NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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venerdì 27 giugno 2014

Ultime notizie di una fuga di Valerio Varesi

Ultime notizie di una fuga
di Valerio Varesi
presentazione di Giovanni Ghiselli

Valerio Varesi
Ultime notizie di una fuga Mobydick Faenza, 1998.
Questo romanzo è stato ristampato da Frassinelli nel 2014.
Parlerò con l’autore di questo romanzo la sera del 9 luglio in piazza Verdi a Bologna. Intanto ne faccio una breve presentazione.
Il commissario Soneri deve trovare Mario Rocchetta, capocontabile della ditta Verre sparito nel nulla con la moglie Maria Carli e i due figli: Roberto tossicodipendente e Rinaldo, perdigiorno con la passione delle armi.
E’ gente con addosso il marchio della tristezza. Lui è un uomo “irreprensibile, alto, stempiato, silenzioso come una statua.
La moglie è “una donna afflitta con un perenne triste sorriso d’intercessione” (p. 8).
Si tratta di persone dalla vita prive di gioia.
Era stata una fuga ma non si sapeva da chi e per dove
Era gente normale che diceva cose normali.
La gente normale di una società malata è gente malata.
Il fatto è che la norma è l’adorazione del denaro
Soleri comunque  ne era incuriosito, quasi affascinato.
La vita “da scarafaggi, nell’ombra, gli faceva pensare a quella di certi suoi colleghi dei servizi (p. 9)
Mario Rocchetta era un impiegato modello con gli hobby dello jogging e della pesca sul Po.
Soneri incontra la sorella del ragioniere. Gli dice che il fratello svolgeva anche mansioni pericolose come il recupero crediti.
Il commissario ha un amico, un avvocato, Tobia, con il quale condivideva una “raffinata pignoleria” per il cibo e i vini (p. 15).
L’azienda di Rocchetta fa affari sporchi, nasconde miliardi di utili. E’ diretta da personaggi loschi.
Tobia dice: “le motivazioni umane sono sempre le stesse: le passioni e i soldi. Le passioni danno alla testa più spesso ai disgraziati, i soldi affascinano la gente fredda come questa” (p. 16)
Le passioni possono essere anche elementi della ragione
Cfr. Pasolini: le Erinni, le maledizioni, possono diventare Eumenidi, ossia benedizioni benefiche.
Poi: “la scaltrezza viene meno quando ci si sente inattaccabili” (p. 17)
L’avvocato cullava la bottiglia “neanche fosse stata un bimbo” . Faceva ondeggiare il vino nel bicchiere. Metafora marina. “Raffinato al punto di apparire vizioso”.
Il novello Petronio riprende a parlare “rinvenendo da un assaggio”
Soneri è agitato da un ingorgo di curiosità.
Rocchetta veniva dalla campagna che significa solitudini e nebbia “quella nebbia così familiare da ridurlo a interlocutore di se stesso” (p. 30)
La mancata socializzazione conduce spesso a errori, a dolori, a vizi.
Soneri interroga sui Rocchetta zia Edda, l’ex moglie del ricco faccendiere Fracassi: “La famiglia nel suo complesso era noiosa: i figli sono sempre stati taciturni e Mario sapeva parlare solo di affari e di sport.
Era “un uomo avviluppato in un suo mondo incomunicabile” (p. 43)
Gli adoratori degli idolo infatti hanno bocca ma non parlano
“Gli idoli dei popoli sono argento e oro, opera delle mani dell'uomo. Hanno bocca e non parlano; hanno occhi e non vedono; hanno orecchi e non odono; non c'è respiro nella loro bocca. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida" (Salmi, 135, 15-18).
La moglie del contabile era “una persona colma di dispiaceri” (p. 43)
Una fallita nel progetto di sposare Fracassi.
Zia Edda si occupa di pubbliche relazioni e organizza convegni.
“Gran bella donna. Ha una casa costosa, paga un milione di telefono ogni due mesi ed è molto amica di Franca Rocchetta” (p. 44) la sorella di Mario.
Soneri indaga seguendo le tracce del malaffare dell’azienda e di Rocchetta per il quale “prova ammirazione” in quanto “se n’era andato piantando tutto, trovando forse la libertà che altri non avevano, chiusi nei loro ruoli come in una pièce teatrale” (p. 55).
La libertà si rivela il valore supremo di questo romanzo.
“Tutti i giorni…ne scopriva le qualità…e la sua ammirazione cresceva…Un uomo taciturno, posseduto da pensieri ossessionanti, persino corrosivi, culla di una fuga perfetta. Ci aveva pensato per anni nel grigiore di una vita mediocre. Divenuto senza particolari meriti il complice di un giro illegale di denaro…aveva messo in piedi un’uscita perfetta, costruendola giorno per giorno come un veliero di fiammiferi” (p. 58)
Soneri continua a seguire tracce. Va a Milano, poi in Svizzera
Investiga su una storia di ladri e derubati che non possono denunciare i ladri in quanto disonesti anche loro.
Le orme da seguire sono quelle lasciate dal denaro: “i soldi sono il motore di tutto. Uno tiene d’occhio il denaro e spiega il mondo” (p. 64)
Altri solitari: gli uomini dei servizi “ gente strana e spaiata, affondata in solitudini da cui emergeva una maniacalità che proliferava fino all’ossessione” (p. 65). Uno di loro,  Elker, era “diffidente come una faina”. Ricordo, per contrasto, la confidenza che correva tra noi giovani alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta. Allora tutta la vita era più bella. Poi la serie di stragi hanno instaurato la diffidenza tra gli uomini e tra uomini e donne, perfino tra ragazzi e ragazze. All’epoca le ragazze ci erano necessarie come l’aria che si respire, come la luce del cielo.
Soneri si reca nella bassa,  nella casa della madre di Rocchetta “una donna molto anziana e un po’ curva con una faccia afflitta e grinzosa.
 Un’altra creatura sofferente in un mondo ubi sola pecunia regnat. Eppure questa donna conserva l’affetto per il figlio che le manca.
La madre dolorosa dice a Soneri: “Ho capito che lei è un poliziotto, e allora io la prego di cercare Mario e semmai lo trovasse gli dica di me, di una povera vecchia che l’aspetta” (p. 73)
Soneri ne è colpito: “forse per la prima volta in quella vicenda si era trovato di fronte a un’afflizione vera” (p. 74)
Nel mondo dove il denaro è tutto, gli affetti sono niente, meno di niente. La gente recita delle parti per trarre profitto dal prossimo, mentendo, ingannandolo.
Quelli della Verre erano “un bel coro di ipocriti” (p. 78)
Verre forse allude al propretore ladro della Sicilia (dal 73 al 71)  Gaio Licinio Verre accusato da Cicerone  nelle orazioni  in Verrem, le Verrine.  Aveva accumulato una fortuna in opere d’arte: statue (Prassitele, Mirone, Policleto)  quadri, mobili pregiati. Non si può non pensare a Callisto Tanzi.
Quindi Soneri va a indagare a Londra dove mangia male ma beve buona birra “una pinta rossa da sorseggiare come un barolo d’annata” (p. 83)
Soneri non è insensibile al cibo e alle bevande ed è sensibile all’arte. Torna ancora una volta alla National Gallery dove “non si stancava mai di osservare i dipinti”. In particolare La Cena in Emmaus del Caravaggio (1601, cfr. N. T. Luca, 24. 16-32)
“Pensò che un buon quadro assomiglia a un’inchiesta complessa: non bisogna mai stancarsi di esaminarlo” (p. 84). Ogni volta si trovano nuovi significati.
Poi scopre che Rocchetta è alle Barbados “Dormì soddisfatto, come dopo un lungo corteggiamento corrisposto”.
La fuga è un fenomeno secondario: il reato consta di evasioni fiscali e frodi (p. 88)
Ma Soneri è affascinato da Rocchetta: preparando la partenza i suoi” movimenti somigliavano a un rito di immedesimazione nei gesti e nei pensieri di Rocchetta” (p. 89)
Forse il dipinto di Caravaggio con il riconoscimento del Cristo risorto, gli fa pensare al ritrovamento di Rocchetta.
Alla Barbados entra in contatto con la moglie di un diplomatico, una contessa con la quale sfiora una storia d’amore, Riceve comunque   informazioni con chiarimenti
Le autorità locali tollerano i ricchi evasori: “la protezione la dà il denaro: nessun paese vuole distruggere la fonte primaria della propria ricchezza… il denaro è tutto e apre qualsiasi porta” (p. 94).
“Non solo qui” replicò Soneri.
In questo rifugio di arricchiti poco onesti: “C’erano una quantità di ville che parevano progettate dalla stessa mano. Sorrise all’idea che coi soldi non si potesse comprare un briciolo d’originalità” (p. 99)
La natura infatti è più aristocratica di una società feudale basata sulle caste. L’intelligenza, il buon gusto, il carattere non sono comprabili.
Un personaggio chiave nell’ultima parte del romanzo è Max Secchi, uno il
cui “unico genere di argomento ammesso è il denaro” (105)
Alla contessa Secchi non interessa mentre la donna trova interessante Soneri anche se gli fa: “il resto è impossibile”
Nel penultimo capitolo Soneri si trova in un bar dove aleggia il pericolo: “non si sa mai. Solo i peccati dei potenti passano inosservati” (p. 106)
Soneri viene a sapere che Secchi controlla Rocchetta “Gli procura gli alloggi e gli ordina gli spostamenti come ad un ostaggio”
Sembra essere il burattinaio.
Rocchetta dunque non è un uomo libero come credeva Soneri ma  è un prigioniero tenuto sotto sorveglianza: “Temono che sveli tutto, o che venga costretto dai derubati. Mi creda-fa la contessa- , lascerebbe tutti i miliardi pur di riprendersi la libertà”.
Questa evidentemente per alcuni vale più dei soldi.
Rocchetta fa avere a Soneri una busta con un messaggio. “Vediamoci da Pisces…In caso di pericolo avverta il cameriere calvo che si chiama James, è un amico” (p. 118)
Da Pisces il pericolo è più forte. Rocchetta riceve l’avvertimento di stare alla larga. Questi truffatori sono anche dei potenziali assassini: assoldano dei gangster.
Nell’ultima pagina Soneri si trova sull’aereo del ritorno.
 Legge un biglietto che Rocchetta gli ha fatto infilare  in una tasca. Il contabile ha scritto di essere sottoposto a controlli insopportabili. “D’altro canto è tutta la mia vita qui ad essere insopportabile…mi tengono sotto controllo perché non parli, altri vorrebbero invece che lo facessi. La sua indagine ha aggravato la situazione” (p. 124).
Del resto Rocchetta si è premunito lasciando documenti nella cassetta di sicurezza di una banca svizzera e istruzioni alla banca nel caso gli fosse successo qualcosa
Rinuncerebbe ai soldi pur di tornare libero ma i suoi carcerieri non lo lasciano andare
“Sono cresciuto con l’idea che i soldi potessero aprire tutte le porte, ma ce ne sono di quelle che non dovrebbero essere aperte mai”.
Rocchetta conclude chiedendo a Soneri di non aggravare la sua situazione, di lasciare che su lui e la sua famiglia cali l’oblio della morte presunta
“E’ meglio per tutti. Solo quando nessuno parlerà più di noi forse io tornerò ad essere un uomo libero. Avverta solo mia madre: non farò in tempo a rivederla. M. R. “
Sono le ultime parole .
Giovanni Ghiselli

