.
Ma torniamo a Lucrezio il quale
procede con una riflessione anticonsumistica e con una denuncia morale dal tono
ironico:" Tum penuria deinde cibi languentia leto/membra dabat, contra nunc
rerum copia mersat ./Illi imprudentes ipsi sibi saepe venenum/vergebant,
nunc dant (aliis) sollertius ipsi " (vv. 1007-1010), allora la penuria di
cibo dava di conseguenza alla morte le membra stremate, ora al contrario le
sommerge la dismisura dei consumi. Quelli senza saperlo spesso versavano veleno
a se stessi, ora più ingegnosamente gli stessi lo somministrano ad altri.
Seguono alcune luci
sull'incivilimento che ammorbidisce gli animi , ma come si vede non mancano le
ombre. Il verbo mollescere del v. 1014:"tum genus humanum primum
mollescere coepit " significa diventare mollis e quindi si può
tradurre con "rammollirsi". Dionigi nel commento citato sopra sostiene che
Lucrezio "sembra preferire" la vita dell'uomo primitivo "a quella dell'uomo
civilizzato, minacciato da guerre, sazietà, inganni (vv. 999-1010)"[262],
mentre secondo Bettini l'intento di Lucrezio è stato quello di indicare "nel
lavoro un valore positivo e laico, l'unico mezzo attraverso il quale,
faticosamente, l'uomo poteva elevarsi al di sopra di una condizione primitiva
semiferina"[263].
Forse la soluzione di sintesi tra il bello arcaico e quello moderno si trova
nella dichiarazione di Pericle, emblematica non solo della cultura greca ma di
tutta la migliore cultura europea :"filokalou'mevn
te ga;r met& eujteleiva" kai; filosofou'men a[neu malakiva""(II, 40, 1),
amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza.
Il veternus in
Virgilio e Orazio.
Virgilio nella I
Georgica dà una spiegazione diversa della genesi dell'età moderna: Giove
procurò agli uomini fatiche e angosce (curae ) in quanto non lasciò che
il suo regno restasse paralizzato in un pesante letargo"nec torpere gravi
passus sua regna veterno " (v. 124). Secondo Bettini, l'autore delle
Georgiche tenta di mediare tra la posizione di Lucrezio e quella di Esiodo
il quale "aveva affermato che il lavoro umano aveva avuto origine da una
punizione divina, secondo una prospettiva religiosa che ritroviamo anche nella
Bibbia". Virgilio dunque compie la sua mediazione "conservando da un lato il
valore positivo del lavoro, ma conciliandolo dall'altro con l'idea di una
giustizia e di una provvidenza divina. Centrale è il concetto di veternus
, una specie di pigra indolenza, un torpore che affliggeva l'umanità nell'età
dell'oro, e che avrebbe indotto Giove a introdurre il lavoro nel mondo, per
stimolare l'ingegno umano e rendere gli uomini attivi, vigile e intraprendenti"[264]
. Concezione simile si trova nel De providentia di Seneca il
quale trova un significato positivo non solo nel lavoro ma pure nelle disgrazie
(incommoda) nei dolori e nelle perdite quali prove per esercitare e
temprare la virtus :"Marcet sine adversario virtus" (2, 4), senza
un avversario la virtù marcisce; e dio nei confronti degli uomini buoni ha
l'animo di un padre, li ama con forza, e ha questi progetti:"Operibus, inquit,
doloribus, damnis exagitentur, ut verum colligant robur" (2, 6), con lavori,
dolori, perdite, si affannino per raccogliere la vera forza. "Languent per
inertiam saginata nel labore tantum sed motu et ipso sui onere deficiunt",
infiacchiscono nell'ozio i corpi ingrassati e non solo per la fatica ma per il
movimento e il loro stesso peso vengono meno. E' la medesima impostazione del
Giobbe biblico:"Se nella cultura occidentale inglobiamo, per l'innesto operato
dal cristianesimo, la cultura ebraica, allora la più antica occorrenza di questo
"perché"[265]
potrebbe essere il Libro di Giobbe "[266].
Questo dovrebbe risalire al V sec. a. C. Ne riporto una massima:"Felice l'uomo
che è corretto da Dio"[267].
C'è un Giobbe moderno (1930) di Joseph Roth, un pio ebreo
orientale, Mendel Singer:"la sua vita era una perpetua fatica". Aveva un figlio
piccolo, Menuchim, che cresceva male, era malato, ma il Rabbi disse alla madre
Deborah:"il dolore lo farà saggio, la deformità buono, l'amarezza mite e la
malattia forte. I suoi occhi saranno grandi e profondi, le sue orecchie limpide
e piene di risonanze"[268].
Il veternus è presente in
un'accezione psicologica-individuale in un altro poeta augusteo: Orazio
nell'Epistola I, 8 lo menziona come un vizio della sua anima malata:
egli vive male non perché gli manchino i mezzi materiali "sed quia mente
minus validus quam corpore toto/nil audire velim, nil discere, quod levet
aegrum;/fidis offendar medicis, irascar amicis,/ cur me funesto properent arcere
veterno;/ quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam;/ Romae Tibur amem
ventosus, Tibure Romam " (vv. 7-12), ma perché meno forte nello spirito che
in tutto il corpo, niente voglio sentire, niente imparare che mi tiri fuori
dalla malattia, mi urto con i medici fidati, mi arrabbio con gli amici, perché
hanno premura di allontanarmi da questo letargo funesto: seguo ciò che mi ha
danneggiato, fuggo ciò che penso mi gioverà; a Roma amo Tivoli, in preda ai
venti, a Tivoli Roma.
La stessa malattia che spinge a
cambiare continuamente luogo per trovare la pace, invano, chi sta male con se
stesso è denunciata, in Epistola I, 11, con un ossimoro:"caelum, non
animum mutant qui trans mare currunt./Strenua nos exercet inertia " (vv.
27-28), cambiano il cielo, non lo stato d'animo quelli che corrono al di là del
mare, non ci lascia in pace un' agitata indolenza. Questa deriva dalla
sensazione che gli spiriti raffinati provano quando tutto viene deciso
dall'alto, di non potere cambiare nulla. E' uno stato d'animo descritto da
Musil con l'immagine efficace, il correlativo oggettivo, della
carta moschicida che un poco alla volta blocca
le vite dei giovani come fossero mosche: "qui ha imprigionato un peluzzo, là ha
bloccato un movimento, e a poco a poco li ha avviluppati, finché son sepolti in
un involucro spesso che corrisponde solo vagamente alla loro forma originale"[269].
Ma torniamo alla considerazione
delle età del mondo.
Più nota è la precedente posizione
di Virgilio nella quarta ecloga dove è annunciato una nuovo ciclo di età (saeclorum
ordo , v. 5) coincidente con la nascita di un puer (v. 8), il
ritorno della Virgo (la Giustizia), dei Saturnia regna (v. 6),
di una nova progenies, una nuova razza (v. 7) e della gens aurea
al posto di quella ferrea (v. 8 e v. 9). Qui c'è l'attesa della seconda
età dell'oro che giungerà alla perfezione quando il misterioso puer sarà
giunto all'età virile: allora ogni terra produrrà tutto da sola senza subire
violenza dall'uomo, le dure querce suderanno roridi mieli, il mare sarà libero
dalle navi e il marinaio liberato dai pericoli marini, mentre gli animali nocivi
periranno, quelli utili verranno liberati, e, per quanto riguarda la donna-madre
ella dovrà sorridere al bambino, il puer simbolo della rinascita,
chiunque egli sia. Infatti il bambino privato del sorriso dei genitori non potrà
mai raggiungere l'eccellenza.
L'età del ferro viceversa, e la
terra ammorbata dai delitti dei capi, sono caratterizzati dalla mancanza di
sorrisi: la Tebe di Edipo è piena di gemiti (Edipo re , v. 5) e nella
Scozia che, sconciata dai delitti di Macbeth, sembra una tomba, non si
vede sorridere nessuno se non chi nulla conosce (IV, 3). E' il mondo nuovo, o
rinnovato, e l'umanità non ancora conosciuta che fa sorridere di speranza: alla
fine del La Tempesta Miranda esclama: oh meraviglia ! Quante creature
ottime ci sono qui! Com'è bella l'umanità! O prode mondo nuovo (brave new
world) con tali persone; e il padre, Prospero, che il mondo lo conosce, le
fa: ' Tis new to thee , per te è nuovo (V, 1).
Per quanto riguarda i Saturnia
regna, il regno di Saturno, questo coincide con l'età dell'oro che "una
tradizione particolarmente ravvivata nell'età augustea poneva sotto il regno di
Saturno nel Lazio (cfr. Aen. VIII 319 ss.)[270]",
ma Virgilio non chiarisce il problema del potere ideale che invece è
spiegato da Seneca il quale in un' Epistola a Lucilio cita Posidonio[271]
:"Illo ergo saeculo quod aureum perhibent penes sapientes fuisse regnum
Posidonius iudicat. Hi continebant manus et infirmiores a validioribus
tuebantur, suadebant dissuadebantque et utilia atque inutilia monstrabant; horum
prudentia ne quid deesset suis providebat, fortitudo pericula arcebat,
beneficentia augebat ornabatque subiectos. Officium erat imperare non regnum
" (90, 5), Posidonio ritiene che in quella famosa età che chiamano dell'oro il
potere fosse in mano ai sapienti. Questi reprimevano la volenza, e proteggevano
i più deboli dai più forti, persuadevano e dissuadevano e indicavano le cose
utili e le inutili; la loro preveggenza faceva in modo che nulla mancasse ai
loro concittadini, la loro energia teneva lontani i pericoli, i benefici
potenziavano e onoravano i sudditi. Comandare era un dovere non un atto di
potere. Pensiero analogo nel Manzoni che scrive a proposito del cardinal
Federigo Borromeo:"Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale
professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità
d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava
di scansarle"[272]
Lo stesso concetto si trova in di E. Fromm:"Il capo non è soltanto la persona
tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche l'uomo
che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li
serve. Obbedire a un cosidetto capo senza queste qualità sarebbe una viltà"
[273].
Poco posteriore alla IV ecloga (
scritta nel 40 a. C. anno della pace di Brindisi tra Ottaviano e Antonio e del
consolato di Asinio Pollione) è l'Epodo 16 di Orazio composto
probabilmente "dopo che Sesto Pompeo nel 38 ha ricominciato la sua guerra sul
mare, minacciando di affamare l'Italia"[274].
