sabato 24 maggio 2014

La paura che l'uomo ha della donna

quinta parte del Percorso sull’amore nei classici
La volontà di ordine a tutti i costi.
Il desiderio maniacale di ordine deriva da viltà e povertà di cuore ed è al tempo stesso desiderio di morte. Il sadismo.
Leopardi, Kundera e Fromm.
 Il desiderio della procreazione senza la donna: Ippolito, Giasone della Medea, Rodomonte dell' Orlando Furioso.
  L'innamorato, da Catullo in avanti, è miser.
 l'Adamo di Milton. Il Dio della Genesi crea da solo, senza la femmina.
Catone il vecchio di Livio e la paura della donna.
La buona moglie casalinga, silenziosa, non truccata. Esiodo, Senofonte, Svevo, Euripide: l'Andromaca delle Troiane. Il diario del seduttore di Kierkegaard. La fanciulla del Dyscolos di Menandro. La verbosità femminile esecrata dagli uomini.
I sette a Tebe di Eschilo e l'Aiace di Sofocle. Steiner, Giovenale e Ben Jonson. Polibio. Di nuovo Euripide con Andromaca  personaggio dell' Andromaca e Senofonte. Lucrezio e la muliercola  virtuosa. La bisbetica domata e Paolo l'apostolo.


Il terrore della prepotenza femminile pervade diverse tragedie della letteratura greca. La donna ateniese, se non contava nulla nella vita politica e cittadina, era di sicuro una presenza incombente sui figli, soprattutto sui maschi con i quali cercava una rivalsa:"il ripudio e il disprezzo delle donne significa il ripudio e il disprezzo della domesticità-della vita domestica e familiare, e quindi anche dell'allevamento dei bambini. Il maschio adulto ateniese rifuggiva dalla casa, ma ciò significava che il bambino ateniese cresceva in un ambiente dominato dalle donne"[1].
E' l'eterna paura che l'uomo, soprattutto chi ha avuto una madre autoritaria e molto presente, ha della donna:" quanto più l'uomo imprigiona la donna in casa e frequenta altri luoghi, tanto più schiacciante è il potere della donna fra le mura domestiche. La posizione sociale delle donne e la loro influenza psicologica sono dunque due cose del tutto distinte. Il disprezzo del maschio greco per le donne non solo era compatibile, ma anzi indissolubilmente legato alla paura di esse, e al tacito sospetto dell'inferiorità maschile. Altrimenti perché sarebbero state necessarie misure così estreme? Le usanze come quella che una moglie non doveva essere più vecchia del marito, o di posizione sociale superiore, o più colta, o in una posizione di autorità, tradiscono la convinzione che gli uomini non sono in grado di competere con le donne a livello di parità; le carte vanno prima truccate, l'uomo deve ricevere un vantaggio"[2]. Lo aveva già detto Marziale (40 ca-104 d.C.) nella clausula di un suo epigramma:" Inferior matrona suo sit , Prisce, marito:/non aliter fiunt femina virque pares " (VIII, 12, 3-4), la moglie, Prisco, stia sotto il marito: non altrimenti l'uomo e la donna diventano pari.
Sentiamo una ripresa dostoevskijana di questo topos: “Ma non è forse vero che voi,” lo interruppe di nuovo Raskolnikov, con una voce tremante d’ira in cui si sentiva il gusto di offendere, “non è forse vero che alla vostra fidanzata…proprio nel momento in cui ricevevate il suo consenso…voi avete detto che più di tutto eravate lieto che fosse povera…perché è più vantaggioso togliere la moglie dalla miseria in cui vive, per poi poterla dominare…e poterle rinfacciare d’averla beneficata?”[3].
Espressioni di paura della donna e risentimento contro di lei si trovano, oltre che nella Medea , nell'Antigone ,  nell'Ippolito  e nella Genesi .
Tra i moderni vedremo qualche cosa nell'Ariosto e nel Milton.
Torniamo all'Antigone e sentiamo il despota Creonte  :"Così bisogna difendere l'ordine,/e in nessun modo lasciarsi superare da una donna./Infatti è meglio, se proprio bisogna, cadere per mano d'uomo/e non dovremmo mai lasciar dire che siamo inferiori alle donne ( gunaikw'n h{ssone" )" (vv. 676-679).
Il tiranno dell'Antigone  è un maniaco della disciplina (peiqarciva, v. 675) e dell'ordine. Ebbene nella tragedia di Sofocle l'ordine voluto dal despota che ha terrore dell'anarchia, vista come il male più grande ( ajnarciva" de; mei'zon oujk e[stin kakovn, v. 671) consiste nella sottomissione dei sudditi al suo editto che prescrive l'incuria e il conseguente sconciamento di un cadavere. Ogni ribellione gli è insopportabile, ma sopra tutte quelle che  vengono da una donna, che poi è una ragazza, è sua nipote, ed è la fidanzata di suo figlio Emone.