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Twitter, XXX antologia

LE AUTOMOBILI CONTINUANO AD AMMAZZARE DONNE E BAMBINI. Ogni giorno persone assassinate. MA QUESTO NON è UN CRIMINE, è UN “INFORTUNO INVOLONTARIO”: LE AUTOMOBILI infatti SI “DEVONO” VENDERE

Vasco Rossi è un maestro di disordinate trasgressioni funzionali al potere e gradite ai fannulloni incapaci di tutto

La fine della leva obbligatoria ha di fatto escluso, tra le altre, la parte più colta e civile della popolazione dal servizio militare.

Il declino della cultura e della coscienza delle classi medie determina la richiesta di prodotti meno belli. I nostri artigiani si uccidono
 I nostri maestri di bottega sapevano produrre manufatti belli. Ora questi sono sommersi dal grigio diluvio globale di prodotti scadenti importati da ogni parte, e gli artigiani artisti, chiudono bottega

La decadenza del gusto favorisce la vendita di prodotti scadenti importati dall'estero. L'incultura danneggia il mercato delle cose belle

La sconfitta dell'Italia è totale: ci vuole altro sangue nelle antiche vene. Ma non quello di personaggi come Balotelli o la Picierno che pure è carina

Se la vittoria del pallone italico poteva scatenare l'alalà della vittoria di Berlusconi e dei suoi simili, la sconfitta pallonara è un bene per l'Italia.

giovanni ghiselli

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martedì 24 giugno 2014

Twitter, XXIX antologia

Twitter 23 giugno

quando i politici rubano e non vanno in galera dicitur illa libertas, est vero licentia,  si chiama libertà ma è arbitrio sfrenato del potere

Kalo;~ oJ kivnduno~
è bello il rischio che si corre credendo nella bellezza e nell'amore.

I bambini obesi sono frutto dell'educazione sbagliata impartita da madri ignoranti e da mariti delle madri eunuchi

Il denaro deve essere un'occasione per l'azione, non per una vanteria, talora anche millantata, di parole

Il polìtes, il cittadino, deve essere uomo politico. Chi non partecipa alla vita politica non è un uomo tranquillo; è un individuo inutile

Solone sancì l'atimìa. la privazione dei diritti civili per quanti, in caso di sedizione, non si schieravano (Plutarco, Vita di Solone, 20, 1).

I professori fascisti, ancora nel dopoguerra, ordinavano: "a scuola non si fa politica!" Altrettanto facevano gli ufficiali nelle caserme.

Gli oligarchi ateniesi contrapponevano l’esaltazione della vita privata (tà heautoù pràttein) alla volontà e al dovere della partecipazione politica.

Euripide polemizza con l'astensionismo politico.  Il Ciclope del dramma satiresco afferma che il suo dio è la pancia e biasima i legislatori

L'impoliticità dei Ciclopi è già rilevata da Omero: non hanno assemblee deliberanti, non leggi comuni ciascuno dà legge ai figli e alla donna (Odissea, IX, 112 ss.)

Alcuni errori politici fanno più danni, cioè più morti, dei peggiori delitti. La guerra all'Iraq, per esempio. Lo dicevo, a scuola, quando la propaganda dei guerrafondai “armiamoci e partite!” spargeva menzogne.