Roma che i tanti nemici esterni non riuscirono a distruggere, prevede cupamente
il poeta, "impia perdemus devoti sanguinis aetas "(v. 9), la
distruggeremo noi, generazione empia nata da un sangue maledetto, con
riferimento al fratricidio primigenio di Romolo. Anche la funzione della donna è
ribaltata rispetto al messianico testo virgiliano dove la madre è rappresentata
ridente: alle donne, con ricordo archilocheo[275]
che avrà un seguito in Tacito[276],
si addice il luctus che il vir, cui si confà la virtus,
deve evitare:"vos quibus est virtus, muliebrem tollite luctum " (v. 39),
voi che avete coraggio virile togliete di mezzo il lamento da femmine. Si dovrà
volare al di là dei lidi etruschi, verso le isole felici dell'Oceano. In quei
luoghi la terra è generosa, gli animali produttivi, il clima mite, le donne
pudiche poiché non hanno avuto il cattivo esempio di quella sporcacciona di
Medea:"Non huc Argoo contendit remige pinus/neque impudica Colchis intulit
pedem " (vv. 59-60), qua non ha diretto la rotta la nave con i rematori di
Argo, né la svergognata donna di Colchide vi ha messo piede.
Ma se le donne, soprattutto le
impudiche che si innamorano e fanno l'amore, sono tanto deleterie perché gli
uomini le cercano, se ne innamorano, addirittura le sposano? Lo domanda
direttamente e ripetutamente la corifea nella Parabasi delle Tesmoforiazuse
di Aristofane, una specie di satira della vera o presunta misoginia
euripidea:" eij kako;n ejsmen, tiv gameiq&
hJma'", ei[per ajlhqw'" kakovn ejsmen" (v. 789), se siamo un male, perché
ci sposate, se davvero siamo un male? Quindi la donna precisa e conclude la
domanda chiedendo:"ajll& ouJtwsi; pollh'/
spoudh'/ to; kako;n bouvlesqe fulavttein; (v. 791), ma perché volete
tenere con tanta cura un male del genere?
A parte che non tutti gli
uomini, nemmeno tutti gli eterosessuali si sposano, una risposta a perché molti
lo fanno l'ha data Schopenhauer nei Parerga E Paralipomena :"La
natura ha destinato le giovinette a quello che, in termini teatrali, si chiama
"colpo di scena": infatti, per pochi anni la natura ha donato loro rigogliosa
bellezza, fascino e pienezza di forme, a spese di tutto il resto della loro
vita, affinché, cioè, siano capaci di impadronirsi durante quegli anni della
fantasia di un uomo in misura tale, che egli si lasci indurre a prendersi
onestamente una di loro per tutta la vita, in una forma qualsiasi, passo al
quale la mera riflessione razionale non sembrerebbe aver dato nessuna sicura
garanzia di invogliare l'uomo. Perciò la natura ha provvisto la femmina,
appunto come ogni altra delle sue creature, delle armi e degli utensili di cui
ha bisogno per la sicurezza della sua esistenza e per tutto il periodo in cui ne
ha bisogno; e anche qui la natura ha provveduto con la sua consueta parsimonia.
Come ad esempio, la formica femmina, dopo l'accoppiamento, perde per sempre le
ali, superflue, anzi pericolose per la prole, così, di solito, dopo una o due
gravidanze, la donna perde la sua bellezza e probabilmente, perfino, per la
stessa ragione. In conformità con ciò, le giovinette considerano nel segreto del
loro cuore, i loro lavori domestici o professionali una cosa secondaria, forse,
perfino, un semplice trastullo: come loro unica seria professione esse
considerano l'amore, le conquiste e ciò che vi si collega, come acconciature,
balli, eccetera"[277].
E, poco più avanti:" per la donna una sola cosa è decisiva, vale a dire a quale
uomo essa sia piaciuta" (p. 838).
L'amore che porta l'uomo a
sposarsi dunque è conseguenza di un inganno, una trappola preparata dalla natura
e fatta scattare dalle giovani femmine umane .
Di questo parere è anche
l'uxoricida della Sonata a Kreutzer di Tolstoj:" Che poi una sia molto
versata in matematica, un'altra brava a suonar l'arpa, non cambia nulla. La
donna è felice e soddisfatta in ogni suo desiderio soltanto quando riesce a
intrappolare un uomo. Né ad altro si ingegna, perché tale è il suo compito. Così
è stato, così sarà. Così nel nostro ambiente fa una fanciulla da marito, così fa
quando è maritata. Quando una è ragazza, pensa ad accaparrarsi uomini per la
scelta-quando è maritata, a tener sotto i piedi il marito" (p. 341). Tutt'altra
risposta ho trovato nel "dramma inedito" Platonov di Cechov :"Senza la
donna l'uomo è come una locomotiva senza vapore!" (IV, 7).
Per quanto riguarda l'amore come
malattia dalla quale non possiamo liberarci con la volontà sono degne di nota le
considerazioni di Proust sulla mania di Swann, un ricchissimo colto,
elegante signore ebreo innamorato di una cocotte, oltretutto senza esserne
contraccambiato e con un'ossessione che rendeva il pover'uomo infelice fino al
desiderio di morire: ebbene chi notava la sproporzione tra i due e la follia di
quel sentimento parlava "con la saggezza di chi non è innamorato, che pensa che
un uomo d'ingegno non dovrebbe essere infelice se non per una persona che ne
mettesse conto; all'incirca è come stupire che ci si degni di soffrire del
colera per opera d'un essere così piccolo come il bacillo virgola"[278].
L'amore di Swann
per Odette ha qualche cosa di malato dall'inizio alla fine.
La prima volta che si videro
"ella era apparsa a Swann non senza bellezza certo, ma di un tipo di bellezza
che gli era indifferente, che non gl'ispirava nessun desiderio, che gli dava
anzi una specie di repulsione fisica" (p. 209). Alla fine della morbo amoroso,
come svegliatosi da un'operazione, Swann penserà" E dire che ho perduto tanti
anni della mia vita, che ho voluto morire, che ho avuto il mio più grande amore,
per una donna che non mi piaceva, che non era il mio tipo" (p. 403). La
similitudine medico-chirurgica mi è stata suggerita dallo stesso testo di
Proust:"E questa malattia ch'era l'amore di Swann s'era così moltiplicata, era
avvinta così strettamente ad ogni consuetudine di lui, ad ogni suo atto, alla
sua mente, alla sua salute, al suo sonno, alla sua esistenza, perfino a ciò
ch'egli desiderava dopo la morte, aveva finito ormai col formare una cosa sola
con lui a tal punto che non sarebbe stato possibile strappargliela senza
distruggere lui stesso quasi per intero: come si dice in chirurgia, il suo
amore non era più "operabile" (p. 327).
Questa espressione si può
accostare a una concettualmente analoga di Petronio:"sed antiquus amor "
(Satyricon 42, 7), ma un amore vecchio è un cancro.
Questo morbo era parzialità di
visione, una forma di a[th o
accecamento mentale che impediva di vedere nella donna :"il disordine della
mente, l'insufficienza dell'educazione, la mancanza di franchezza e di volontà"
(p. 237). La freccia amorosa era partita dall'impressione di una
somiglianza:"ella colpì Swann per la sua rassomiglianza con quella figura di
Sefora, la figlia di Ietro, che si vede in un affresco della cappella Sistina"
(p.237). Dopo avere assimilato Odette all'immagine del Botticelli, egli vedeva
in quella creatura "una matassa di linee sottili e belle che i suoi sguardi
dipanarono, seguendo la curva del loro avviluppamento, ricongiungendo la cadenza
della nuca con la flessione delle palpebre, come in un suo ritratto nel quale il
suo tipo divenisse intellegibile e chiaro"( p. 238). Il mal d'amore poi
crescendo diviene "una necessità ansiosa, che ha per oggetto quello stesso
essere, una necessità assurda, che le leggi di questo mondo rendono impossibile
da soddisfare e difficile da guarire: la necessità insensata e dolorosa di
possederlo" (p. 246). L'angoscia era scoppiata una sera che Swann non trovò
Odette dai Verdurin i borghesi bottegai dai quali solitamente si recava:"forse,
anzi, proprio a quell'angoscia andava debitore dell'importanza che Odette aveva
presa per lui. Gli esseri ci sono di consueto così indifferenti che, quando
collochiamo in uno di essi simili possibilità di sofferenza e di gioia, esso ci
sembra appartenere a un altro universo, si aureola di poesia"(p. 251).
La Gelosia e l'invidia "sguardo
obliquo"[279].
La necessità dolorosa di dominare
Odette era attivata dalla gelosia. Questa, che fa sempre parte della
malattia d'amore, è descritta come un mostro edace il quale ricorda da
lontano quello di Shakespeare: "il mostro dagli occhi verdi che deride il cibo
di cui si pasce"[280].
Swann la sentiva "quasi che questa avesse avuto una vitalità indipendente,
egoistica, vorace di tutto quanto l'alimentasse" (p. 300). Essa era "come una
piovra che getta un primo, poi un secondo, poi un terzo tentacolo" (p. 301). E
in un volume successivo:"La gelosia, avendo gli occhi bendati, non solo è
incapace di scoprire alcunché nelle tenebre onde è avvolta; è, inoltre, uno di
quei supplizi nei quali si è costretti a ricominciare senza posa il proprio
lavoro, come quello d'Issione o delle Danaidi"[281].
Simile a questa gelosia
l'invidia descritta dalla Zambrano come morbo sacro:"Alcune di quelle che
vengono comunemente chiamate passioni, come l'invidia, distruggono l'essere che
le patisce e che, allo stesso tempo, riceve vigore da esse. Chi è roso
dall'invidia trova in essa il suo alimento. Una distruzione che alimenta se
stessa; tale sembra essere la prima, originaria, definizione dell'invidia…La
maniera più benevola di indicare l'invidia potrebbe essere avidità
"dell'altro"…Avidità dell'altro potrebbe essere ugualmente la definizione
dell'amore…l'amore …è, come l'invidia, un tormento che si alimenta di se stesso.
Amore e invidia sono processi dell'anima umana in cui il patire non provoca
nessuna diminuzione; il patire è il loro alimento"[282].