Altri autori hanno smontato la volontà  di ordine a tutti i costi, quale espressione del carattere autoritario che non è capace di rapporti alla pari.
Troviamo un' interpretazione malevola dei fanatici dell'ordine nello Zibaldone  di Leopardi:" Sono moltissimi che amano, predicano, promuovono, ed esercitano esclusivamente la giustizia, l'onestà, l'ordine, l'osservanza delle leggi, la rettitudine, l'adempimento de' doveri verso chi che sia, l'equa dispensazione de' premi e delle pene, la fuga delle colpe; ma ciò non per virtù, né come virtù, non per finezza o grandezza o forza o compostezza d'animo, non per inclinazione, non per passione, ma per viltà e povertà di cuore, per infingardaggine, per inattività, per debolezza esteriore o interiore, perché non potendo (per debolezza) o non volendo (per pigrizia) o non osando (per codardia) né provvedersi né difendersi da se stessi, vogliono che la legge e la società vegli p. loro, e provvegga loro e li difenda senza loro fatica...." (3316). 
M. Kundera deride o biasima la mania dell'ordine che individua non tanto nei tiranni quanto nei loro sgherri:"I vecchi armati di lunghe pertiche si confondevano ai suoi occhi con i secondini del carcere, i giudici istruttori, i delatori che spiavano i vicini per scoprire se facevano discorsi politici quando andavano a fare la spesa. Che cosa spingeva quelle persone alla loro sinistra attività? La malvagità? Senz'altro, ma anche il desiderio di ordine. Giacché il desiderio di ordine vuol trasformare il mondo umano in un regno inorganico in cui tutto marcia, funziona, è assoggettato a una norma sovrindividuale. Il desiderio di ordine è al tempo stesso desiderio di morte, giacché la vita è una perpetua violazione dell'ordine. Oppure, con una formula opposta: il desiderio di ordine è il pretesto virtuoso con cui l'odio per gli uomini giustifica i propri misfatti"[4].
Questa smania del controllo secondo Fromm è tipica del carattere sadico:"io propongo la tesi che il nucleo del sadismo, comune a tutte le sue manifestazioni, sia la passione di esercitare un controllo assoluto e illimitato su un essere vivente, sia esso animale o bambino, uomo o donna"[5].
Ma torniamo alla volontà di tenere sotto controllo le donne, o addiritture di separarle dai maschi.
Nell'Ippolito  di Euripide, il figlio di Teseo, sdegnato con la matrigna, è talmente disgustato e terrorizzato dalle donne,  ingannevole male  (" kivbdhlon ajnqrwvpoi"  kakovn ", v. 616), male grande ("kako;n mevga", v. 627), creatura perniciosa, o, più letteralmente, frutto dell'ate[6] ("ajthrovn...futovn", v. 630) che auspica la loro collocazione presso muti morsi di fiere (vv. 646-647) e la propagazione della razza umana senza la partecipazione delle femmine umane. La storia della malizia di Fedra, la quale denuncia l'amante che l'ha respinta, contiene un motivo folclorico, forse di provenienza orientale, comunque presente in altri testi e in altre letterature: nel VI canto dell'Iliade c'è la storia di Bellerofonte calunniato da Antea, moglie di Preto, nella Genesi (39, 7-20) quella della moglie di Putifarre[7].
 Un desiderio espresso anche da Giasone nella Medea :"Crh'n ga;r a[lloqevn poqen brotou;"-pai'da" teknou'sqai, qh'lu d& oujk ei'jnai geno": -couJvtw" aj;n oujk h'jn oujde;n ajnqrwvpoi" kakovn" (vv. 572-575), bisognerebbe infatti che in altro modo, donde che sia, gli uomini generassero i figli, e che la razza delle donne non esistesse, così non ci sarebbe nessun male per gli uomini. Insomma la femmina è il male. 
Nell'Orlando furioso (1532) troviamo echi di questo risentimento contro le donne, messi in bocca al personaggio di Rodomonte, scartato da Doralice.
Prima il"Saracin" biasima, "catullianamente", l'instabilità e la perfidia delle donne:" Oh feminile ingegno,-egli dicea-/come ti volgi e muti facilmente,/contrario oggetto a quello della fede!/Oh infelice, oh miser chi ti crede!" (27, 117).
Questo miser risale alla letteratura latina nella quale, a partire da Catullo assume il significato di persona infelice per l'amore non contraccambiato.
 Nel carme del discidium (8), miser  è la prima parola che qualifica l'autore ( Miser Catulle, v. 1) quale amante infelice poiché tradito.
 Miser  è comunque chi cade vittima della passione d'amore : lo è  Catullo stesso quando è affascinato da Lesbia nel c. 51:" :"misero quod omnis [8] / eripit sensus mihi " (51, vv. 5-6) il che a me infelice porta via tutti i sensi.