Pericle diresse Atene negli anni della massima potenza e ricchezza della città. Eppure non accrebbe di una sola dracma il proprio patrimonio (Plutarco, Vita di Pericle, 15, 3). L’antitesi di gran parte dei nostri politici


Chiarirò alcune di queste affermazioni sul significato di essere cittadino in una conferenza che terrò domani sera, 24 giugno, alle 20, in piazza Verdi, a Bologna.

giovanni ghiselli

P. S.
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mercoledì 18 giugno 2014

Le Vespe di Aristofane

Nelle Vespe del 422, il commediografo mette in rilievo la parzialità dell’Eliea che in origine era una corte d’appello istituita da Solone, poi ampliata fino a seimila giudici.
 All’Eliea erano affidati i processi che non venivano attribuiti ai tribunali del sangue, all’Areopago,
 I 6000 eliasti erano sorteggiati in numero di 600 per tribù. Unici requisiti avere compiuto 30 anni e il possesso dei diritti politici. Aristofane mette in ridicolo un vecchio eliasta (Filocleone) fanatico dei processi e di Cleone che del resto gli dà solo le briciole.
Filhliasthvς ejstin (87).
Il figlio, Bdelicleone che ha schifo (bdeluvssw, provo disgusto) di Cleone, lo chiude in casa.
Il vecchio spasima perché vuole fare del male (kako;n ti poih̃sai, 320 e cfr. 340),
Cerca di fuggire nascosto sotto un asino (178) e in altri modi ma i servi di Bdelicleone, suoi carcerieri,  lo bloccano
Il vecchio chiama in aiuto i colleghi eliasti, un gruppo di vecchi che diventano come un nido di vespe se qualcuno li stuzzica: hanno un pungiglione acutissimo (e[cousi ga;r kai; kevntron ojxuvtaton 225-226) con il quale pungono (w\ kentoũsi) e con grandi salti urlano.
Filocleone chiede aiuto contro il figlio che non vuole lasciargli fare del male  (340)
Il Coro minaccia i servi  carcerieri
 Schifacleone  viene accusato di aspirare alla tirannide
Il giovane ribatte che per loro tutto è tirannide e congiura.
La tirannide è assai più a buon mercato del pesce salato (pollw̃/ toũ tarivcouς ejstin ajxiwtevra , 491) tanto che il suo nome gira per tutta la piazza (w{ste kai; dh; tou[nomj aujth̃ς ejn ajgorã/ kulivndetai, 492)
Se uno che va a comprare il pesce chiede scorfani (ojrfwvς) e non vuole sardelle (membravdaς, 493), quello che vende sardelle dice: “quest’uomo ha l’aria provviste per la tirannide” 495)
Se uno chiede della cipolla (ghvteion) per condire le alici, l’ortolana lo guarda di traverso e fa: “ di’ un po’: chiedi della cipolla per la tirannide?
Il secondo servo dice che il giorno prima una puttana cui aveva chiesto di cavalcarlo, gli aveva chiesto se voleva ristabilire la tirannide di Ippia.
La città dunque è piena di delatori e Bdelicleone non vuole che il padre si alzi all’alba per frequentare sicofanti e tribunali.

Filocleone dice al figlio quali sono i vantaggi della sua carica:  gli eliasti ricevono favori anche sessuali e non devono rendere conto a nessuno (ajnupeuvqunoi drw̃men, 587)
Anzi, davanti ai giudici dell’Eliea se la fanno sotto i ricchi e i potenti ( ejgkecovdasiv m j oiJ ploutoũnteς (627)

Ma il figlio Filocleone esorta il “babbino”(pappivdion, 655) a calcolare qual è il tributo (to;n fovron) che Atene  riceve dalle città alleate poi tutte le altre rendite (tevlh, imposte, miniere, mevtall j , mercati, porti, confische 649). Sono duemila talenti. Gli stipendi dei 6000 eliasti arrivano 150 talenti (un talento equivalgono a 6000 dracme a 36 mila oboli)
Il vecchio ci rimane male: nemmeno la decima parte?
E gli altri quattrini?
Il figlio risponde che vanno ai demagoghi che adulano  la folla e prendono cinquanta talenti alla volta dagli alleati terrorizzandoli prima, poi facendosi corrompere
Tu ti accontenti di rosicchiare i rimasugli del tuo potere (672) dice Bdelicleone a suo babbo.
Tu sei calcolato quasi niente (tre oboli) mentre i demagoghi si pappano vasi di pesce marinato, vino, tappeti, cacio (turovn), miele, sesamo, cuscini, coppe, mantelli, corone, collane, tazze, abbondanza e buona salute e quelli cui tu credi di comandare nemmeno ti danno un capo (skorovdrou kefalhvn, v. 679) d’aglio per i tuoi pesciolini-
Insomma, demagoghi e adulatori traggono grandi profitti, tu, se uno ti dà quei tre oboli (treĩς ojbolouvς) sei felice. Eppure hai combattuto e hai faticato per la città
Ti lasci dare ordini da un giovincello rotto in culo ( meiravkion katapuvgwn , 687) che ti fa fretta, mentre lui non ha orari e prende una dramma (dracmhvn, 6 oboli). Inoltre prende denaro dagli accusati che assolve.
Filocleone comincia a pensarci su
Il figlio continua: sei sempre stato raggirato da questi atteggiati ad amici del popolo (ujpo; tw̃n  dhmizovntwn, 699).
Vogliono che tu sia povero e arrabbiato per aizzarti contro il loro nemici.
Potrebbero sostenere il popolo nel benessere con i tributi delle città alleate. Con le mille città che pagano, potrebbero mantenere 20 mila ateniesi a carne di lepre e formaggio, fra le corone, un tenore di vita degno di Maratona.
Io ti tenevo chiuso volendo nutrirti e perché non ti beffassero questi enfatici parolai dalla bocca aperta bovskein ejqevlwn kai; mh; touvtouς-ejgcavskein soi stomfavzontaς (720-721)

I vecchi eliasti oramai sono convinti da Bdelicleone il quale per giunta promette di dare al babbo quanto giova a un vecchio: farinata da leccare (covndron leivcein) un mantello soffice (claĩnan malakhvn) e una puttana che gli strofinerà il bischero (povrnhn h{tiς to; pevoς triyei, 739) e i lombi.
Il vecchio pare rinsavito.

Ma rimpiange i processi. Ora vorrebbe processare Cleone
Il figlio gli propone di fare il giudice in casa. Il salario (misqovς, 784) glielo darà il lui e non dovrà dividerlo con nessuno
Filocleone gli dà anche il pitale (urinale, ajmivς)  come favrmakon straggourivaς, rimedio della stranguria (stravgx, goccia, ou\ron, urina). Stenosi delle vie urinarie.  Poi gli offre il fuoco e un piatto di lenticchie (fakh̃) da ingollare.
Il cane Labes (deformazione caricaturale di Laches, lo stratego sconfitto in Sicilia ) ha rubato una caciotta siciliana.
Il figlio prega Apollo che tolga l’ortica all’ira del padre e metta il miele al posto della mostarda. L’ojrghv nella tragedia caratterizza il tiranno
Viene introdotto il cane accusato, Laches. Un altro cane lo accusa.
Lo stratego Lachete combattè in Sicilia fu processato per furto, e morì nel 418 a Mantinea.
Lacbes-Laches il cane accusato, secondo il vecchio è il furto in persona. Il gallo messo lì per tenere sveglio Filocleone sembra confermare. Il vecchio chiede il pitale e piscia (oujreĩ, 940) 
Il cane non sa difendersi come Tucidide che accusato rimase paralizzato nelle mascelle (v. 947).
Lo storiografo venne esiliato nel 425 per la perdita di Anfiboli.
Ma potrebbe essere Tucidide figlio di Melesia, l’antico avversario politico di Pericle.
Il figlio difende il cane dicendo che non ha avuto una buona educazione; “non sa suonare la cetra” kiqavrizein ga;r oujk ejpivstatai” (959)
Bdelicleone fa anche entrare i bambini (cuccioli di cane) per impietosire il giudice
Il vecchio si commuove e piange
Il figlio fa in modo che il padre assolva, oujc eJkwvn, contro voglia, il cane facendogli sbagliare l’urna del voto.
Il vecchio non si capacita: ha assolto a[kwn (1002, senza volere)
Il figlio promette assistenza al padre che non verrà più ingannato da Iperbolo, altro demagogo.