La follia dell'innamorato, come
l'intelligenza, è intermittente, e talora Swann poteva essere lucido, almeno
nelle parole, e dire a Odette:"Sei dell'acqua informe che scorre a seconda della
china, un pesce immemore e senza pensiero che, finché vive nel suo acquario,
cozzerà cento volte ogni giorno nel vetro, seguitando a scambiarlo con l'acqua"
(p. 308). Provava con questo a dirle che avrebbe potuto cessare di amarla, ma
Odette di intrighi amorosi se ne intendeva e "la sua esperienza degli uomini le
permetteva di concludere, senza fermarsi ai particolari delle parole, che non le
avrebbero proferite se non fossero stati innamorati, e che, poiché erano
innamorati, era inutile obbedir loro, che lo sarebbero stati ancor di più dopo"
(p. 309). Eppure questa malattia è anche sensibilità e vita, come per il poeta
d'amore la sua schiavitù morbosa è la condizione necessaria alla poesia. Swann:"esaminando
il suo male con sagacità non minore che se lo fosse incollato per studiarlo, si
diceva che se se lo fosse inoculato per studiarlo, quel che faceva Odette gli
sarebbe stato indifferente. Ma, in seno al suo stato morboso, a dir vero, temeva
come la morte simile guarigione, che difatti sarebbe stata la morte di tutto ciò
ch'egli era al presente" (p. 318).
L'amore come sofferenza e
malattia risale, abbia
mo visto alla poesia greco-latina.
Archiloco è il primo poeta
che dà voce alla pena amorosa:"
"infelice giaccio nella
brama,/senza vita, trapassato attraverso le ossa/da duri spasimi per volere
degli dèi"(fr. 104 D.).
In Archiloco il desiderio
erotico diviene acuminato quanto un coltello appuntito, e il sentimento amoroso
si avvicina al senso di morte, come sarà in Saffo che esprime lo smarrimento e
la debolezza infusi da Eros.
Vediamo alcuni versi della
poetessa di Lesbo.
Il fr.2 D. è la parte dell'ode conservata dall'Anonimo Sul sublime.
del I secolo d. C. E' forse la poesia più nota di Saffo poiché è stata tradotta
in latino da Catullo nel carme 51.
Cominciamo con il darne una traduzione italiana :
" Quello mi sembra pari agli dei/essere l'uomo che davanti a te/sta seduto e da
vicino ti ascolta/dolcemente parlare/e sorridere amabilmente, cosa che a me
certo/sconvolge il cuore nel petto:/ appena infatti ti guardo per un momento,
allora non/è possibile più che io dica niente/ma la lingua mi rimane
spezzata,/un fuoco sottile subito corre sotto la pelle,/e con gli occhi non vedo
nulla e mi/rombano le orecchie/e un sudore freddo mi cola addosso, e un
tremore/mi prende tutta, e sono più verde/dell'erba, poco lontana dall'essere
morta/appaio a
me stessa/ma bisogna sopportare tutto
poiché...". Se traduciamo pa;n
tovlmaton (= attico
tolmhtovn)
" tutto si deve osare" possiamo trovare in queste ultime parole del frammento
saffico un'anticipazione del
tolmhtevon tavd& della Medea di Euripide (v.1051).
La traduzione "sopportare" invece
possiamo commentarla con la Medea della Wolf:"Non sapevo che cosa è
capace di sopportare un essere umano. Ora me ne sto qui seduto e sono costretto
a dirmi che proprio su questa capacità di sopportare l'insopportabile e tuttavia
continuare a fare ciò che si è abituati a fare, proprio su questa sinistra
capacità si fonda la stabilità del genere umano"[283].
Abbiamo già detto a propsito
dell'Ode chiamata "La cosa più bella" (fr. 16
LP) che Saffo costituisce anche l'archetipo delle rivendicazioni femminili.
Apollonio Rodio imita quest'ode nel descrivere l'incantamento di Medea cui il
cuore cadde dal petto, si oscurarono gli occhi, un caldo rossore prese le
guance; inoltre non ebbe la forza di sollevare le ginocchia né avanti né
indietro, ma restò pietrificata sotto, nei piedi. E' una descrizione più precisa
e dettagliata ma la noncuranza spesso geniale, talvolta difettosa, dei grandi è
comunque preferibile all'ineccepibile correttezza di Apollonio Rodio, come ha
già detto l'Anonimo Sul Sublime .
Qui finisce la citazione
dell'Anonimo Sul Sublime il quale si chiede (10) dove stia la grandezza
di Saffo e risponde che la poetessa "è straordinaria nello scegliere e
connettere insieme i vertici e le tensioni massime" della pazzia amorosa.
Anche Leopardi, quando tratta di
bellezza nello Zibaldone (pp. 3443-3444), cita, in greco, i vv. 5-6 di
questo carme , dopo avere riportato questi della Canzone XIV di Petrarca
( Rime , CXXVI, 53-55): "Quante volte diss'io/allor pien di
spavento/"Costei per fermo nacque in paradiso!".
Dicevo che il carme 51 di
Catullo traduce questi versi fino al 12, quindi abbandona il modello, forse
per un altro, operando così una contaminatio .
Diamo anche la traduzione dell'ode
catulliana:"Quello mi sembra essere simile a un dio/quello, se non è una
bestemmia, superare gli dei/l'uomo che sedendo di fronte continuamente
ti/osserva e ti ascolta/mentre sorridi con dolcezza, il che a me infelice/porta
via tutti i sensi: infatti appena ti vedo, Lesbia, non mi rimane nemmeno/un filo
di voce in bocca/ Ma la lingua si paralizza, sotto le membra sottile/scorre una
fiamma, e per un suono loro/squillano le orecchie, gli occhi si coprono/di una
doppia notte./Lo stare senza far niente ti fa male Catullo:/stando senza far
niente ti esalti e ti sfreni troppo./Lo stare senza far niente ha già mandato in
rovina/ re e città opulente ".
Direi che le parole della poetessa greca sono più concrete non solo
perché, come scrive Pavese "il realismo, in arte, è greco"[284],
ma anche perché nella donna l'amore mancato, o la gelosia qual è in questo caso
il motivo della pena, infligge maggiore sofferenza corporea; così l'amore
appagato dà più gioia anche fisica al sesso femminile. Lo rinfaccia Giove a
Giunone dopo avere ruzzato con lei, come si legge in un passo delle
Metamorfosi di Ovidio considerato, anche da Eliot[285]
"di grande interesse antropologico":
Maior vestra profecto est/quam quae contingit maribus, dixisse, voluptas ",
certo il vostro piacere, disse, è più grande di quello che tocca ai maschi (III,
320-321) . La dea non fu d'accordo, quindi decisero di chiedere il parere del
sapiente Tiresia il quale era esperto di entrambi i sessi:"Illa negat
; placuit quae sit sententia docti/quaerere Tiresiae: Venus huic erat
utraque nota, vv. 322-323). Il doctus confermò la tesi di Giove, a
carissimo prezzo: la dea, adiratasi più del giusto, gli tolse gli occhi .
Allora il padre onnipotente "pro lumine adempto/scire futura dedit" (vv.
337-338), per la luce perduta gli diede la preveggenza del futuro.
Il
tovpo" è quello della cecità fisica
che, come in Edipo, diviene lucidità e chiaroveggenza mentale. Il punto di
partenza è il sesso.
Un altro frammento di Saffo rappresenta lo sconvolgimento causato dall'amore
come una tempesta:" Eros mi ha squassato l'anima, come vento che nel
monte si abbatte sulle querce" (fr. 50 D.). "L'immagine è singolare e
pertinente: l'amore scuote Saffo come il vento scuote le querce, e il dato
essenziale del paragone è che l'attacco è violento e fisico: la raffica
improvvisa è simile al tipo di passione a cui ella si riferisce". Così Bowra[286],
ma io credo che lo scuotimento sia prima di tutto mentale.
Amore come uragano e follia si
trova successivamente nel frammento (6 D.) più famoso di Ibico (seconda
metà del VI secolo): "in primavera firiscono i meli cotogni, alberi sacri ad
Afrodite, irrigati dalle correnti dei fiumi dov'è il giardino intatto delle
vergini, e i fiori della vite crescendo sotto i tralci ombrosi dei pampini
sbocciano, ma per me Eros rimane sveglio e tormentoso. Come Borea tracio
bruciante sotto la folgore, egli avventandosi dalla parte di Cipride con aride
follie, oscuro e impudente, con prepotenza e senza tregua fa la guardia al mio
cuore".
"Questa visione di Eros divinità
terribile per la follia che provoca nella vita umana, magico potere che impone
all'uomo una condotta a lui estranea, trovava forse consonanze (non ancora
rilevate dalla critica) nella cultura tardo arcaica, se Simonide poteva
rappresentare la passione d'amore come assillo
(oi'jstro") di Afrodite, come divino
potere ossessivo capace di limitare in chi ne è posseduto la possibilità di
essere valente nei termini dell'etica aristocratica dell'
ajgaqov". Di qui l'avvio verso
opinioni, che diverranno correnti nella cultura del IV secolo, di Eros demone
distruttore da temersi per le catastrofi che suscita con le folli passioni, o
dell'amore come malattia, come elemento negativo della
fuvsi", o come fatto dell'io
irrazionale. La struttura del frammento si articola nell'antitesi tra la
figurazione realistica di un giardino sacro alle ninfe, fiorente nel lieto
rigoglio di primavera, e il destino del poeta custodito senza tregua da un Eros
ardente e tempestoso come l'invernale vento di Tracia"[287].
L'assillo potente di Afrodite
tessitrice di inganni in Simonide è una delle cause (con la brama di guadagno e
quella delle contese) che possono impedire all'uomo di essere valente. L'
assillo che tormenta come persecuzione amorosa si trova anche in Eschilo: nel
Prometeo incatenato la fanciulla Iò bramata da Zeus e trasfigurata in mucca
(v. 588) , viene punta, perseguitata da un assillo (oi\\stro"
, v. 566) e fissata dallo sguardo del pastore Argo dai diecimila occhi(v. 569).
Dostoevskij attraverso
Dimitri Karamazov interpreta lo struggente desiderio amoroso come una
tempesta nel sangue:"Sono tempeste, perché la lussuria è una tempesta più di
ogni altra". Tali perturbazioni sono scatenate dalla bellezza:"La bellezza è una
cosa terribile, una cosa spaventosa. E' terribile perché è indefinibile, e non
si può definirla perché Dio l'ha circondata di enigmi"[288].
La sofferenza amorosa può
essere tanto intensa da portare al desiderio di morire.
L'affratellamento amore/morte più famoso è
quello del canto di Leopardi, ma il nesso è già reperibile in Saffo:"teqnavkhn
d& ajdovlw" qevlw" (96D., v. 1) sinceramente vorrei essere morta. In
questo frammento tra l'altro ci sono corone di rose e viole (i[wn
kai; brovdwn) con lo "strano" accostamento floreale che si ritrova nel
poeta di Recanati[289].