 Il poeta potrebbe smettere di essere miser solo allontanandosi dalla donna che ama:"Quin tu animo offirmas atque istinc teque reducis/et deis invitis desinis esse miser? (76, vv. 11-12)  perché tu non ti irrobustisci nel carattere e non ti ritrai di qui/e non smetti di essere infelice contro la volontà degli dei?.
Ma deporre d'un tratto un lungo amore è difficile (difficile est longum subito deponere amorem, v.14) poiché questo è diventato come una peste o un cancro, malattie dalle quali non si guarisce senza l'aiuto degli dèi:"O di, si vestrum est misereri, aut si quibus umquam/extremam iam ipsa in morte tulistis opem,/me miserum aspicite et, si vitam puriter egi,/eripite hanc pestem perniciemque mihi,/quae mihi subrepens imos ut torpor in artus/expulit ex omni pectore letitias" (vv. 17-22), O dei, se vostre forza è avere misericordia, o se ad alcuni mai/portaste l'estremo aiuto già dentro la morte stessa,/guardate me disgraziato e, se ho passato la vita senza tradire,/strappatemi questa peste e rovina,/che strisciando, come paralisi, in fondo alle mie membra,/ha cacciato da tutta l'anima la gioia di vivere. Pestem perniciemque in nesso allitterante significano la rovina totale. Pernicies è imparentata etimologicamente con neco, uccido, nex, uccisione, noceo, nuoccio, nonché con le parole greche nekrov" , nevku" , morto, nevkuia, evocazione dei morti.   
L'infelicità dell'amore deluso dunque ha la forza negativa di una malattia mortale ed è necessario liberarsi da quel morbo deleterio , e dalla donna, per salvarsi la vita:"Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa,/aut (quod non potis est) esse pudica velit;/ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum./O di, reddite mi hoc pro pietate mea" (vv. 23-26) Non chiedo più quel miracolo, che quella là contraccambi il mio affetto,/o (cosa di cui non è capace) che voglia essere pudica;/io desidero stare bene e mettere via questo male oscuro./O dei, datemi questo in cambio della mia devozione.
 Invero una infelicità amorosa altrettanto grave può riguardare anche le donne poiché l'amore è sempre insidiato da un fondo di inquietudine: chi ama è vittima della passione che lo assoggetta, e in quanto tale è infelice
  Misera è   Arianna abbandonata da Teseo (numerose sono le ricorrenze nel carme 64).
La Didone di Virgilio, poco dopo che ha visto Enea è già "infelix pesti devota futurae" (Eneide, I, 712), disgraziata, consacrata alla rovina imminente: infatti dopo un altro po’ di tempo moriva " misera ante diem" (IV, 697), disgraziata prima del suo giorno, come vedremo meglio più avanti. 
 Per ora torniamo all'Ariosto.  Rodomonte aggiunge il motivo esiodeo della femmina umana imposta come punizione all'umanità maschile:"Credo che t'abbia la Natura e Dio/produtto, o scelerato sesso, al mondo/per una soma, per un grave fio/de l'uom, che senza te saria giocondo:/come ha prodotto anco il serpente rio/e il lupo e l'orso, e fa l'aer fecondo/e di mosche e di vespe e di tafani,/e loglio e avena fa nascer tra i grani" (119).
Quindi l'amante infelice rimprovera la Natura, come Ippolito e Giasone, poiché costringe gli uomini a mescolarsi con le donne per la riproduzione:"Perché fatto non ha l'alma Natura,/che senza te potesse nascer l'uomo,/ come s'inesta per umana cura/l'un sopra l'altro il pero, il sorbo e 'l pomo?/Ma quella non può far sempre a misura:/anzi, s'io vo' guardar come io la nomo,/veggo che non può far cosa perfetta,/poi che Natura femina vien detta"(120).
Un motivo questo presente anche nel Paradise Lost (1658-1665) del "puritano d'incrollabile fede"[9] John Milton (1608-1674). In questo poema Adamo si chiede perché il Creatore, che ha popolato il cielo di alti spiriti maschili, ha creato alla fine sulla terra questa novità, questo grazioso difetto di natura ( this fair defect of Nature ) e non ha riempito subito il mondo con uomini simili ad angeli senza il femminino, o non ha trovato un altro modo per generare l'umanità ("or find some other way to generate Mankind? ", X,  888 e sgg.).