Segue la I Parabasi
Il coro durante la Parabasi è la voce di Aristofane il quale rivendica il merito di non avere reso mezzane le sue muse e di essersela presa non con gente dappoco ma con i più potenti con impeto degno di Eracle.
 Si è messo subito a lottare proprio con lo zannuto (xusta;ς tw̃/  karcarovdonti, 1031) . E Cleone che ha la voce di un torrente rovinoso e fetore di foca e coglioni immondi di Lamia[1] e culo di cammello (prwkto;n de; kamhvlou, 1035)
Il poeta rimprovera il pubblico di non avere apprezzato l’anno prima la sua commedia (423 le Nuvole , sconfitte dalla Damigiana di Cratino. Verrà rifatta nel 419).
Aristofane si definisce ajlexivkakon, quello che tiene lontano i mali e kaqarthvn (1043) purificatore della sua terra (th̃ς cwvraς th̃sde)
Le Nuvole dunque erano bellissime ma il pubblico non le ha capite.
Per l’avvenire gli spettatori dovranno apprezzare tra i poeti quelli che cercano di dire qualcosa di nuovo: i loro pensieri dovranno essere conservati come le mele cotogne: renderanno le vesti profumate di intelligenza.
I vecchi rivendicano il valore delle loro chiome bianche: la loro vecchiaia vale più dei riccioli di molti giovanotti e della loro impudicizia (1068-1070)
Le Vespe poi rivendicano il loro valore nelle guerre persiane: qualcuno può meravigliarsi vedendo il corifeo meson diesfhkwvmenon (con il vitino di vespa, diasfhkovw (1072). Ma non c’è niente di più virile di una vespa attica. Ne sanno qualcosa i persiani.
I tributi saccheggiati dai giovani li hanno procurati loro, dopo avere preso città dei Medi.
Sono simile alle vespe perché sono iracondi. Nei tribunali punzecchiano tutto (pavnta ga;r kentoũmen e si procurano i mezzi per vivere, 1113). Ma ci sono ad Atene anche tanti fuchi (khfh̃neς) infingardi senza aculeo ( oujk e[conteς kevntron, 115) e mangiano il frutto delle loro fatiche.
Chi non ha il pungiglione dunque, non deve ricevere solo pochi oboli

Filocleone  non vuole togliersi la veste da giudice
Il figlio prova a dargli una veste persiana. Poi sandali spartani
Quindi gli insegna a camminare con eleganza. Al vecchio viene voglia di sculettare (sauloprwktiãn, 1173)
Prova a fare discorsi ma non ne è capace
Il figlio cerca di insegnargli l’educazione: a stare in compagnia eujschmovnwς (1210), in maniera decente.
Deve stendere le ginocchia e stendersi ejn toĩς strwvmasin, sui tappeti, gumnastikw̃ς con mosse da atleta. Poi deve apprezzare qualcuno dei vasi, osservare il tetto, ammirare i tendaggi della salsa. Lavarsi le mani e cenare.
Schifacleone finge di essere Cleone e Filocleone lancia insulti al demagogo che rovinerà Atene. I due cantano canti conviviali

Poi escono ed entra il coro per la II Parabasi.
Gli eliasti ricordano Aminia che andò come ambasciatore tra i Tessali e là stava con i Penesti: i poveri e gli schiavi, lui che era il più peneste di tutti (penevsthς-w|n e[latton oujdenovς (1273-1274). Aminia  voleva armare i penesti contro gli aristocratici
Poi viene sfottuto il famigerato Arifrade che da solo col suo bell’ingegno, ha imparato a lavorare di lingua glwttopoieĩn ogni volta che entra nei bordelli ( eijς ta; porneĩ  j eijsiovnq j eJkastovte, 1283)
Già nella II Parabasi dei Cavalieri  del 424, era ricordato   jArifravdhς ponhrovς che ha fatto una invenzione :
th;n ga;r auJtoũ glw̃ttan aijscraĩς hJdonaĩς lumaivnetai
ejn kasaureivoisi leivcwn th;n ajpovptuston drovson
Kai; moluvnwn th;n uJphvnhn kai; kukw̃n ta;ς ejsceavraς (1283-1286)
Inquina la propria lingiua in turpi voluttà.
Leccando nei bordelli la rugiada buttata fuori
Imbrattando la barba e turbando le fiche.
Nella Pace  (del 421) Arifrade fa segno di portargli Teoria , ben lavata, con il sedere in ordine, un culo da festa quinquennale. Ma Trigeo dice che Arifrade si getterà su di lei e le tracannerà tutto il brodo: “to;n zwmo;n aujth̃ς porospeswn ejklayetai (ejklavptw , v. 885), zwmovς era anche il brodo nero deglo Spartani

La conclusione della  II parabasi delle Vespe   ricorda i contrasti tra Aristofane e Cleone
Nel 426 Aristofane sferrò il primo grande attacco a Cleone con i Babilonesi  che denunziava l'imperialismo ateniese e lo sfruttamento imposto alle città alleate: nel 427 anzi Mitilene, che aveva cercato di uscire dalla lega delio-attica, era stata riassoggettata con estrema durezza che il demagogo avrebbe voluto inasprire ancora di più dando a tutti i potenziali ribelli l'esempio di un vero e proprio genocidio. Per fortuna, come vedremo in Tucidide che lo definisce "il più violento (biaiovtato") dei cittadini.. e il più capace di persuadere (piqanwvtato") il popolo (III, 36) la  proposta criminale di Cleone non passò. Prevalse Diodoto, e vennero comunque uccisi un migliaio di Mitilenesi.
In seguito alla  coraggiosa denuncia dei Babilonesi , rappresentato alle Dionisie, festa cui partecipavano i rappresentanti delle città alleate, Cleone  accusò Aristofane di avere diffamato il popolo davanti agli stranieri. Lo ricorda l'autore negli Acarnesi (vv. 377 e sgg.) non senza compiacimento per essersela cavata, mentre nella parabasi dei Cavalieri  (anno 424) si giustifica del fatto di non avere curato la regia dei drammi precedenti diretti da Callistrato:
" non per stoltezza gli è capiato di indugiare ma poiché riteneva che mettere su una commedia è l'impresa più difficile di tutte", ajlla; nomivzwn/kwmw/didaskalivan ei\nai calepwvtaton e[rgon aJpavntwn"(vv. 515-516).  

Veniamo agli ultimi versi delle Vespe (1292-1473)
Un servo ha preso delle bastonate da Filocleone e chiama beate le tartarughe per la loro corrazza: “ijw; celw̃nai makavriai toũ devrmatoς (1292) e tre volte beate per la copertura sui fianchi.
Un altro servo lo chiama paĩ, garzone, poiché le ha prese.
Il primo servo biasima il vecchio pestifero e avvinazzato e uJbristotovtatoς, il più violento della compagnia. Dopo essersi riempito saltava, ballava, scoreggiava e rideva (1305) come un asinello rimpinzato d’orzo
Teofrasto, un cattivo poeta tragico, delicato com’è torceva la bocca. E il vecchio lo insultò.