Vediamo la prima parte di quest'ode, fin dove è intellegibile: "Vorrei davvero
essere morta./Ella mi lasciava, piangendo/ molto e questo mi disse:/"ahimé come
terribilmente soffriamo,/Saffo, certo contro voglia ti lascio"./Io allora le
rispondevo con queste parole:/"vai, sii felice e ricordati/di me: sai infatti
quanto mi prendevo cura di te./Se no, io voglio/ ricordarti/di quante cose belle
e delicate abbiamo gioito:/infatti vicina a me ti cingesti/il capo con molte
corone/di viole, di rose[290]/e
di crochi insieme,/e molti serti intrecciati fatti di fiori/ponesti intorno/ al
collo delicato/e tutto il corpo ungesti/con unguento regale..".
Bowra parla del legame
tra amore e morte partendo dal primo verso citato sopra in greco: "Il desiderio
di morte degli amanti è un luogo comune della poesia a partire dall'età
ellenistica, e benché rifletta un'emozione genuina, è spesso un cliché
privo di sincerità; ma noi sentiamo che Saffo dice proprio quello che prova. Le
sue parole sono così disadorne che non possiamo prenderle se non alla lettera, e
dobbiamo prestarle fede quando afferma di parlare
ajdovlw". Si ha l'impressione che il
suo senso di abbandono, di solitudine l'abbia così stremata da farle sembrare
desiderabile l'annientamento. Forse in uno stato d'animo del genere ella scrisse
i versi seguenti:"un desiderio di morire mi possiede, e di vedere le rugiadose
spiagge dell'Acheronte coperte di loto" (Fr. 95, 11-13 L.-P.). La visione
dell'Acheronte, con la vivacità dei particolari, implica un dolore meno
violento: Saffo è qui per lo meno in grado di chiedersi che cosa significhi la
morte"[291].
Un'esempio di poesia ellenistica di questo connubio amore/morte possiamo
ricavarlo dal primo idillio di Teocrito dove Dafni canta:"
h'j ga;r ejgw;n uJp& e[rwto" ej" JvAidan
eJlkomai h[dh" (v. 130), io oramai da Eros vengo trascinato nell'Ade.
Il desiderio di morte nell'amante
può essere volontà eroica di salvare l'amato e la famiglia:"uJperapoqnhv/skein
ge movnoi ejqevluosin oiJ ejrw'nte"" (Simposio , 179b), e non solo
gli uomini, precisa Platone, ma anche le donne, come fece Alcesti .
" Eroe è Alcesti, come nel suo
stesso nome si annuncia: alké è il coraggio, ma il coraggio che si
manifesta essenzialmente nel prestare aiuto, nell'aver cura, nel proteggere (Alkìdes,
l'attributo di Ercole). Tale coraggio la rende famosa (eukleés[292]),
la fa migliore di tutte (arìste[293]):
così lei stessa si apostrofava nella tragedia di Euripide[294],
e così già Omero la chiamava (Iliade, II, 715): dia Alkestis,
Alcesti divina, arìste tra le figlie di Pelia"[295].
L'eroismo più in generale
comporta anche la disponibilità a morire nel caso che non si possa vivere
secondo la propria natura e il proprio destino. Achille non può cedere in
battaglia (ouj lhvxw , non cederò
grida in Iliade
, XIX, 423) né Alcesti può diventare
vedova: "l'areté di Alcesti si staglia sullo sfondo della philopsychìa[296]
dei polloì, dei molti 'cattivi' e cioè privi di valore, che hanno come
unico fine il proprio benessere. Per l'eroe non vale mai quella dira cupido
di sopravvivere, che domina l'animo dei molti. Per lui è possibile vita solo se
perfettamente fedele-responsabile del proprio destino"[297].
In Amore e Morte di
Leopardi il principio e la fine del nostro esistere sono quanto di meglio c'è
nell'universo mondo: due fratelli, due fanciulli bellissimi che vengono in
soccorso dei mortali:" Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/ingenerò la
sorte./ Cose quaggiù sì belle/ altre il mondo non ha, non han le stelle./ Nasce
dall'uno il bene,/nasce il piacer maggiore/che per lo mar dell'essere si
trova;/l'altra ogni gran dolore,/ogni gran male annulla./Bellissima
fanciulla,/dolce a veder, non quale/la si dipinge la codarda gente,/gode il
fanciullo Amore/accompagnar sovente;/e sorvolano insiem la via mortale,/primi
conforti d'ogni saggio core" (vv. 10-16). Non solo la morte ma soprattutto
l'amore era stato ampiamente calunniato dai poeti, come si è visto nel nostro
percorso, e Leopardi, nonostante la sua "vita strozzata" lo riabilita
rappresentandolo come un "fanciullo" che rivitalizza le anime morte degli adulti
poiché "I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto"[298].
Un concetto ribadito, nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri :" Diceva
che i diletti più veri della nostra vita sono quelli che nascono dalle
immaginazioni false; e che i fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli
uonini il niente nel tutto". Nella vita umana c'è la possibilità miracolosa di
ritrovare la forte capacità immaginativa dei fanciulli anche dopo che
l'adolescenza è passata. Quando riceviamo i benefici di Amore, che arriva come
la grazia di Dio, tornano a confortarci "le stupende larve, già segregate dalla
consuetudine umana...E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi
esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo
voto degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia.
Perciocché negli animi che egli si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce per
tutto il tempo che egli vi siede, l'infinita speranza e le belle e care
immaginazioni degli anni teneri"[299].
La Storia del genere umano finisce ricordando gli innumerevoli "obbrobri"
che gli uomini "inesperti e incapaci de' suoi diletti" hanno rivolto contro
Amore ma questo dio non li ode "e quando gli udisse, niun supplizio ne
prenderebbe; tanto è da natura magnanimo e mansueto". La punizione di chi non
comprende Lui e gli altri dei è "di essere alieni anche per proprio nome dalla
grazia di quelli". Così, citando Leopardi, cerchiamo di farci perdonare per
tutte le maldicenze e le maledizioni precedenti contro l'unico dio che rende
degna di essere vissuta questa vita altrimenti squallida e a stento degna di
essere vissuta.
In D'Annunzio il desiderio di morte collegato all'amore è solo
distruttivo. Ne La città morta ( dramma del1896) si trova l'intreccio
amore incestuoso-morte violenta. Qui la voluttà suprema è data dalla
soppressione del corpo amato. Il dramma è ambientato nell'Argolide sitibonda,
vicino alle rovine di Micene ricca d'oro. In questo luogo Bianca Maria legge l'Antigone
e sente di avere il destino dell'eroina greca: di essere consacrata al
fratello Leonardo. Ebbene questo la uccide poiché è innamorato della morte e non
vuole che la sorella si contamini:"Per poterla riamare così, io l'ho
uccisa...Ella è perfetta; ora ella è perfetta. Ora ella può essere adorata come
una creatura divina".
Sentiamo ancora G. B. Conte
sull'amore come malattia:"L'esperienza d'amore come esperienza di sofferenza non
è novità dell'elegia latina. E' questo, anzi, il nucleo generatore di un'ampia
serie di connotazioni che nella tradizione della letteratura d'amore si
dispongono tutt'intorno alla metafora dell'eros-nosos: amore malattia,
amore-ferita, amore-follia, amore-veleno (l'elegia latina, si sa, lavora quasi
sempre su materiale di riuso, mutuandolo consapevolmente dal tesoro della grande
erotica greca; parla, con accenti propri, una lingua comune). Nel caso dell'eros-nosos
la cifra propriamente elegiaca consiste in una particolare declinazione del
paradigma: amore non soltanto è malattia, ma anche e soprattutto malattia
immedicabile: Omnis humanos sanat medicina dolores:/solus amor morbi non
habet artificem
[300]
(Properzio 2, 1, 57 s.). La medicina toglierebbe la malattia, ma insieme
toglierebbe la possibilità stessa di fare poesia in forma elegiaca, giacché la
forma dell'esperienza elegiaca sta anche nella costrittività di questo binomio:
malattia e rifiuto di guarigione. Non a caso la guarigione riuscita ( e la
liberazione dai vincoli dolorosi del servitium ) sarà posta alla chiusa
della più grande raccolta di Properzio, dove significa insieme fine reale
dell'amore e commiato del genere (3, 24, 17 s.)"[301].
Concludo questa serie di considerazioni malevole sull'amore mettendo in guardia
i giovani contro i luoghi comuni, letterari e non, se essi non accrescono la
vita. Autorizzo questa mia avversione attraverso Seneca:"nulla res nos
maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De vita beata
, 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori che il fatto di regolarci
secondo il "si dice". Questi qui presentati sono naturalmente
tovpoi assai nobili, ma bisogna
stare sempre attenti a non vivere "ad similitudinem " invece che "ad
rationem ", imitando piuttosto che ragionando.
Concludiamo il capitolo con alcune
testimonianze sull' Amore come squilibrio e contraddizione insanabile.
Anacreonte confessa la propria follia intermittente nell'amore
dissociato e contraddittorio:"
ejrevw te dhu\te koujk ejrevw-kai; maivnomai kouj maivnomai" (fr. 79
D.), amo e poi invece non amo, sono pazzo e non sono pazzo.
Questi dimetri giambici contengono
un motivo topico che si trova pure nella silloge teognidea ("il mio animo sta in
pena per amor tuo, e non posso odiarti né amarti", vv. 1091-1092) e avrà un
lungo seguito nella letteratura europea.
Molto noto è il distico elegiaco
del carme 85 di Catullo:"Odi et amo . Quare id faciam, fortasse
requiris./Nescio, sed fieri sentio et excrucior .", odio e amo. Forse tu
domandi come faccia questo. Non so, ma sento che accade e mi tormento. "Nota
l'antitesi fra faciam e fieri : quello che accade non è un
qualcosa che Catullo sia in grado di controllare, ma qualcosa che accade e che
lui può solo subire, sentire nelle sue conseguenze dolorose (non a caso il poeta
dice excrucior , utilizzando una forma medio-passiva, anziché usare il
riflessivo me excrucio , che porrebbe con maggior vigore l'accento sul
suo ruolo di soggetto attivo). L'analisi razionale non conduce al dominio dei
sentimenti ma solo alla loro osservazione, all'ammissione di trovarsi in loro
balia".[302]
L'ossimòro condensa la
contraddizione lacerante del poeta che dissocia l'amare dal bene
velle: la componente sensuale da quella affettiva, come chiarisce bene il
distico finale del carme 72 :"Qui potis est?, inquis. Quod amantem iniuria
talis/ cogit amare magis, sed bene velle minus "(vv. 7-8), come può essere?,
chiedi. Poiché una tale offesa costringe l'amante ad amare di più ma a voler
bene di meno.