   Questo desiderio del maschio deluso è stato realizzato per sé dal Dio biblico che crea il mondo senza alcuna presenza femminile, come fa notare Fromm: "Il racconto non ha inizio con le parole:" In principio era il caos, in principio era l'oscurità", bensì, "In principio Dio creò...."-dunque lui solo, il dio maschile, senza intervento né partecipazione da parte della donna-cielo e terra. Dopo l'interruzione di una frase in cui risuonano ancora le antiche concezioni, il racconto prosegue:"E dio disse:"sia la luce", e la luce fu (Gn. 1, 3). Qui in tutta chiarezza compare l'estremo della creazione solamente maschile, la creazione per mezzo esclusivo della parola, la creazione attraverso il pensiero, la creazione attraverso lo spirito. Non si ha più bisogno del grembo materno per generare, non più della materia: la bocca dell'uomo che pronuncia una parola ha la capacità di creare la vita direttamente e senza bisogno d'altro...Il pensiero che l'uomo sia in grado di creare esseri viventi soltanto con la sua bocca, con la sua parola, dal suo spirito, è la fantasia più contronatura che sia immaginabile; essa nega ogni esperienza, ogni realtà, ogni condizione naturale, spazza via ogni vincolo posto dalla natura per raggiungere quell'unico  scopo: rappresentare l'uomo come assolutamente perfetto, come colui che possiede anche la capacità che la vita sembra avergli negato: la capacità di generare"[10]. E meno male che poi "il Signore Dio disse:"Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile" (Genesi, 2, 23).
La paura della donna suggerisce al Catone il vecchio di Tito Livio alcune parole  sulla  necessaria sottomissione della femina  al fine di tenere sotto controllo una natura altrimenti intemperante.
Così si esprime il censore quando parla, nel 195 a. C., contro l'abrogazione della lex Oppia  che, dal 215, imponeva un limite al lusso delle matrone[11] le quali erano scese in piazza proprio per manifestare a favore dell'annullamento della legge:" Maiores nostri nullam, ne privatam quidem rem agere feminas sine tutore auctore voluerunt, in manu esse parentium, fratrum, virorum...date frenos impotenti naturae et indomito animali et sperate ipsas modum licentiae facturas...omnium rerum libertatem, immo licentiam , si vere dicere volumus, desiderant " (XXXIV, 2, 11-14) i nostri antenati non vollero che le donne trattassero alcun affare, nemmeno privato senza un tutore, e che stessero sotto il controllo dei padri, dei fratelli, dei mariti...allentate il freno a una natura così intemperante, a una creatura riottosa e sperate pure che si daranno da sole un limite alla licenza...desiderano la libertà, anzi, se vogliamo chiamarla  con il giusto nome la licenza in tutti i campi.
 C'è da notare che il termine licentia qui ripetuto è utilizzato da Tacito, con alcune altre "considerazioni puramente moralistiche"[12] per invalidare le ragioni di una rivolta scoppiata tra le legioni della Pannonia dopo la morte di Augusto:" nullis novis causis nisi quod mutatus princeps licentiam turbarum et ex civili bello spem praemiorum ostendebat " , Annales, I, 16, per nessun'altra novità se non che il cambio dell'imperatore faceva sperare la licenza delle truppe e la speranza di gratifiche in seguito alla guerra civile.-princeps (da primus+capio) era il titolo di Augusto che passò ai suoi successori. 
 Vedremo più avanti che, coerentemente con questa paura, l'austero censore, nella Satira I 2 di Orazio, consiglia di frequentare i postriboli dove le donne si pagano.
Certi maschi terrorizzari dunque vogliono l'abrogazione della donna o per lo meno quella della femmina umana indipendente. Le sue rivendicazioni fanno paura come quelle di un esercito in rivolta.

La sposa desiderabile da uomini siffatti si può definire la buona moglie casalinga silenziosa, non truccata da contrapporre  alla donna " tubo di scarico".
 La ragazza deve essere sposata quando è ancora molto giovane dall'uomo già adulto perché questo possa educarla, o addirittura addomesticarla. E' una posizione già presa dal protomisogino Esiodo il quale consiglia il matrimonio con una vergine sui diciassette anni all'uomo circa trentenne perché, precisa, tu possa insegnarle onesti costumi:"wJv" k& h[qea kedna; didavxh/"" (Opere , v. 699).
Altrettanto pensa di fare lo Zeno di Svevo, quando decide di prendere moglie e, rifiutato da Ada, ripiega sulla sorella minore Alberta, ricordando una raccomandazione di suo padre:"Scegli una donna giovine e ti sarà più facile di educarla a modo tuo".[13]
Addomesticare non è necessariamente una parola brutta: "nel dialogo famoso fra la volpe e il piccolo principe essa vale rendere nostro, nella familiarità della comprensione e del legame che si crea col territorio esplorato"[14]. Addomesticare, spiega la volpe, "vuol dire creare dei legami… Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo…non si conoscono che le cose che si addomesticano-disse la volpe.- Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!"[15]. Anche i buoni autori, io credo, dobbiamo addomesticare:"Abbiamo bisogno di auctores, di guide…I libri che leggiamo sono i nostri auctores, e c'insegnano a riconoscere nuovi cieli e nuove terre, e ad alimentare sempre, così, la nostra sete di significazione"[16].