Arriva Filocleone con una danzatrice discinta. I due sono inseguiti da una folla ostile
Un convitato (sumpovthς ) dice su; dwvseiς au[rion touvtwn divkhn (1332),  domani ce la pagherai: ti citeremo in giudizio.
Ma il vecchio ora non sopporta nemmeno di sentire parlare dei processi- a\rav gj i[sq j –wJς oujd j ajkouvwn ajnevcomai-dikw̃ (1335-1336)
Poi mostra le forme della ragazza e dice: tavde m j ajrevskei: bavlle khmouvς (1339), queste mi piacciono, butta via i coperchi delle urne!
Quindi si rivolge alla ragazza chiamandola piccolo maggiolino dorato e le chiede di prendere in mano la sua…corda (cfr. co’ ‘sta pioggia e co’  ’ sto vento).
La corda è fradicia (sapro;n to; sconivon, 1342)  ma una stropicciatine non le dispiacerebbe. “Devi mostrarti grata a questo bischero poiché ti ho portata via abilmente quando stavi per fare come le sporcaccione con gli invitati. Se mi farai un bel servizio, io, quando sarà morto mio figlio, ti renderò libera e mia concubina, w\ coirivon, bella troietta-1353.

Cfr. il vecchio Feodor Karamazov: “Intanto sono ancora un uomo, non ho che 55 anni, ma voglio esserlo per una ventina di anni ancora, e sarà proprio allora, quando sarò vecchio e ripugnante, ed esse non vorranno più saperne di me, che mi occorreranno i quattrini! Ora sto accumulando denaro quanto più posso, sempre di più, unicamente per me caro figlio mio, Aljekjei Feodorovitc, perché voglio vivere fino al termine dei miei giorni nella sozzura, sappiatelo. La sozzura è dolce: tutti la oltraggiano e tutti ci vivono; solo, tutti lo fanno di nascosto; io, invece, lo faccio apertamente. E proprio per questa mia franchezza, tutti gli altri si sono accaniti contro di me” ( I fratelli Karamazov, IV, 2, il padre, p.235)

Filocleone dunque dice che non è ancora padrone delle sue sostanza perché ancora giovane e troppo sorvegliato (nevoς gavr eijmi kai; fulavttomai sfovdra) 1355
 Il mio figlioletto mi fa la guardia to, ga;r uJivdion threĩ me , lui è duvskolon, intrattabile e avaro uno che spacca il cumino. Ma io sono l’unico padre che ha.

Arriva il figlio insultandolo: stupido e compressore di fica (coirovqliy, 1364 coĩroς e qlivbw, comprimo). Mi sembra che tu abbia bisogno di una bella bara (poqeĩn ejrãn tj e[oikaς wJraivaς soroũ, 1365) 
Hai rubato la flautista ai convitati
Quale flautista?  (poivan aujlhtrivda;) 1369 chiede il vecchio e nega che sia una ragazza. E’ una fiaccola che brucia in piazza in onore degli dèi (ejn ajgorã/ qeoĩς da;ς kavetai, 1373)
Non vedi che è screziata?
E quel nero nel mezzo cos’è?-le donne erano brune, non come nei poemi omerici-
E’ la pece (hJ pivtta) che viene fuori quando brucia.
E quello dietro non è prwktovς , il culo?
No, è un ramo della fiaccola che sporge (o[zoς)
Il figlio vuole portargliela via: tanto so bene che sei fradicio e non ce la fai (se kai; nomivsaς sapro;n –koujde;n duvnasqai drãn, 1380)
Il vecchio minaccia il figlio di fargli gli ematomi sotto gli occhi (uJpwvpia) come fece una volta un vecchio pugile a uno giovane a Olimpia quando Filocleone era osservatore ufficiale (ejqewvroun ejgwv)
Passa una donna che si lagna di essere stata urtata per cui ha fatto cadere a[rtouς dek j dieci pani da un obolo
La donna li vuole denunciare davanti agli ispettori del mercato (pro;ς tou;ς ajgoranovmouς, 1406): testimone sarà Cherefonte, il discepolo di Socrate già messo in caricatura nelle Nuvole (vv. 104, 144, 504)
Filocleone mena il can per l’aia dicendo assurdità.
Arriva un uomo che vuole querelare  per violenza.
Bdelicleone dice che pagherà
Il padre ammette di averlo preso a botte e a sassate e gli chiede di stabilire la multa. Ma l’uomo ha paura.
Filocleone si esprime di nuovo con un nonsense.
Il figlio lo biasima, ma il vecchio continua a snocciolare storielle assurde su cani, sibariti e scarabei.
Il Coro invidia il vecchio che si è fatto furbo e si darà tutto alle delizie e alle mollezze (metapeĩsetai-ejpi; to; trufw̃n kai; malakovn (1455)
Non è facile cambiare abitudini, ma a volte il contatto con le idee degli altri provoca questo effetto.
Molte lodi riceverà il figlio  Bdelicleone dia; th;n filopatrivan kai; sofivan (1465)
Quel giovane è amabile ajganovς e di buone maniere, assai godibili
E’ riuscito a rendere migliore suo padre.

Il vecchio intanto entrato in casa, sentito il flauto, continua a danzare per tutta la notte le danze di Tespi, l’iniziatore della tragedia (534 a. C.)

Poi torna in scena Filocleone vestito da Polifemo e vuole continuare la danza.
Canta che la testa del femore gira agile nelle sue articolazioni ejn a[rqroiς toĩς hjmetevroiς-strevfetrai calara; kotulhdwvn (1494-5)
Un servo dice : manika;; pravgmata, cose da matti
Il vecchio sfida a gara i suoi rivali tragediografi
Entra un ballerino vestito da granchiolino che accetta la sfida, figlio di Carcino, un poeta tragico messo in ridicolo
Filocleone lo beffeggia, poi arriva un altro granchiolino
Il vecchio dice che se li mangia tutti e due.
Poi entra un terzo, strisciando e Filocleone domanda se è un tappo o una tarantola
E’il padre, il paguro piccino che fa le tragedie
Filocleone chiede la salsa per mangiare quello sciame di scriccioli
Il Coro fa una danza finale invitando tutti a ballare alzando le gambe.
Il padre sarà contento dei tre scriccioli saltatori
Escono tutti danzando (1537)


[1] Mostro che si ciba di carne umana.

domenica 15 giugno 2014

Essere cittadino - terza parte

Essere cittadino III parte 14 giugno 2014
Tucidide II, 40, 2
Il cittadino-polivthς, non può non partecipare alla vita della povliς.
Solo noi consideriamo (nomivzomen) non pacifico ( oujk ajpravgmona) ma inutile (ajll j ajcreĩon) chi non prende parte alla vita politica (tov te mhde;n tw̃nde metevconta).
Plutarco ricorda che tra le leggi di Solone era sorprendente quella che sanciva l’ajtimiva, la perdita dei diritti per chi in caso di sedizione non si fosse schierato da nessuna parte (Vita di Solone, 20, 1)
Alla direttiva del mevtecein gli oligarchici contrapposero l’esaltazione della vita privata con il ta; eJautoũ pravttein
I professori  fascisti dicevano: a scuola non si deve fare politica.
Anche Euripide polemizza contro questa tendenza all’astensionismo politico. Il Ciclope del suo dramma satiresco afferma che il suo dio è la pancia e biasima i legislatori che con le leggi hanno complicato la vita umana ( oiJ de; tou;ς novmouς- e[qento poikivllonteς ajnqrwvpwn bivon, Ciclope, 338-339)
 
II, 40, 2
Non riteniamo i discorsi un danno per le azioni (ouj tou;ς lovgouς toĩς e[rgoiς blavbhn), ma piuttosto è un danno non essere informati con la parola prima di agire
 
II, 40, 3
Calcoliamo i rischi in maniera molto precisa, eppure osiamo . Anche in questo ci distinguiamo dagli altri (diaferovntwς kai; tovde e[comen).
C’è l’orgoglio della propria diversità
“Ma ecco, non bisogna essere come gli altri”. suggerisce Alioscia Karamazov allo studente Kolia [1]. “Continuate, dunque, a essere diverso dagli altri;  anche se doveste rimanere solo, continuate lo stesso”[2].
"Della nostra esistenza dobbiamo rispondere a noi stessi, di conseguenza vogliamo agire come i reali timonieri di essa e non permettere che assomigli ad una casualità priva di pensiero…E' così provinciale obbligarsi a delle opinioni che, qualche centinaio di metri più in là già cessano di obbligare…Al mondo vi è un'unica via che nessuno oltre a te può fare: dove porta? Non domandare, seguila" [3].
 