Su questa linea Paolo Silenziario,
autore che si colloca tra la tarda antichità e l'inizio della cultura bizantina
(VI sec. d. C), in uno dei suoi circa ottanta epigrammi rimasti nell'
Antologia Palatina considera l'oltraggio della donna che gli ha sbattuto la
porta in faccia aggiungendo parole ingiuriose come una forma di
uJvJJJvJvbri" che eccita ancora di
più il suo folle amore:"uJvbri" ejmh;n
ejrevqei ma'llon ejrwmanivhn" (V, 256)
Il poeta di Sirmione nel carme 8
rivolge un'apostrofe a se stesso per trovare la forza di uscire dallo squilibrio
che lo tormenta:"Miser Catulle, desinas ineptire " (v. 1), povero Catullo
smetti di essere folle.
"La logica che domina la poesia
d'amore di Catullo è quella della contraddizione: nel compiaciuto e insistente
ricorso all'autocommiserazione, che lo spinge addirittura a trasferire il
proprio ego in personaggi femminili (Arianna, Berenice)...Nell'ambito
della logica della contraddizione è scontato che si debba assistere a tentativi
di conciliazione degli opposti: nel c. 85 l'antitesi fra bene velle e
amare si condensa nell'ossimorico odi et amo , mentre nel c. 92 a
Lesbia, che parla male di Catullo fa da pendant un Catullo che la copre
d'improperi e tuttavia l'ama"[303].
La logica aperta al contrasto è
tipica dei Greci.
Questa logica che non esclude la
contraddizione secondo S. Mazzarino è tipica della cultura aristocratica dei
Greci:"La nostra logica è rettilinea, astratta: quella dei Greci è sempre aperta
al contrasto. Nell'Oresteia di Eschilo
Divka Divkai (xymbaleî ) "Dika
si scontrerà con Dika"[304]:
ci possono essere due Dikai, due Giustizie nel caso dell'Oresteia ,
quella "matriarcale" di Clitennestra ( e delle Erinni, a cui il ghénos di
Eschilo non può sacrificare) contro quella "patrilinea" di Oreste (e di Apollo,
il dio degli Alcmeonidi legati al ghénos Eupatrida di Eschilo). Così in
Erodoto: c'è la "tirannide" dei Greci nemica di Dike; ma c'è anche la
"tirannide" di Deioce per cui i Medi hanno kòsmos ed eunomìa , e
la "tirannide" di Ciro, dalla quale i Persiani ricevono "libertà", eleutherìa
"[305].
Più avanti (p. 329) l'autore de Il pensiero storico classico
aggiunge:"Tucidide esprime una società aristocratica, la quale svolge sino alle
estreme conseguenze la capacità greca di contemplare teoricamente le aporie del
lovgo" , ed insomma fonda il suo
pensiero sullo ajntilogei'n "parlare
in sensi opposti", egualmente validi. Dobbiamo ribadire questo punto: per la
società aristocratica tucididea non ci può essere una
Divkh sola:
Divkh si scontra contro
Divkh, come aveva già detto Eschilo;
"utilità" si oppone a "giustizia", come nel tucidideo dialogo dei Melii. La
cultura borghese di Socrate ha invece un punto fermo: e lo può trovare soltanto
nell'identificazione dell'utile col giusto, nella presenza di una giustizia
assoluta".
Il tema
misei'n-filei'n
prosegue in
Ovidio
il quale negli Amores scrive:"Odi,
nec possum cupiens non esse quod odi " (II, 4, 5) odio e non posso non
desiderare quello che odio.
Nei Remedia amoris il poeta di Sulmona rinnega questo atteggiamento
tipico di anime poco fini:"sed modo dilectam scelus est odisse puellam.;/exitus
ingeniis convenit iste feris./ Non curare sat est ; odio qui finit amorem,/aut
amat aut aegre desinet esse miser " (vv. 655-658), ma è un delitto odiare
una ragazza amata fino a poco tempo prima;/una conclusione del genere si addice
ad animi rozzi./Basta non curarsene; chi vuole finire l'amore con l'odio/o ama o
con fatica smetterà di essere disgraziato.
Su questo poemetto torneremo, a lungo, tra poco, nella prossima stazione.
Ritroviamo la compresenza di stati d'animo contraddittori nell'ondeggiare
psicologico e sentimentale del Petrarca:"Pace non trovo e non ho da far
guerra/ e temo e spero, et ardo e son un ghiaccio,/e volo sopra 'l cielo e
giaccio in terra/e nulla stringo e tutto 'l mondo abbraccio...Pascomi di dolor,
piangendo rido,/egualmente mi spiace morte e vita:/in questo stato son, Donna,
per vui" (Canzoniere , CXXXIV).
Saltiamo a D'Annunzio e al già citato Trionfo della morte
dove troviamo le coppie amore-odio e amore-morte.
Questo romanzo
(de1894) è il manifesto sensuale
del superuomo o piuttosto della superfemmina:
Ippolita Sanzio, amante e nemica del protagonista Giorgio Aurispa, alter ego
dell'autore.
La donna aveva quel genere di bellezza che flagella gli uomini e li fa
desiderosi. L'uomo sa che lei è volgare e che è lui a vestirla di idealità:"
sotto al sentimento da lei suscitato si moveva quel medesimo odio: il mortale
odio dei sessi. Ella è dunque la Nemica,
pensò Giorgio. "Finché vivrà, finché potrà esercitare sopra di me il suo impero,
ella mi impedirà di porre il piede su la soglia che scorgo..Per rivivere e per
conquistare, bisognerebbe che io mi affrancassi dall'amore, che io mi disfacessi
della Nemica"[306].
Ippolita operava su di lui un'ossessione carnale. Giorgio, "come il poeta dell'Epipsychidion
[307]
, in un'esistenza anteriore non aveva forse amato Antigone?"
(p.338). Ma questo non bastava
poiché "ancora una volta la Nemica esperimentava su di lui trionfalmente, il suo
potere" (p. 339).
Dalla dialettica di ostilità e desiderio sorgeva una lussuria più acre e
penetrante. Aurispa pensava: "La vita interiore è stata sempre ed è sempre in
lei fittizia. Interrotta la mia suggestione, ella ritorna alla sua natura, ella
ridiviene una femmina, uno strumento di bassa lascivia. Nulla potrà mutare la
sua sostanza, nulla potrà purificarla. Ella ha il sangue plebeo, e nel sangue
chi sa quali eredità ignobili! Ma io non potrò mai sottrarmi al desiderio
ch'ella ha acceso in me. Non potrò mai estirparla dalla mia carne. E da ora in
poi non potrò vivere né con lei né senza di lei. So che debbo morire. Ma la
lascerò io a un successore? L'odio contro la creatura inconsapevole non gli si
era mai sollevato con tanto impeto "(p.378). Abbiamo già detto che i due amanti
finiranno precipitando "nella morte avvinti" (p. 404).
Ne Il fuoco ( del 1900), il romanzo che costituisce il
manifesto letterario del superuomo, la Foscarina, la grande attrice amante di
Stelio Effrena l'imaginifico, è altresì la sua nemica, avvelenata
dall'arte:"s'erano congiunti come in una mischia; avevano sentito
nella saliva il sapore del sangue. D'improvviso, avevano ceduto a un impeto di
desiderio come a una cieca volontà di distruggersi. L'uno aveva scosso la vita
dell'altra come per isvellerla dalle infime radici. Spasimando avevano sentito
l'acutezza dei denti nei loro baci crudeli...V'erano azioni da compiere pel
mondo, conquiste da proseguire, sogni da esaltare, destini da sforzare, enigmi
da tentare, lauri da cogliere. V'erano cammini laggiù, misteriosi
d'imprevedibili incontri...Ma egli era là, nella carcere del suo corpo, giacente
sotto il peso della donna disperata...La volontà dell'una diceva:"Io ti amo e ti
voglio tutto per me sola, anima e corpo". La volontà dell'altro diceva:"Io
voglio che tu mi ami e mi serva, ma non posso rinunziare nella vita a nessuna
cosa che ecciti il mio desiderio". La lotta era ineguale e atroce"[308].
In conclusione :"La donna impara
ad odiare nella misura in cui disimpara a sedurre"[309].
L'uomo forse si avvia piuttosto a
morire come abbiamo visto nel caso di Alcibiade.
Dal momento che si tratta di
follia ora passiamo alla psicoanalisi, non senza l'antichità.
Freud sostiene che l'atto
sessuale contiene le due pulsioni originarie, Eros e Distruzione, già
individuate da Empedocle di cui l'inventore della psicoanalisi si
riconosce debitore :" Empedocle di Acraga (Agrigento), nato all'incirca nel 495
a. C., si presenta come una figura tra le più eminenti e singolari della storia
della civiltà greca...il filosofo, dunque, insegna che due sono i princìpi che
governano ciò che accade nella vita dell'universo e nella vita della psiche, e
che essi sono in perpetua lotta tra loro. Egli li chiama
filiva (amore o amicizia), e
nei'ko" (discordia o odio). Uno di
questi poteri-che in sostanza sono per lui "forze motrici naturali, e niente
affatto intelligenze con la consapevolezza di un fine"-tende ad agglomerare in
unità le particelle originarie dei quattro elementi, mentre l'altro, al
contrario, mira a far recedere queste mescolanze e a separare le une dalle altre
le particelle originarie degli elementi...I due princìpi fondamentali di
Empedocle-filiva e
nei'ko"- sia per il nome, sia per la
funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie
Eros e Distruzione , la prima delle quali tende ad agglomerare
tutto ciò che esiste in unità sempre più vaste, mentre l'altra mira a dissolvere
queste combinazioni e a distruggere le strutture cui esse hanno dato luogo"[310].
La teoria di Empedocle può avere influenzato il proemio del De rerum natura
di Lucrezio:" E' possibile che nella contrapposizione fra Venere, dea della
pace, e Marte, dio della guerra, e nella possibilità dell'almeno temporanea
sopravvento del principio "positivo" su quello "negativo" si debba avvertire
un'influenza della teoria empedoclea relativa alla vicenda ciclica degli
elementi, dominata alternativamente dai due principi cosmici di Amicizia (Filiva)
e Contesa (Nei'ko" )"[311].