Esiodo chiarisce che l'uomo non può fare miglior guadagno di una buona moglie, né acquisto più raccapricciante di una cattiva:"th'" d& au'te kakh'" ouj rJivgion a[llo"(Opere , v. 703).
Come deve essere però la sposa buona?
Secondo Senofonte (430 ca-355ca a. C.) ella deve occuparsi dei lavori interni alla casa, mentre il marito seguirà quelli esterni. Infatti per la donna è più bello restare dentro casa che vivere fuori (" Th'/  me;n ga;r gunaiki; kavllion e[ndon mevnein hj; quraulei'n", Economico , VII, 30); per l'uomo al contrario è più vergognoso rimanere in casa che impegnarsi nelle cose esterne.
"Del destino normalmente riservato alla donna ateniese Senofonte dà nell'Economico un'icastica rappresentazione[17]. La
 Secondo Roscalla " lo stesso ritratto della moglie, posta a capo della dispensa e dei servi e con il diretto controllo sulle entrate e sulle uscite, più volte interpretato come fedele resoconto della condizione della donna ateniese, sembra risentire dei costumi persiani"[18].
 Non diversi peraltro sono i gusti del triestino Zeno:"Ora non avrei avuto che un desiderio: correre dalla mia vera moglie, solo per vederla intenta al suo lavoro di formica assidua, mentre metteva in salvo le nostre cose in un'atmosfera di canfora e di naftalina"[19].
Comunque al modello di moglie proposto da Senofonte, sia essa  la donna ideale ateniese o persiana o di Ilio, assomiglia la sfortunata Andromaca delle Troiane (del 415) di Euripide:" Io che mirai alla buona fama (ejgw; de; toxeuvsasa th'" eujdoxiva", v.643, nel quale l'ottima sposa si presenta, metaforicamente, come un arciere toxovth" che con il suo arco (tovxon) mira alla buona reputazione cui si accompagna la felicità nella culture of shame) /dopo averla ottenuta in larga misura, fallivo il successo (th'" tuvch" hJmavrtanon), v. 644 con il quale Euripide sembra indicare l'insufficienza "della cultura di vergogna")./Infatti quelle che sono le qualità conosciute di una sposa saggia/io le mettevo in pratica nella casa di Ettore./Là dunque per prima cosa- che vi sia o non vi sia/motivo di biasimo per le donne (yovgo" gunaixivn, v. 648)- la cosa in sé attira/cattiva fama (kakw'" ajkouvein, v. 649, lett. sentire parlar male) se una donna non rimane in casa,/io, messo via il desiderio di questo, rimanevo in casa (" e[mimnon ejn dovmoi"", v. 650);/e dentro casa non facevo entrare scaltre chiacchiere/di donne, ma avendo come maestro il mio senno (to;n de; nou'n didavskalon, v. 652)/ buono per natura, bastavo a me stessa./E allo sposo offrivo silenzio di lingua e volto/ calmo ("glwvssh" te sigh;n o[mma q& hJvsucon povsei-parei'con", vv. 654-655); e sapevo in che cosa dovevo vincere lo sposo,/e in che cosa bisognava che lasciassi a lui la vittoria" (vv. 643-656).
Le visite delle comari, sostiene Ermione nell'Andromaca, mi hanno rovinato:" kakw'n gunaikw'n ei[sodoi m ' ajjpwvlesan" (v. 930). La moglie che permette a tale genìa di guastare la sua intesa coniugale, viene come trascinata da un vento di follia. Sentiamo ancora la figlia di Menelao pentita di essersi lasciata montare la testa da queste Sirene maligne che hanno provocato la rovina del suo matrimonio  con Neottolemo:"Kajgw; kluvousa touvsde Seirhvnwn lovgou",-sofw'n panouvrgwn poikivlwn lalhmavtwn,-exhnemwvqhn mwriva/." (vv. 936-938), ed io ascoltando queste parole di Sirene, scaltre, maligne, intriganti, chiacchierone, mi gonfiai  di follia (ejxhnemwvqhn è aoristo passivo di ejxanemovw). Una verità che Ermione, e ancor più Euripide, ha bisogno di ribadire:"
 vv. 942-952 in greco
:" mai, mai, infatti non lo dirò una sola volta, bisogna che quelli che hanno senno, e hanno una moglie, lascino andare e venire dalla moglie che è in casa le donne: queste infatti sono maestre di mali: una per guadagnare qualcosa contribuisce a corrompere il letto, un'altra, siccome ha commesso una colpa vuole che diventi malata con lei, molte poi per dissolutezza; quindi sono malate le case degli uomini. Considerando questo custodite bene con serrature e sbarre le porte delle case; infatti nulla di sano producono le visite dall'esterno delle donne ma molti mali.-ajmplakou'sa: participio aoristo di ajmplakivskw .-kajnteu'qen: crasi di kai; ejnteu'qen.    