II, 40, 3
 Conosciamo lucidamente gli aspetti terribili e quelli piacevoli della vita e non per questo ci tiriamo indietro dai pericoli ta; te deina; kai; hJdeva safevstata gignwvskonteς kai; dia; taũta mh; ajpotrepovmenoi ejk tw̃n kinduvnwn”.
Viene in mente il dionisiaco e pure l’apollineo di Nietzsche
"Con il termine "dionisiaco" si esprime: un impulso verso l'unità, un dilagare al di fuori della persona, della vita quotidiana, della società, della realtà, come abisso dell'oblio…un'estatica accettazione del carattere totale della vita…la grande e panteistica partecipazione alla gioia e al dolore, che approva e santifica anche le qualità più terribili e problematiche della vita…
Con il termine apollineo si esprime: l'impulso verso il perfetto essere per sé, verso l'"individuo" tipico, verso tutto ciò che semplifica, pone in rilievo, rende forte… Lo sviluppo ulteriore dell'arte è legato all'antagonismo di queste due forze artistiche della natura così necessariamente come lo sviluppo ulteriore dell'umanità è legato all'antagonismo dei sessi. La pienezza della potenza e la moderazione, la più alta affermazione di sé in una bellezza fredda, aristocratica, ritrosa: l'apollinismo della volontà ellenica" [4].
 
Tucidide II, 40, 4
Siamo  il contrario dei più anche per quanto riguarda l’ajrethv: infatti  ci procuriamo gli amici non ricevendo il bene, ma facendolo ( ouj ga;r pavsconteς eu\ , ajlla; drw̃nteς).
Cfr. Edipo l’eroe della passività e Prometeo dell’attività (Nietzsche)
Chi fa del bene conserva cavrin, gratitudine, mentre chi lo riceve è lento a contraccambiare e teme di non potere farlo.
La cavriς è un valore molto forte della cultura greca (cfr. Teognide, l’Eracle di Euripide dove Teseo dice “cavrin de; ghravskousan ejcqaivrw fivlwn” 1223.
Oppure il Giulio Cesare di Shakespeare: “ ingratitude more strong than traitor’s arms/quite vanquished him: then …great Caesar fell” (III, 2)
O il Tito Andronico dove Tamora ex regina dei Goti dice a Saturnino di prendere tempo prima di annientare Tito che lo ha aiutato nell’ascesa al trono: rischierebbe troppo: “for ingratitude/which Rome reputes to be a heinous sin (I, 1), un peccato odioso.
 
II, 40, 5
Noi siamo i soli che portiamo aiuto a uno  senza timore (ajdew̃ς tina; wjfeloũmen) non più per il calcolo dell’utile (ouj toũ xumfevrontoς mãllon logismw̃̃/) che  per fiducia nella liberalità.  
 
II, 41, 1
Riassumendo dico che l’intera città è scuola dell’Ellade (xunelwvn te levgw thvn te pãsan povlin th̃ς j Ellavdoς paivdeusin ei\nai), una città dove ciascuno  può conservare la propria persona indipendente  a (to; swvma au[tarkeς, una specie di habeas corpus) con la massima eleganza (meta; carivtwn malist j ) e con versatilità (eujtrapevlwς) aperta a molti generi di formazione.
 
II, 42, 2
Questo non è un vanto di parole (ouJ lovgwn kovmpoς) ma verità di fatti (e[rgwn ajlhvqeia). Lo dimostra la potenza stessa della città (aujth; hJ duvnamiς povlewς shmaivnei).
La ajlhvqeia,  “non latenza” e la “non dimenticanza” dei fatti è la potenza della città.
 
II, 41, 3
La nostra è l’unica città che arriva alla prova più forte della fama –ajkoh̃ς kreivsswn- e non viene biasimata né dai nemici né dai sudditi poiché non è mai indegna del suo ruolo.
Un ruolo di comando
 
Caratteristiche e doveri di chi comanda
Senofonte nella Ciropedia (I, 3, 1) sostiene che il capo di buona natura si distingue per la rapidità nell’apprendere e per l’eleganza e il coraggio con cui agisce.
Platone nella Repubblica  fa dire a  Socrate che un capo vero e genuino ("tw'/ o[nti ajlhqino;" a[rcwn", 347d)  deve cercare non il proprio utile, bensì quello dei governati.
Manzoni ne I Promessi Sposi  afferma la persuasione "di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio ( XXII cap.).
 Così in effetti aveva insegnato un discepolo di Zenone ad Antigono Gonata re di Macedonia (276-239) cui "il regnare apparve un "onorevole servire", e[ndoxo" douleiva (Eliano, Var. hist.  II 20)" [5].
Seneca nel De Clementia  sostiene che la tanto celebrata felicità del principe consiste nel dare salvezza a molti, nel richiamare la vita dalla morte stessa e nel meritare la corona civica con la clemenza:"Felicitas illa multis salutem dare et vitam ab ipsa morte revocare et mereri clementia civicam "(III, 24, 5). 
Tra i moderni, in E. Fromm troviamo una posizione simile a quella, già indicata, di Manzoni:"Il capo non è soltanto la persona tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche l'uomo che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li serve. Obbedire a un cosiddetto capo senza queste qualità sarebbe viltà" [6].
Non proprio questo però era il ruolo di Atene nei confronti dei sudditi.

II, 41, 4. Siamo e saremo dai posteri senza avere bisogno né di un Omero elogiatore (oujde;n prosdeovmenoi ou[te   JOmhvrou ejpainevtou) né di chiunque altro  che diletterà con i versi sul momento ( ou[te o{stiς e[pesi me;n to; aujtivka tevryei).
( Cfr. cfr to; mh; muqw'de" di I, 22, 4" e la  mancanza del favoloso di questi fatti , verosimilmente, apparirà meno piacevole all'ascolto".-) e, subito dopo, “infatti  come un possesso per l'eternità più che come declamazione da udire  per il momento di una gara, essa è composta”.
La verità metterà nudo quanto è solo presunto e noi saremo ammirati per avere reso il mare e la terra accessibile (ejsbatovn) alla nostra audacia avendo edificato ovunque

II, 41, 5
Per una tale città dunque, perché non venisse loro tolta, i nostri concittadini morirono combattendo nobilmente gennaivwς ,

II, 42,1
Mi sono dilungato per insegnarvi –didaskalivan te  poiouvmenoς- che il nostro agone per una tale città non è lo stesso che hanno altri. Componente didascalica e agonistica.

Nietzsche scrive:"Indizi di una natura aristocratica: non degradare mai i propri doveri, pensando che siano i doveri di tutti; non voler rinunciare mai alla propria responsabilità e non volere dividerla con nessuno"[7].

II, 42, 2
Il valore dei morti ha reso belle le mie parole. Il discorso corrisponde ai fatti.