Il discorso viene ripreso in uno
scritto successivo:"Dopo molte esitazioni e oscillazioni ci siamo decisi ad
ammettere soltanto due pulsioni fondamentali: l'Eros e la pulsione di
distruzione . Meta della prima di queste due pulsioni è stabilire unità
sempre più vaste e tenerle in vita: unire in vita dunque; meta dell'altra, al
contrario, è dissolvere nessi e in questo modo distruggere le cose. Nel caso
della pulsione di distruzione possiamo supporre che il suo fine ultimo sia
di portare il vivente allo stato
inorganico...Nelle funzioni biologiche le due pulsioni fondamentali agiscono
l'una contro l'altra oppure si combinano insieme. Così l'atto del mangiare è
una distruzione dell'oggetto con il fine ultimo di incorporarlo, l'atto
sessuale è un'aggressione che si propone la più profonda delle unificazioni.
Da questa cooperazione e da questo contrasto delle due pulsioni fondamentali
traggono origine i molteplici e variopinti fenomeni dell'esistenza. L'analogia
delle nostre due pulsioni fondamentali si estende al di là del campo vivente
fino a raggiungere la sfera inorganica dominata dalla coppia degli opposti
attrazione-repulsione"[312].
L'amore in definitiva, come la
vita, è conciliazione di contrari:"to;
ajntivston sumfevron kai; ejk tw'n diaferovntwn kallivsthn aJrmonivan"[313]
, ciò che contrasta concorre e dai contrari bellissima armonia; questa è un
grande approdo, però non è evidente a tutti:"aJrmonivh
ajfanh;" fanerh'" kreivttwn"[314],
l'armonia invisibile è più forte di quella visibile. Lo stesso medico Erissimaco,
che nel Simposio di Platone critica Eraclito, dice che ci sono
due Amori (to;n kalovn te kai; aijscro;n e[rwta,
186d), uno bello e uno turpe, e che il primo costituisce quella
ajrmoniva che è
sumfwniva (consonanza) e
oJmologiva (accordo) le quali sono
il fine di ogni attività. JArmoniva
è formato sulla radice ajr-/aJr
dalla quale deriva anche ajrevskw,
piaccio, ed è imparentata etimologicamente con ars che significa dunque
l'abilità di connettere (ajrarivskein)
in modo adeguato e da piacevole.
Per concludere questa sezione diamo ancora
qualche testimonianza sullo squilibrio amoroso che ostacola il lavoro agricolo.
Teocrito nel X idillio
contrappone la savietà dell'infaticabile mietitore Milone non innamorato alla la
cecità mentale di Buceo che, pervaso da amore, cerca di giustificarsi
affermando:"tuflo;" d& oujk aujto;" oJ Plou'to"
,-ajlla; kai; wJfrovntisto" [Erw"" (vv. 19-20), cieco non è solo Pluto,
ma anche Eros irriflessivo.
Virgilio alla fine della
IV Georgica contrappone la serietà vincente di Aristeo alla follia
perdente dell' incauto amante preso da subita dementia :" L'amore è
forza ma dementia (v. 488: cum subita incautum dementia cepit amantem
)"[315],
quando una pazzia improvvisa prese l'incauto amante. La stessa Euridice
strappata all'amante gli grida:"Quis et me...miseram et te perdidit, Orpheu,/
quis tantus furor? "(vv. 494-495), quale...quale follia così grande ha
perduto me e te, Orfeo?
Abbiamo visto che G. B. Conte
interpreta la figura del contadino Aristeo "scrupoloso e pio" come positiva e
quella dell'amante Orfeo che disobbedisce agli dèi come negativa:" Non si può
far nulla contro la volontà degli dèi; il trionfo su di loro è ingannevole.
Bisogna invece seguirne scrupolosamente i voleri, riconoscerne la divinità e il
potere. E ciò non è senza evidente accordo con l'ideologia delle Georgiche
"[316].
I motivi comuni a quest'opera e a
tutte le rappresentazioni idealizzate della vita rustica "corrispondono al
disegno del principe, che fin dall'epoca dello scontro con Antonio aveva
manifestato la sua intenzione di risollevare le sorti dell'agricoltura italica
duramente provata dalle guerre civili e di creare un florido ceto di piccoli
proprietari terrieri, giustamente considerati un fattore importante di stabilità
sociale."[317].
Simile funzione ha l'elegia proemiale del II libro di Tibullo "nella
quale il poeta prende a pretesto la festa rurale degli Ambarvalia per
tessere le lodi del lavoro dei campi: l'agricoltura ha consentito all' uomo di
abbandonare le abitudini nomadi e d'incivilirsi, lo ha spinto ad apprendere
l'arte di costruirsi una dimora stabile e di procurarsi del cibo"[318].
Il latino dunque è anche la
letteratura del potere: ebbene durante l'ultimo (2001) Certamen Horatianum
di Venosa Ivano Dionigi ha detto che il compito di noi antichisti sarà
quello di imparare a utilizzare questa poesia e lingua per difenderci dal
potere. Latino e greco infatti servono comunque a trovare e definire la nostra
identità linguistica e culturale ed è soltanto con la forte coscienza della
propria identità che questa può essere difesa e magari confrontata con le altre.
note:
[1] Si pensi a Io la fanciulla trasfigurata in mucca
del Prometeo incatenato, tormentata da un assillo appunto (oi\stro~
, v. 566) e fissata dallo sguardo del pastore Argo dai diecimila occhi:
“ E subito l'aspetto e la mente furono/stravolti: divenni cornigera,
come vedete, e punta/da un assillo dall'acuto morso, con salti
furibondi/balzai verso la corrente Cercnea dolce da bere/e alla fonte di
Lerna: e il bovaro nato dalla terra/Argo violento nell'ira mi scortava/
spiando i miei passi con occhi fitti” (vv. 673-679).
[2] Le avventure pastorali di Dafni e Cloe (II-III
sec. d. C.) , II, 7.
[3]J. P. Vernant, L'individuo, la morte, l'amore
, p. 118.
[4] Pindaro, Nemea X , vv. 72-73. E' la grande
ode di Castore e Polluce, un esempio sublime di amore fraterno. Lo
scontro invero avviene tra i Dioscuri e i due fratelli, loro cugini,
Ida e Linceo. Questi muoiono e pure Castore, figlio di Tindaro e Leda,
Ma Polluce figlio di Leda e Zeus, cedette al fratello parte della
propria divinità immortale.
[5] Pollh; me;n
ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo" (Ippolito , 1)
[6] Arcaico per vivus.
[7] Conte, Scriptorium classicum , 5, p. 18.
[8] Lucrezio, La Natura Delle Cose, testo e
commento di Ivano Dionigi, p. 320.
[9]Lucrezio, La Natura Delle Cose , commento di
I. Dionigi, p. 408.
[10] J. Hillman, Il piacere di pensare.
conversazione con Silvia Ronchey, pp. 66-67.
[11] Agamennone, 177.
[13]G. B. Conte, Introduzione a Lucrezio, La Natura
Delle Cose , p. 7.
[14] G. G. Màrquez, L'amore ai tempi del colera
p. 350.
[15] Si tratta di Lavinia che era promessa sposa di
Turno ma sposerà Enea.
[16]Edito con i primi due nel 23 a. C.
[17] E. Morin, L'identità umana, p.19 n. 6.
[18] E. Morin, op. cit., p. 94.
[19]Edito nel 13 a. C.
[20]A. La Penna, Orazio, Le Opere, Antologia ,
p. 438.
[21] glukei'a=dolce.
[22]Ho colto diversi suggerimenti su questa Ode da
una conferenza tenuta da Paolo Fedeli durante il XV Certamen
Horatianum di Venosa (maggio 2001).
[23]H. Hesse, La Cura , p. 73.
[24] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 477.
[25]Cfr. perfide
in Catullo 64, 133 già visto; più avanti lo troveremo in bocca a Didone
in Eneide IV 305.
[26]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 484.
[27]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 485.
[28]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 480, n. 2.
[29] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 480, n. 2.
[30] L. Tolstoj, Anna Karenina, p. 310.
[31] Pasquali, op. cit., p. 485. Gli Epodi
furono pubblicati intorno al 30 a. C.
[32] Odi , I, 6, 6.
[33] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 481.
[34] G. Pasquali, Orazio lirico, p.482.
[35] Shakespeare,
Timone d'Atene, IV, 3.
[36] G. Pasquali, Orazio lirico, p.483.
[37] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 485.
[38] Soggetto, posseduto dalle Ninfe appunto.
[39] Le ninfe indulgenti risero.
[40] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 485 n. 1.
[41] La Penna, Orazio, Le opere, Antologia, p.156.
[42]Cfr. Meleagro in Anth. Pal.
V, 180, 7-8.
[43] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal del
1904, p.51.
[44] L'amore ai tempi del colera , p. 186.
[45] Op. cit., p. 487, n. 1.
[46] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 489.
[47]G. B. Conte, (a cura di) Scriptorium Classicum
2, p. 166.
[48] G. Chiarini La rappresentazione teatrale
in Lo spazio letterario di Roma antica, volume II, p. 162.
[49]G. B. Conte, (a cura di) Scriptorium Classicum
2, p. 165.
[50]Se ne ricorderà Valerio Flacco (I sec. d. C.) che
negli Argonautica definisce saevus l'amor che
incalza (urget ) Medea spingendola verso Giasone (VII, 307-308).
[51] G. Flaubert, Madame Bovary,
p. 177.
[52] Leggi, 701a
[53]Nietzsche, Di là dal bene e dal male, p.
26.
[54] N. Hawthorne, La lettera scarlatta, p.
180.
[55]J. P. Vernant, Tra mito e politica , p.
136.
[56]L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877) , p.
711.
95
Trad. it. Lerici, Milano, 1964.
[58]Il mestiere di vivere , 9 settembre 1946.
[59] Il mestiere di vivere ,18 novembre 1945.
[60]Il mestiere di vivere, 28 dicembre 1947.
[61] "Fabula
iucundi nulla est sine amore Menandri",
nessuna commedia del piacevole Menandro è senza amore, ricorda Ovidio (Tristia
, II, 369).
[62]M. Kundera, L'immortalità , p. 169.
[63] Medea, p. 203.
[64]A. La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio, Le
Opere, Antologia , p. 357.
[65]L'uomo senza qualità , p. 270.