La donna in ogni modo fa male a parlare con altre donne.
Anche il seduttore intellettuale di Kierkegaard auspica che la ragazza cresca nella solitudine e nel silenzio:"Se dovessi figurarmi l'ideale di una fanciulla, questa dovrebbe sempre essere sola al mondo e quindi dedita a se stessa, ma anzitutto non dovrebbe avere amiche. E' ben vero che le Grazie furono tre, ma certamente neppure venne mai in mente ad alcuno di figurarsele a parlar tra loro; esse compongono nella loro tacita triade una leggiadra unità femminile. A tal proposito sarei quasi tentato di suggerire delle gabbie per le vergini, se tale costringimento non agisse invece in senso negativo. E' sempre augurabile per una giovinetta che le venga lasciata la sua libertà, ma che non le venga offerta occasione di servirsene"[20].
La moglie perfetta dunque non deve frequentare, non diciamo gli uomini che sarebbe una nefandezza meritevole di ripudio, ma nemmeno altre donne con le quali potrebbe ordire congiure e progettare sconcezze.
 Nel Duvskolo" di Menandro (342-290 a. C.) Sostrato, l'innamorato e pretendente della figlia del misantropo , in un breve monologo  elogia l'educazione presumibilmente ricevuta dalla ragazza:"Se questa ragazza non è stata educata tra le donne e non conosce nessuno di questi mali nella vita e non è stata terrorizzata da qualche zia e balia, ma è venuta su liberamente con questo padre selvaggio che odia il male,come potrebbe non essere la mia felicità unire la mia sorte alla sua"?(vv. 384-389). 
Il , e la tranquillità come virtù femminili vengono indicate anche da un'altra eroina e martire euripidea: quella Macaria degli Eraclidi (del 430 ca) che dà la propria vita per salvare quella dei fratelli:"gunaiki; ga;r sighv te kai; to; swfronei'n-kavlliston, ei[sw q& hJvsucon mevnein dovmwn"(vv. 476-477), per la donna infatti il silenzio e l'equilibrio sono la dote più bella, poi rimanere in tranquillità dentro la casa.
Questa indicazione del silenzio come pregio, particolarmente delle donne, non manca nel padre della tragedia: Eschilo ne I sette a Tebe (del 467) rappresenta Eteocle, l'eroico difensore della città assediata, mentre prescrive al coro di ragazze tebane :" so;n d& au'j to; siga'n kai; mevnein ei[sw dovmwn" (v. 232), il tuo compito invece è tacere e rimanere dentro casa.
Anche Sofocle impiega il tovpo" quando nell'Aiace (del 456) fa dire al protagonista rivolto a Tecmessa:"guvnai, gunaixi; kovsmon hJ sigh; fevrei"(v. 293), donna, alle donne il silenzio porta ornamento. Uno zittimento perentorio utilizzato qualche regime fa dall' eterno  Andreotti alla deputata radicale Adele Faccio nel parlamento della nostra Repubblica.
Certamente molti uomini oppressi da donne troppo loquaci e petulanti approverebbero Aiace, sebbene pazzo. Su questo argomento sentiamo Steiner:" In tutte le culture conosciute, gli uomini hanno sempre accusato le donne di essere ciarliere, di sprecare le parole con folle prodigalità. La femmina chiacchierona, borbottona e pettegola, la donna che non fa che cianciare, la bisbetica, la vecchia sdentata con la bocca piena del vento delle parole sono immagini più antiche delle fiabe. Giovenale [21] nella satira sesta, presenta come un incubo la verbosità femminile:"cedunt grammatici, vincuntur rhetores, omnis/turba tacet, nec causidicus nec praeco loquetur,/altera nec mulier; verborum tanta cadit vis,/tot pariter pelves ac tintinnabula dicas/pulsari; iam nemo tubas, nemo aera [22] fatiget:/una laboranti poterit succurrere Lunae", (vv. 438-443) si arrendono i grammatici, sono sconfitti i retori, tutta/ la folla tace, né l'avvocato né il banditore parlerà,/ né un'altra donna; cade una colossale quantità di parole,/che si direbbe che altrettanti catini e sonagli/ vengano percossi; nessuno oramai affatichi le trombe e gli ottoni:/una donna sola potrà soccorrere la luna in travaglio.