II, 42, 3
Quei morti possono avere compiuto anche azioni meno belle ma hanno fatto sparire il male con il bene recando pubblico vantaggio più di quanto abbiano danneggiato con i loro vizi privati

II, 42, 4
Nessuno di loro si rammollì (ejmalakivsqh) godendo della ricchezza, né rimandò il pericolo, ma stimò questo cimento il più nobile dei rischi (kinduvnon kavlliston) .
Preferirono soffrire che salvarsi cedendo (h] ejndovnteς sw/vzesqai) e nella brevissima occasione offerta dal destino se ne andarono al colmo della gloria.

Vediamo qui l’ideale eroico del non cedere (Achille nell’Iliade, Callino e Tirteo (VII secolo). Il guerriero piantato in prima fila è xuno;n ejsqlovn, un bene comune per la città e il popolo. Muore combattendo in prima fila con i piedi ben fissati al suolo e mordendo il labbro con i denti ceĩloς ojdoũsi dakwvn (Tirteo, fr. 10 W. 32)
Pindaro nell’Olimpica I scrive oJ mevgaς de; kivndunoς a[nalkin ouj fw̃ta lambavnei (vv. 82-83)
L’Achilleide di Stazio racconta l’educazione del Pelide da parte di Chitone che spingeva il ragazzo a battere nella corsa i cervi veloci e i cavalli dei Lapiti  (II, 111-113)
L’eroe non cede (Achille in Iliade XIX, 423 ouj lhvxw, non cederò) e Pericle nel terzo discorso della fine estate del 430 dice che Atene ha grandissima rinomanza tra gli uomini dia; to; taĩς xumforaĩς mh; ei[kein,  (II, 64, 3) per il fatto che non cede alle disgrazie.
Platone nel Fedro dice che hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche quelli che fanno prevalere la parte migliore dell’anima: l’auriga aiutata dal cavallo bianco.

Ma Leopardi nello Zibaldone sostiene che “l’eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie. Ogni eroe è imperfetto” (471). Enea è meno bello di Achille.

II, 43, 1
Questi caduti furono tali da convenire alla città (proshkovntwς th̃/ povlei ejgevnonto)
Le hanno dato un vantaggio. I vivi devono seguire il loro esempio

II, 43, 2
Dando la loro vita per il bene comune hanno ricevuto una lode che non invecchia (ajghvrwn e[painon ejlavmbanon) e una tomba dove la gloria rimane indimenticabile.

Nell’Eracle di Euripide,  il Coro dei vecchi Tebani dice: il valore delle imprese nobili è l’ornamento dei morti (“gennaivwn d j ajretai; povnwn toĩς qanoũsin a[galma” (357-358)
La loro tomba è un’ara, come quella dei caduti alle Termopili cantati da Simonide (bwmo;~ d j oJ tavfo~, fr. 26 P., v. 3) che riaffiora nella Canzone all’Italia di Leopardi (“La vostra tomba è un’ara”, v. 125)

II, 43, 3
Ogni terra è tomba degli uomini insigni il cui ricordo aleggia ovunque.

II, 43, 4
Considerate felicità la  libertà e la libertà coraggio e non abbiate paura della guerra.

Felicità è la coincidenza tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. L’infelicità è lo squilibrio tra la potenza e l’atto.

II, 43, 5-6
Più dolorosa della morte è la sventura con la debolezza morale.

II 44, 1
Morire può coincidere con essere felici. Quei morti hanno compiuto la vita felicemente.
 Cfr. La sapienza silenica

II, 44, 2-3-4
I genitori dei morti devono consolarsi pensando alla gloria. I più giovani possono avere la speranza di altri figli. La gloria non invecchia ed essere onorati è il guadagno più grande

II 45, 1-2
I morti hanno lasciato un grande esempio e una grande gara ai figli e ai fratelli (oJrw̃ mevgan to;n ajgw̃na)
Il vanto delle donne sarà non essere inferiori alla loro natura,  e buona sarà la reputazione di quella la cui rinomanza in lode o biasimo sarà minima tra gli uomini.

II, 46, 1-2
I sepolti sono stati onorati e i loro figli saranno mantenuti a spese pubbliche. Ora che avete pianto abbastanza, andate a casa.

II, 47, 1
Tale discorso cadde nell’inverno (431-430) e passato questo finiva il primo anno di guerra.

Ultimo discorso di Pericle (II. 60-64) e giudizio di Tucidide sull’uomo
Nel 430 ci fu la seconda invasione dell’Attica da parte di Archidamo e la peste,
Pericle ricorda di essere filovpoliς te kai; crhmavtwn kreivsswn (II, 60,  5) amante della città e superiore al denaro.
Un’identità che non cambia, mentre talora muta quella del popolo.
Dovete imparare a non cedere alle disgrazie (taĩς xumforaĩς mh; ei[kein)

Tucidide  apprezza Pericle: la sua provnoia, gli faceva prevedere che bisognava curarsi della flotta e non correre rischi (II, 65, 6-7).
Nella veduta tucididea la politica è l’arte della previsione.
Dopo la sua morte, gli Ateniesi vennero fuorviati dai demagoghi
Tucidide fa l'elogio finale di Pericle dicendo lo statista, per il fatto di essere chiaramente e assolutamente incorruttibile dal denaro (crhmavtwn te diafanw'~ ajdwrovtato~ [8] genovmeno~ , II, 65, 8) , teneva in pugno la massa lasciandola libera ("katei'ce to; plh'qo" ejleuqevrw"").

plh`qo~ sono i cittadini che formano la massa dell’assemblea popolare, la parte più “democratica” del popolo, in contrapposizione con correnti più conservatrici o anche oligarchiche” [9].

Confronto tra Pericle e Alcibiade che non realizzò i piani del suo predecessore.
Verso la fine delle Storie di Tucidide si legge che Alcibiade, quando (nel 411) la flotta di Samo si accingeva a navigare contro Atene, fermò i marinai nel momento in cui nessun altro sarebbe stato capace di trattenere la folla:"kai; ejn tw'/ tovte a[llo" me;n oujd  j  a]n   ei\~ iJkano;" ejgevneto katascei'n to;n o[clon"(VIII, 86, 5); egli però fu responsabile dell'impresa fallimentare di Sicilia che, a giudizio di Tucidide, fu "peggio di qualsiasi delitto; fu un errore politico o meglio una serie d'errori" [10].
Sulla vita privata non irreprensibile di Alcibiade, Tucidide afferma che aveva desideri troppo grandi rispetto alle sue ricchezze, sia per l'allevamento di cavalli sia per le altre spese:" ejpiqumivai" meivzosin h] kata; th;n uJpavrcousan oujsivan ejcrh'to e[" te ta;" iJppotrofiva" kai; ta;" a[lla" dapavna""(VI 15, 3); e, per questo essendo criticabile, non poteva permettersi a lungo l'arroganza con cui diceva:"Kai; proshvkei moi ma'llon eJtevrwn, w\    jAqhnai'oi, a[rcein"(VI 16, 1), spetta a me Ateniesi, più che ad altri comandare.
Pericle  poteva contrastare il dh'mo" fino a spingerlo all'ira (kai; pro;" ojrghvn, II, 65, 8) poiché era inattaccabile nelle questioni di denaro:"ciò gli dava l'autorità di dire al popolo la verità, anziché piaggiarlo. Egli ebbe sempre le redini in pugno: se la moltitudine voleva romper la cavezza, egli sapeva imporlesi e intimidirla; se era abbattuta, sapeva rianimarla. Così Atene sotto di lui, "non era più una democrazia che di nome, ma in realtà era l'imperio del primo uomo" [11].
Tucidide usa un'espressione ( " ejgivgnetov te lovgw/ me;n dhmokrativa, e[rgw/ de; uJpo; tou' prwvtou ajndro;" ajrchv", II, 65, 9) per la quale Jaeger nota che "la teoria filosofica posteriore, della costituzione mista quale ottima forma di Stato, è qui anticipata da Tucidide. La "democrazia" ateniese non è per lui la realizzazione di quell'esteriore eguaglianza meccanica che gli uni esaltano quale apice della giustizia, gli altri condannano quale suo opposto" [12].
La democrazia ateniese del tempo di Pericle, nel discorso epitafico di Aspasia riferito da Socrate nel Menesseno  di Platone è un’aristocrazia con il consenso della massa: “met j eujdoxiva~ plhvqou~ ajristokrativa” (238d).
E’ quello che Canfora chiama “ Il meccanismo della circolarità masse-capi….Il demo crede di imporre il proprio volere ma è il capo che lo pilota, anche attraverso i “retori minori”…Quella circolarità riemerge, sulla scala dei millenni, ogni volta che un moto di popolo, un ridestarsi del “popolo”, prende corpo e dà forma a uno Stato”[13].
Alexis De Tocqueville nota che “Atene, con il suo suffragio universale, non era dunque, dopotutto, che una repubblica aistocratica in cui tutti i nobili avevano eguale diritto di governo”[14]. Era insomma una aristocrazia democratica, e, per certi versi, socialista.  