[66]Lo spazio letterario di Roma antica, 1, p.
153.
[67] Fantasia dell'inconscio e altri saggi sul
desiderio, l'amore, il piacere , Mondadori, Milano, 1978. Tratto da
Lunario dei giorni d'amore , pp. 427-428.
[68] W. Reich, Psicologia di massa del fascismo,
p. 43.
[69] G. Morandini, La voce che è in lei, Bompiani,
1997, p. 16. La tesi è di Alessandra Neri, alumna optima .
[70] G. Flaubert, Madame Bovary,
p. 74.
[71]Guerra e pace , p. 855.
[72] G. B. Conte, Scriptorium Classicum 3, p.
262.
[73]. A. La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio,
Le Opere, Antologia , p. 352
[74] Che nella fattispecie sono in particolare le
donne innamorate.
[75] E. Morin, op. cit., p. 49.
[76]A. La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio, Le
Opere, Antologia , p. 364.
[77]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 365.
[78] Appellata est enim ex viro virtus: viri autem
propria maxime est fortitudo, cuius munera duo sunt maxima: mortis
dolorisque contemptio " (Cicerone , Tusc., 2, 43), la
virtù infatti deriva da vir ed è soprattutto propria dell'uomo la
fortezza i cui principali compiti sono due: il disprezzo della morte e
del dolore. Enea disprezzerà sì la morte e il dolore, ma quelli
dell'amante Didone.
[79] Eneide I, 588-593.
[80] Odissea, VI, 232-235)
[81]J. P. Vernant, Tra mito e politica , pp.
210-211.
[82] Giordano, Piazzi, Tumscitz, Integros accedere
fontis , Cappelli, Bologna, 1966, p. 105.
[83]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 373.
[84] Factorum et dictorum memorabilium libri ,
VI, 1.
[85]J. P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci
, p. 299.
[86]Jaeger, op. cit., p. 285.
[87]Paradiso , XV, 97 e 99.
[88] J. Hillman, Il piacere di pensare, p. 52.
[89] J. Hillman, Variazioni su Edipo, p. 76.
[90] E. Morin, op. cit., p. 69.
[91] Seneca, De ira , II, 21.
[92]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 358.
[93]A. La Penna-C. Grassi, op.
cit., p. 356.
[95]Ep. , I, 11, 27.
[96]F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli , p.
57.
[97] E. Morin, La testa ben fatta, p. 37.
[98]A. Taylor, Platone , p. 475.
[99] M. Fusillo, Lo spazio letterario della Grecia
antica , I, 2, p. 124.
[100] M. Fusillo, Lo spazio letterario della Grecia
antica , I, 2, p. 122.
[101]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 361.
[102] E' l'episodio imitato da Dante nella selva dei
suicidi (Inferno, XIII; qui il terrore è limitato a "ond'io
lascia la cima cadere/e stetti come l'uom che teme", vv. 44-45.
[103]64, 133.
[104]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 425.
[105]Inferno , XXVI, 80-81.
[106]Jaeger, op. cit., p. 285.
[107]p. 167.
[108]Plutarco,
Sull'amore (47, 751D)
[109] Op. cit., p. 428.
[110] G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p.
271.
[111]G. B. Conte, Virgilio, Il genere e i suoi
confini , p. 89.
[112] G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p
274.
[113] Studi su Dante, p. 73.
[114] La nascita della tragedia , IX capitolo.
[115] Op. cit. p. 441
[116]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 408.
[117] A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 446.
[118]Virgilio , p. 94.
[119] Decameron , V, 8.
[120] M. Zambrano, L'uomo e il divino, p. 187.
[121] E. Auerbach, Studi su Dante, p. 33.
[122]I migliori editori espungono questo verso
considerandolo un'interpolazione ricavata dal molto simile IX 225).
[123]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 481.
[124]L'interpretazione dei sogni , p. 23.
[125]Freud, Il sogno e la sua interpretazione ,
pp. 45 e 53
[126]Freud, op. cit., p. 59
[127] E. Auerbach, Studi su Dante, p.12.
[128] Plutarco, Vita di Alcibiade , 16.
[129]Curiosità estetiche , trad. it. in Il
Sistema Letterario , Ottocento , di Guglielmino/Grosser,
Principato, Milano, 1992, p. 1150.
[130]Plutarco,
Vita di Alcibiade , 37.
[132]Baudelaire, op. cit., p. 1151.
[133]D'Annunzio, Il Piacere , Mondadori,
Milano, 1990, pp. 42-43.
[134]D'Annunzio, Il Piacere , p. 278.
[135]Plutarco, op. cit., 23, 4- 5.
[136]Op. cit., 1, 4.
[137] S. Kierkegaard, Enten-Eller (del 1843),
Tomo Primo, p. 158.
[138]S. Kierkegaard, Enten-Eller (del 1843),
Tomo Quarto trad. it. Adelphi, Milano, 1981, p. 40..
[139]S. Kierkegaard, Diario del seduttore
(1843) , trad. it. Rizzoli, Milano, 1974, pp. 23 e 139
[140] S. Kierkegaard, In vino veritas (1845),
p. 92.
[141]Baudelaire, op. cit., p. 1151.
[142]Plutarco, op. cit. , 38.
[144]Plutarco, op. cit., 38, 4.
[145]Lisia, XII, 19.
[148]Annales , XVI, 18
[149]Plutarco, op. cit.,
38, 6.
[150]Op. cit., p. 1152. I mirmidoni sono i soldati di
Achille.
[151]Erodoto, V, 92.
[152] F. Dostoevkij, Delitto e castigo, pp. 290
sgg.
[153] Ivan Gončarov, Oblomov, del 1859, p. 124
[154]VI, 15.
[156]S. Kierkegaard, Enten-Eller , Tomo Primo,
, trad. it. Adelphi, Milano, 1976, p. 172.
[157]Si vede
dall'episodio della moglie di Agide, Timea che Alcibiade sedusse mentre
il marito era assente per una spedizione militare. Ella rimase in cinta
e non lo negò(" Timaivan ga;r
th;n [Agido" gunai'ka tou' basilevw" strateuomevnou kai; ajpodhmou'nto"
ouJvtw dievfqeiren, wJvste kai; kuvein ejx jAlkibiavdou kai; mh; ajrnei'sqai"),
anzi in privato chiamava "Alcibiade" il figlio il cui nome ufficiale era
Leotichide. Il seduttore soleva dire che lo aveva fatto, non per
offendere Agide nè perché vinto dal piacere, ma perché i suoi
discendenti regnassero su Sparta:"oJvpw"
Lakedaimonivwn basileuvswsin oiJ ejx aujtou' gegonovte""(Plutarco,
op. cit. 23)
Si vede dunque da questo episodio che
la "passion predominante" del nostro personaggio era comandare e che il
sedurre era strumentale al fine di dominare. Insomma "luxuriosus,
dissolutus, libidinosus "(Cornelio Nepote, op. cit
, 1) ma prima di tutto ambizioso. Di
lui in effetti Tucidide scrive, tra l'altro:"kai;
mavlista strathgh'saiv te ejpiqumw'n" ,
VI, 15, e bramando al di sopra di tutto comandare. Il che non toglie che
fosse un seduttore di razza.
[158]Don Giovanni , I, 5. Un collegamento con
il Don Giovanni , e con Le nozze di Figaro , ugualmente di
Mozart-Da Ponte, viene fatto anche per Andrea Sperelli:"Egli aveva in sé
qualche cosa di Don Giovanni e di Cherubino: sapeva essere l'uomo di una
notte erculea e l'amante timido, candido, quasi verginale.( Il
piacere , p. 19)
[159]Baudelaire, op. cit., p. 1152.
[160]Don Giovanni di Mozart-Da Ponte, II, 19.
[161] Trad. it., Rizzoli, Milano, 1974, p. 22.
[162]Alcibiades , 10, 6.
[163]Tucidide, VI,
17.
[164] J. de Romilly, Alcibiade
, p. 23.
[165]Cfr. Aristofane, Rane , 1423.
[166]Pericle, di cui Plutarco (Vita di Pericle
, 3) racconta che la madre Agariste, prossima a partorirlo, sognò di
generare un leone.
[167]Tucidide, II, 41.
[168]O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray , in
Wilde Opere , trad. it. Mondadori, Milano, 1982, p. 32.
[169]Arthur Schnitzer, Il ritorno di Casanova ,
trad. it., Bompiani, Milano, 1982, pp. 1-2.
[170] Plutarco, Vita di Alcibiade , 16.
[171]Si noti il nesso allitterante
[172]Forma sincopata di extinxissem .
[173] Nel mio commento all'Antigone (Loffredo,
Napoli 2001) di Sofocle ho fatto una scheda che raccoglie le
testimonianze degli echi letterari di questo culto solare .
[174]I sepolcri , v. 71-72
[175] Cfr. Timeo 70 b, Repubblica 560b
[176]Intervista a Saul Bellow nel quotidiano "la
Repubblica "del 17 agosto dal titolo Odio il sussiego europeo
(p. 42) .
[177]=exoriaris , seconda persona del
congiuntivo, come sequare =sequaris .
[178]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 499.
[179]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 499.
[180]Foscolo, Dei Sepolcri , vv. 121-122.
[181]S. Freud, L'interpretazione dei sogni , p.
327.
[182] G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p.
275.
[183]Che poi era suo padre
[184]fr.
359 Nauck.
[185] Dove era dovuto andare nel 41 d. C. La
Consolatio è del 42 o 43 d. C.
[187]G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p.
276.
[188]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. XXVIII.
[189]Una città occupata assomiglia a una ragazza che
ha perduto il suo onore. Guerra e pace , p. 1311.
[190]G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p.
278.
[191] Shakespeare, Giulio Cesare , III, 2.
[192] J. Hillman, Il piacere di pensare , p.
66.
[193]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 358.
[194] Interea medium Aeneas iam classe tenebat/certus
iter fluctusque atros aquilone secabat, vv. 1-2, intanto Enea già
con la flotta teneva risoluto la rotta in mezzo al mare, e sotto la
tramontana fendeva i flutti scuri. Il primo verso è echeggiato dal primo
della Commedia di Dante: Enea e Dante sono entrambi in fuga dal
peccato, ma il secondo non è ancora certus.
[195] Storiografo vissuto alla corte di Nerone.
[196]L. Tolstoj, Anna Karenina , p. 148.
[197] M. Fusillo, op. cit., p. 129.
[198]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 359 e p. 561
[199]Dante, Inferno , V, 61.