Le donne sono davvero più prodighe di parole? La convinzione maschile su questo punto va oltre ogni prova statistica ed è nata forse da antichi contrasti sessuali. Può darsi che l'accusa di loquacità mascheri il risentimento dell'uomo nei confronti del ruolo femminile nel 'consumare' il cibo e le materie prime da lui fornite. Ma l'allusione di Giovenale alla luna è più interiore e indica il malessere che tiene l'uomo distante da certi aspetti cruciali della sessualità femminile. Il presunto carattere torrenziale del linguaggio delle donne, il profluvio sgradevole di parole sono forse una riformulazione simbolica del ciclo mestruale che l'uomo conosce spesso in modo vago e apprensivo. Nella satira maschile, le secrezioni e i flussi oscuri della fisiologia femminile sono un tema ossessivo. Ben Jonson unifica i due temi dell'incontinenza linguistica e di quella sessuale in The silent woman  (La donna silenziosa[23]). "Ella è come un tubo di scarico", dice Morose della sua falsa sposa, "che torna a scrosciare con più forza quando si riapre". 'Tubo di scarico', con le sue connotazioni di escremento e di evacuazione, è un termine incredibilmente brutale. Come tutta la commedia. Nel momento saliente della commedia si paragona di nuovo la verbosità femminile all'indecenza:"O cuor mio! Ti spezzerai? Ti spezzerai? Questo è peggio di tutti i peggior peggio che l'inferno poteva concepire! Sposare una puttana, e tanto chiasso!"[24]
La loquacità femminile è messa in rilievo anche da Polibio il quale del resto nota come questo vizio servì a propagare la fama della generosità di Scipione Emiliano che aveva rinunciato a un'eredità lasciatagli dalla nonna adottiva in favore della madre Papiria: allora la già buona reputazione della sua nobiltà morale andò crescendo  grazie alle donne che chiacchierano fino alla nausea su qualsiasi argomento nel quale si  siano gettate ("aJvte tou' tw'n gunaikw'n gevnou" kai; lavlou kai; katakorou'" o[nto" , ef& oJv ti aj;n oJrmhvsh/", XXXI, 26, 10). In questo caso le chiacchiere delle femmine umane furono uno degli strumenti della buona Fortuna che assecondò l' ottima indole dell'eroe polibiano.
        In Senofonte si può trovare un' altra corrispondenze con un'altra Andromaca euripidea. Infatti Iscomaco insegna alla moglie-ragazza che i pregi della donna agli occhi degli uomini non dipendono tanto dalla gioventù e dall'avvenenza quanto dalla virtù (Economico , VII, 43). Ebbene la protagonista dell'Andromaca  ( del 430-428) dice alla rivale Ermione:"ouj to; kavllo", w'j guvnai,-ajll& ajretai; tevrpousi tou;" xuneunevta""(vv. 206-207), non la bellezza, o donna, ma le virtù fanno felici i mariti. Tra le virtù della donna la moglie dell'eroe troiano mette una totale abnegazione in favore dello sposo:" O carissimo Ettore, io per compiacerti/partecipavo ai tuoi amori, se in qualche occasione Cipride ti faceva scivolare,/e la mammella ho offerto già molte volte ai tuoi/bastardi (kai; masto;n h[dh pollavki" novqoisi soi'"-ejpevscon), per non darti nessuna amarezza./E così facendo attiravo lo sposo/con la virtù (th'/ ajreth/' ''''') (vv. 222-227).
 Oltre il non truccarsi pure il non spogliarsi fa parte della virtù della donna, almeno in ambito e ateniese e ionico. In questa stessa tragedia si trova un forte biasimo della donne spartane: Peleo critica tutte le Lacedemoni per  i loro costumi dicendo: neppure se lo volesse potrebbe restare onesta ("swvfrwn", v. 596) una delle ragazze di Sparta che insieme ai ragazzi, lasciando le case con le cosce nude ("gumnoi'si mhroi'"", v.598) e i pepli sciolti, hanno corse e palestre comuni, cose per me non sopportabili. Erodoto fa gridare a Gige:"  Jvama de; kiqw'ni ejkduomevnw/ sunekduvetai kai; th;n aijdw'  gunhv" (I, 8, 3) con il levarsi di dosso la veste, la donna si spoglia anche del pudore", 
Il tovpo" della moglie non necessariamente bella, ma virtuosa, e per questo motivo amabile, o per lo meno sopportabile, si trova alla fine del IV libro del poema di Lucrezio :"Nec divinitus interdum Venerisque sagittis/deteriore fit ut forma muliercola ametur../Nam facit ipsa suis interdum femina factis/morigerisque modis et munde corpore culto,/ ut facile insuescat <te> secum degere vitam./Quod superest, consuetudo concinnat amorem;/nam leviter quamvis quod crebro tunditur ictu,/vincitur in longo spatio tamen atque labascit./ Nonne vides etiam guttas in saxa cadentis/umoris longo in spatio pertundere saxa?  " (vv. 1278-1287), non per volontà degli dèi talvolta o per le frecce di Venere accade che sia amata una donnetta di aspetto meno attraente. Infatti la stessa femmina umana talvolta con il suo agire e con i modi docili, e con il corpo gradevolmente elegante, fa in modo di abituarti facilmente a passare la vita con lei. Del resto la consuetudine concilia l'amore; infatti ciò che viene battuto sia pur leggermente con colpi frequenti, è  vinto comunque a lungo andare e si lascia piegare. Non vedi che anche le gocce stillanti sulle rupi con un lungo gocciare trapassano le rupi? 