“Pericle è considerato in particolare come colui che “reggeva saldamente la folla, pur nella libertà, e la guidava più di quanto non fosse da essa guidato” (II 65, 8), colui che aveva trasformato, quasi insensibilmente e senza pregiudizio alcuno per i cittadini, la democrazia vigente ad Atene in una sorta di regime personale: “a parole si trattava dunque di una democrazia, ma in realtà del governo del primo cittadino” (II 65, 9). Approvare in pieno e con entusiasmo la politica periclea, per un ateniese del tempo di Tucidide, significava sostanzialmente accettare le due realtà che ne costituivano le emanazioni più dirette: il regime democratico e l’impero. Qualche riserva, tuttavia, Tucidide esprime sia sulla politeia democratica, sia sul ruolo imperiale della città. Per quanto riguarda la democrazia, la questione è abbastanza semplice: lo storico manifesta con insistenza giudizi negativi e talvolta vero e proprio disprezzo nei confronti delle masse, che gli appaiono incompetenti, incostanti e volubili (cfr. II 65, 4; IV 28, 3; VIII 97, 2); di conseguenza, la sua adesione ad un regime che prevedeva e consentiva di fatto la partecipazione di tutti i cittadini al governo dello Stato era necessariamente subordinata alla esistenza di una qualche forma di controllo delle forze popolari. Uno dei grandi meriti di Pericle era stato appunto quello di avere esercitato una funzione di controllo sulla massa.
Il giudizio espresso a proposito del governo dei Cinquemila instaurato nel 411 a. C. costituisce un preciso riscontro a questa interpretazione della posizione politica di Tucidide: “allora per la prima volta, almeno per quanto riguarda i miei tempi, gli Ateniesi risultarono retti da un governo assai buono. Si ebbe, infatti, una moderata combinazione fra gli oligarchici e la massa e ciò contribuì più di ogni altra cosa a sollevare la città da una situazione che era diventata brutta” (VIII 97, 2).
Morto Pericle , vennero alla ribalta personaggi che non solo non erano in grado di esercitare alcuna funzione di controllo, ma subivano anche forti condizionamenti dalla massa ed erano più inclini a compiacerla per soddisfare le ambizioni personali che a contrastarla per salvaguardare i superiori e generali interessi dello Stato (II 65, 10).
 “Soltanto un regime di democrazia moderata o di oligarchia allargata, che comportava l’estromissione dalla vita politica di una parte consistente della cittadinanza sulla base dell’assenza della necessaria qualificazione censitaria, poteva incontrare l’approvazione e il plauso di Tucidide”[15].

 La guerra dunque fu persa per la mancanza di un uomo simile, il vero capo nell'antico senso solonico, mentre i suoi successori commisero una serie di sbagli, soprattutto quello di fare la spedizione in Sicilia:" hJmarthvqh kai; oJ ej" Sikelivan plou'""(II 65, 11) senza avere assegnato a chi partiva i mezzi sufficienti. Per giunta seguirono calunnie e discordie tra gli Ateniesi. Eppure, dopo la catastrofe siciliana, Atene resistette per dieci anni ai tanti nemici, a quelli di prima, e a quelli che si aggiunsero in seguito alla sconfitta, compreso il figlio del re di Persia, Ciro:"  o}" parei'ce crhvmata Peloponnhsivoi" ej" to; nautikovn" (Tucidide, II 65, 12) il quale forniva ai Peloponnesiaci il denaro per la flotta, fatto che segnò la fine della guerra e, dal punto di vista della letteratura, che è il nostro, provocò la chiamata a raccolta di tutte le energie contro i Persiani da parte di Euripide nell'Ifigenia in Aulide  in particolare, quando la ragazza proclama la necessità della guerra santa contro i barbari di Oriente (vv. 1397-1401 che vedremo più avanti).
(Esporrò questo percorso il 24 giugno alle 18, 30, a Bologna,  in piazza Verdi)

Giovanni Ghiselli

note:

[1] Quello che rifiutava i classici. Evidentemente glieli facevano male.
[2] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. 668.  Cito spesso questo romanzo, tante volte quante l’Odissea, o quasi. Mi conforta in questa scelta l’amico Piero Boitani: “Per il mio compleanno, sul finire di quell’anno 1’anno 1968…mi feci regalare da una coppia di amici l’Odissea greca nell’edizione oxoniense dell’Allen: la conservo ancora, naturalmente, con il loro biglietto di auguri per segnalibro. Da allora, e per almeno dieci anni, ho riletto il poema, nell’originale e in traduzione italiana o inglese, ogni anno: insieme ai Fratelli Karamazov, era il mio libro-e lo è rimasto” (P. Boitani, L’ombra di Ulisse, p. 45).
[3] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III (1874), Schopenhauer come educatore, p  167.
[4] F. Nietzsche, Frammenti postumi, Primavera 1888-14, p. 216.
[5] Pohlenz, La Stoa , p. 33.
[6] Psicanalisi Della Società Contemporanea , p. 299.
[7] Di là dal bene e dal male , Che cosa è aristocratico, 272
[8] Si pensi ai basilh'~ dwrofavgoi, i re divoratori di doni,  cui Esiodo chiede di raddrizzare i giudizi (Opere, 263-264).  
[9] Avezzù, Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 216.
[10] Jaeger, Paideia , I vol., p. 677.
[11] Jaeger, op. cit., p. 680.
[12] Op. cit. p. 684. La costituzione è un nutrimento di uomini (trofh; ajnqrwvpwn), di persone buone, se è buona, di individui malvagi se è cattiva.
Quella ateniese ha nutrito uomini di valore.
p. 198
Essa non esclude nessuno per debolezza sociale, né per povertà, né per oscurità dei padri; e neppure preferisce alcuno per i motivi contrari. I medesimi pregi vengono attribuiti alla “sua” democrazia  dallo stesso Pericle nel discorso che gli attribuisce Tucidide in Storie II 35 sgg. quando lo stratego fa l’encomio dei caduti nel primo anno di guerra e l’elogio di Atene, la scuola dell’Ellade (II, 41)
[13] Luciano Canfora, Legge o natura? In NOMOS BASILEUS, p. 59
[14] La democrazia in America, p. 479
[15] Mauro Moggi, Op. cit., p. 2303-2304.