[200]Che cos'è un classico? , in T. S. Eliot,
Opere , p. 966.
[201] Cioè prima di farsi monaco per sempre.
[202] A stento si conteneva nel suo petto.
[203] Convertì il piacere in dolore.
[204] Traggo questo brano de Le vite dei Santi
Padri di Domenico Cavalca da Lunario dei giorni d'amore a cura di G.
Davico Bonino, p. 135.
[205]Cfr. VII, Le Talisie ,
22.
[206]B. Snell, La cultura greca e le origini del
pensiero europeo , p. 392 e ss.
[207] B. Snell, Poesia e società, p. 152.
[208] E' il nome del bovaro che nell'Idillio I canta
la morte di Dafni.
[209] Dafni appunto
[210] Max Pohlenz, L'uomo greco, p. 555.
[211]Max Pohlenz, L'uomo greco, p. 556.
[212] A. La Penna, Orazio, Le Opere. Antologia
, p. 16.
[213] Plutarco , Vita di Solone , 27.
[214] In Delitto
e castigo di Dostoevskij, "gli uomini si dividono in -ordinari- e -straordinari-.Quelli
ordinari devono vivere nell'obbedienza e non hanno diritto di violare la
legge, perché essi, vedete un pò, sono appunto ordinari. Quelli
straordinari, invece, hanno il diritto di compiere delitti d'ogni specie
e di violare in tutti i modi la legge, per il semplice fatto d'essere
straordinari"(p.290).
[215]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. XIX.
[216] Nato nel 76 a. C. fu console nel 40, e, come
proconsole, nel 39 sconfisse i Dalmati. Fu anche autore di tragedie e di
una storia delle guerre civili. Orazio gli dedicò un'Ode alcaica (II,
1). S. Mazzarino definisce Asinio Pollione "l'ufficiale più
indipendente e acuto" di Giulio Cesare. Dalle sue Historiae,
iniziate verso il 30 a. C. verrebbe fuori il Cesare ricco di pathos del
dado è tratto; mentre lo stesso Cesare "scrittore "tucididèo" ossia
razionale, non poteva intendere abbastanza i momenti irrazionali della
sua stessa impresa" (Il pensiero storico classico, 2, p. 200).
[217]In Stob. 4, 20, 66.
[218]Ovidio, Remedia amoris , vv. 143-144.
[219]Ovidio, op. cit., vv. 199-200.
[220]Virgilio, il genere e i suoi confini , p.
20.
[221]Conte, op. cit., p. 28.
[222]B. Snell, La cultura greca e le origini del
pensiero europeo , pp. 396-397.
[223]G. Ugolini, Lexis , p. 241.
[224]Amore
[225] Da confrontare con "tum pessima tigris "
e " tum saevos aper " visti sopra ( Georgica III , v. 248)
[226] Elegia di Madonna Fiammetta , cap. 1.
[227]Vissuto tra V e VI secolo d. C.
[228]Vissuto nel V secolo d. C. ha scritto le
Dionisiache , un poema di 48 libri e 21000 esametri. Museo dipende
da Nonno per la tecnica del verso, ma non certo per la lunghezza del suo
epillio che consta di soli 343 esametri.
[229] Nato ad Antiochia, vissuto fra il 334 e il 400
d. C., ha scritto Rerum gestarum libri XXXI che andavano dalla morte di
Nerva (96 d. C.) al 378 d. C. (morte dell'imperatore Valente). Ci sono
arrivati i libri XIV-XXI, dal 353 al 378 d. C. Il suo eroe è
l'imperatore Giuliano, quello che i cristiani infamano chiamandolo
"l'apostata".
[230]Il mestiere di vivere, 19 gennaio 1938.
[231]Gian Biagio Conte,
Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in Poets And
Critics Read Vergil, Yale University Press.
[232] Poeta dell'età augustea, ammiratore di Tibullo.
[233]Gian Biagio Conte,
Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in Poets And
Critics Read Vergil, Yale University Press., p. 58 s.
[234]G. B. Conte, op. cit., n. 30, p. 205.
[236]Sofocle , p. 99.
[237]Goethe, Faust , seconda parte, atto
quinto.
[238] Il piacere di pensare , pp. 134-135.
[239]Gian Biagio Conte,
Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in Poets And
Critics Read Vergil, Yale University Press., p. 63.
[240] De providentia, 4, 10.
[241]Svevo, La coscienza di Zeno , p. 318.
[242]Dino Buzzati, Un Amore , pp. 112 e 113.
[243]W. Jaeger, Paideia 1, p. 129.
[244] Nell'Odissea l'aggettivo è riferito alla
morte:" aijpu;n oJvleqron",
I, 11.
[245] Cfr. 72, 7-8.
[246]Nietzsche, Di là dal bene e dal male , p.
157.
[247]47 a. C.
[248]Da "San Giorgio in casa Brocchi" in Le novelle
del ducato in fiamme, ristampato in I racconti. Accoppiamenti
giudiziosi , Milano, 1963, pp. 97-100.
[249]Jaeger, Paideia 1, p. 121.
[250]Archil. fr. 118 D; Hes. Theog.
121.
[252]Pind. Pyth. I,
25.
[253] è amaro e dolce e rapace e desiderato e crudele,
1353.
[254]C. M. Bowra, La lirica greca da Alcmane a
Simonide , p. 265
[255] Venere, naturalmente.
[256] Sempre Venere.
[257]C. Magris, L'anello di Clarisse , p. 17.
[258]Lucrezio, LA NATURA DELLE COSE, BUR, Milano,
1997, p. 496.
[259]Si noti l'allitterazione con la p che
sembra preludere all'esplosione della successiva tempesta marina.
[260]Traduco così, come del resto ha già fatto Luca
Canali nel testo commentato da Dionigi citato sopra, poiché a parer mio
l'espressione di Lucrezio risente di quella eschilèa:"
pontivwn te kumavtwn-ajnhvriqmon
gevlasma" (Prometeo incatenato , 89-90),
innumerevole sorriso delle onde marine.
[261]Quello delle vele, quasi fossero donne sfacciate.
[262]Op. cit., p. 493.
[263]M. Bettini, La letteratura latina 2 , p.
453.
[264] La letteratura latina, 2, p. 453.
[265] Quare aliqua incommoda bonis viris accidant,
cum providentia sit . E' il sottotitolo, probabilmente autentico,
del De providentia: perché agli uomini buoni capitano delle
disgrazie dal momento che c'è la provvidenza.
[266] A. Traina (a cura di) La provvidenza, p. 8.
[267] La Bibbia di Gerusalemme, Giobbe , 5.
[268] J. Roth, Giobbe, p. 19.
[270] La Penna-Grassi, Virgilio. Le opere.
Antologia , p. 36.
[271] Posidonio di Apamea (135-51 a. C.) è il maggior
esponente dello stoicismo medio. Fu discepolo di Panezio e maestro di
Cicerone.
[272] I Promessi sposi cap. XXII
[273] Psicanalisi della società contemporanea ,
p. 299.
[274]La Penna (a cura di) Orazio, Le Opere,
Antologia , p. 162.
[275]Fr. 7 D., v. 10:"tlh'te
gunaikei'on pevnqo" ajpwsavmenoi ", sopportate, respingendo il
lutto femmineo.
[276]"Feminis lugere honestum est, viris meminisse
" Germania (27, 1), per le donne è bello piangere, per gli
uomini ricordare.
[277] Tomo II, pp. 832-833.
[278]La strada di Swann , p. 363.
[279] M. Zambrano, L'uomo e il divino, p. 262.
[280]Otello , III, 3.
[281] M. Proust, La prigioniera, p. 151.
[282] L'uomo e il divino, pp. 256 e 257
[283] Medea , p. 211.
[285] In nota al v. 218 di The Waste Land (I
Tiresias, though blind, throbbing between two lives , io Tiresia,
sebbene cieco, pulsando tra le due vite) dove l'autore spiega che "i due
sessi si incontrano in Tiresia. Ciò che Tiresia vede, infatti è
la sostanza del poema". Quindi cita i vv. 320-338 del III libro delle
Metamorfosi .
[286]La lirica greca da Alcmane a Simonide , p.
264.
[287]G. Perrotta-B. Gentili, Polinnia , p. 299.
[288]I fratelli Karamazov , p. 160.
[289]Il sabato del villaggio , 5.
[290]il nesso rose-viole si trova pure, forse non per
caso, nel mazzolino interstagionale de Il sabato del villaggio
(v. 4:"un mazzolin di rose e di viole" appunto, ) di Leopardi.
[291]C. M. Bowra, La lirica greca da Alcmane a
Simonide , p. 276.
[292] Alcesti, v. 150.
[293] Alcesti, v. 151.
[294] V. 151 già citato.
[295] M. Cacciari, L'arcipelago, pp. 52-53.
[296] Con ancora più forza è un'altra donna,
Polissena nell'Ecuba di Euripide, a rifiutare di apparire
philòpsychos, amante della sola propria vita.
[297]. M. Cacciari, L'arcipelago, p 59.
[298]Zibaldone , p. 527.
[299]Storia del genere umano .
[300]La medicina guarisce tutti i dolori umani:/solo
l'amore non ha uno capace di curarlo.
[301]G. B. Conte, Ovidio Rimedi contro l'amore
, pp. 18-19.
[302]G. B. Conte (a cura di) Scriptorium Classicum
2, p. 17.
[303]P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica
, I, p. 151.
[304]Coefore 461:"
[Arh" [Arei xumbalei', Divka/ Divka".
[305]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico
, I, p. 175.
[306]G. D'Annunzio, Trionfo Della Morte ,
Mondadori, Milano, 1977, p. 247.
[307]Poemetto di P. B. Shelley, del 1821.
[308]G. D'Annunzio, Il fuoco , Mondadori,
Milano, 1977, p. 164-165, 167, 260
[309] Nietzsche, Di là dal bene e dal male, p.
87.
[310]S. Freud, Analisi terminabile e interminabile
, in Freud Opere volume 11, p. 527 e ss.
[311] Conte, Scriptorium classicum , 5, p. 18.
[312]Freud, Compendio di psicoanalisi , 1938,
vol.. cit., p. 575 s.
[313]Eraclito, fr.24 Diano
[314]Eraclito, fr.27 Diano
[315]G. B. Conte, Virgilio , p. 47.
[316]G. B. Conte, Virgilio , p. 48
[317]P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica
, I, p. 158.
[318] P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma
antica , I, p. 157.