Torneremo sul IV canto del De rerum natura ma possiamo già notare con Dionigi che questa chiusa presenta un "evidente e non meno sorprendete cambiamento di registro. infatti dopo aver condannato con asprezza e sarcasmo l'amore come affanno (v. 1060), sofferenza (vv. 1068-1072), furore (vv. 1079-1083; cfr. 1117), spersonalizzazione(vv. 1121 sg.), amarezza (v. 1134), rimorso (v. 1135), gelosia (v. 1139 sg.), cecità (v. 1153), miseria (v. 1159) e umiliazione (vv. 1177-1179), Lucrezio riesce anche a ipotizzare l'amore sincero, gioioso e vicendevole (vv. 1192-1208), e il dolce sentimento della paternità (vv. 1253-1256), fino a cogliere-come in questi versi (vv. 1280-1283)- l'intimità e una sorta di malinconica tenerezza"[25].
 Più avanti leggeremo e commenteremo parecchi di questi versi.
Intanto voglio indicare una donna di Shakespeare che nel corso del dramma subisce una metamorfosi da potenziale Santippe a probabile Andromaca: si tratta di Caterina, la bisbetica che, una volta domata, chiude la commedia celebrando la necessaria sottomissione delle donne:"L'obbedienza che un suddito deve al suo re, la donna deve a suo marito…Mi vergogno che le donne siano così sciocche da offrir guerra mentre dovrebbero chiedere la pace in ginocchio; che vogliano legiferare, dominare, soverchiare, quando sono nate a servire, ad amare e a ubbidire"[26].  Shakespeare forse risente anche di una   prescrizione dell'apostolo Paolo:"wJ" ejkklhsiva uJpotavssetai tw'/ Cristw'/, ouJvtw" kai; aiJ gunai'ke" toi'" ajndravsin ejn pantiv" (Epistola agli abitanti di Efeso , 5, 22), come la Chiesa è soggetta a Cristo, così anche le mogli ai mariti in ogni cosa.


 
[1] Ph. E. Slater, The glory of Hera , in La tragedia greca. Guida storica e critica , trad. it. Laterza, Bari, 1974, p. 161.
[2] Slater, op. cit., p. 162.
[3] F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 171.
[4] M. Kundera, Il valzer degli addii ,trad. it. Adelphi, Milano, 1989,  p. 104.
[5] Anatomia della distruttività umana , trad. it. Mondadori, Milano, 1978, p. 363.
[6] L'accecamento mentale, una smisurata forza irrazionale.
[7] E' la storia di Giuseppe e del  consigliere del Faraone Putifarre, la cui moglie, innamorata dell'ebreo, lo accusò ingiustamente di essersi accostato per unirsi con lei. Conservava come prova la veste che ella stessa gli aveva strappato. Nihil novi sub sole !
[8] Omnis=omnes.
[9] C. Izzo, Storia della letteratura inglese, p. 517.
[10] E. Fromm, Amore sessualità e matriarcato , trad. it. Mondadori, Milano, 1997. p. 104 e 105.
[11] Vietava tra l'altro di indossare vesti multicolori o di girare per Roma su un cocchio a doppio traino di cavalli.
[12] E. Auerbach, Mimesis , vol. I, p. 44.
[13] Svevo, La coscienza di Zeno , Dall'Oglio, Milano, 1938, p. 157.
[14] F. Frasnedi, op. cit., p. 41.
[15] Antoine De Saint-Exupery, Il piccolo principe, p. 92 sgg.
[16] F. Frasnedi, op. cit., p. 52.
[17] Senofonte, Oec. 7.
[18] Fabio Roscalla,  introduzione a Senofonte, Economico , Rizzoli, Milano, 1991, p. 41. L'autore torna sull'argomento in  La Letteratura Economica  di Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Salerno, Roma, 1992, Volume I, Tomo I, p. 476 e sgg.
[19] Svevo, La coscienza di Zeno , p. 241.
[20] S. Kierkegaard, Diario del seduttore (del 1843), p. 53.
[21] 50/60-140 d. C. d. C.
[22] Il rumore di catini e campanelli doveva cacciare gli spiriti cattivi che provocano l'eclissi.
[23] Commedia del 1609.
[24] G. Steiner, Dopo Babele , trad. it. Garzanti, Milano, 1994,  pp. 69-70.
[25] I. Dionigi, Lucrezio, La Natura Delle Cose , p. 422.
[26] W. Shakespeare, La bisbetica domata, V, 2.

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