domenica 17 agosto 2014

"Generazioni" di Remo Bodei, parte VIII della presentazione

Ottava  parte della presentazione del libro di Remo Bodei
Generazioni
Età della vita, età delle cose.  Editori Laterza, Roma-Bari 2014.

Bodei procede citando “le parole di Agostino, che tanto piacevano a Hannah Arendt ciascuno di noi nascendo costituisce una novità inimitabile, inizia una nuova storia”[1].
Gli anni turbolenti, di mutazioni epocali, nel quale visse Agostino (354-430 influirono indubbiamente  su questo pensiero del vescovo di Ippona:  si pensi per esempio, alle alterne sorti di Stilicone e al sacco di Roma da parte di Alarico.
Del resto, nota Bodei ciascun individuo “giunge in una realtà già fatta e condivide con i coetanei e i contemporanei le vicende del suo tempo”. Sono dunque le sensibilità diverse e le varie educazioni che si ricevono a fare le differenze. In ogni caso ogni generazione fruisce, o subisce, esperienze che la caratterizza. Per fare un esempio, la mia generazione di studenti    ha ricevuto un’impronta profonda dal  movimento del ‘68.
Ma quanti anni dura ciascuna generazione?
“In senso biologico, come distanza temporale tra genitori e figli, si contano tre o quattro generazioni per secolo” (Generazioni, p. 47). Ma se si intende l’ “insieme di coetanei che condividono determinate esperienze storiche…relativamente omogenee elaborate durante gli anni formativi”, la durata di una generazione “si ridurrebbe invece a quindici anni. Questa è, almeno, la proposta di José Ortega y Gasset, uno dei pionieri dello studio sull’argomento, che segue l’indicazione di Tacito[2]”. 

 Tacito segnala cambiamenti grandi e rapidi dei costumi e della cultura che i tiranni pervertono e deprimono abbastanza rapidamente ma con danni difficilmente riparabili , siccome l’abitudine alla severa disciplina richiesta dagli studi, una volta perduta, è molto difficile ritrovarla[3].  

 Del resto lo storiografo del primo secolo dell’impero fa anche l’ipotesi che le vicende dei mores umani siano assimilabili all’avvicendarsi  delle stagioni:"Nisi forte rebus cunctis inest quidam velut orbis, ut quem ad modum temporum vices ita morum vertantur "(Annales , III, 55), a meno che per caso in tutte le cose ci sia una specie di ciclo, in modo che, come le stagioni, così si volgono le vicende alterne dei costumi.
In questo caso però il contesto è diverso: Tacito  applica l'idea polibiana del ciclo (ajnakuvklwsi" ) all'economia e alle mode: con l'avvento di Vespasiano (69 d. C.) termina il tempo del  luxus  delle splendidissime famiglie senatorie, un ciclo iniziato "a fine Actiaci belli "(Annales , III, 55)  dalla fine della guerra di Azio, il 31 a. C.
Il primo imperatore flavio infatti era : "praecipuus adstricti moris auctor (...) antiquo ipse cultu victuque " (Annales , III, 55) principale promotore di vita austera...egli stesso di antica semplicità nel mangiare e vestire[4].
Lo storiografo vuole cercare le cause di questo mutamento ("causas eius mutationis quaerere libet ", Annales , III, 55) che fu graduale e variamente motivato, ma ebbe il principale auctor  in Vespasiano.
Infatti la cortigianeria verso l'imperatore, e il desiderio di imitare tale modello, ebbero maggior valore delle pena minacciata dalle leggi suntuarie e della paura:"Obsequium inde in principem et aemulandi amor validior quam poena ex legibus et metus ". Sappiamo da Omero, Esiodo e dalla tragedia greca che i costumi, virtù, vizi e perfino malattie del capo si riverberano sulla sua terra per una sorta di responsabilità collettiva.

Sul conto dei quindici anni, credo che la generazione  di Bodei e mia possa essere d’accordo: i nati tre lustri dopo la guerra hanno respirato una cultura diversa dalla nostra.
“Nel suo secondo significato, la generazione è una “coorte” di individui che nascono, crescono e si sviluppano assieme…essi partecipano con i coetanei a vicissitudini storiche condivise in maniera abbastanza simile e, pertanto differente dalle altre tre o quattro generazioni a loro contemporanee” (p. 48)
 Si può pensare alle esperienze fatte in famiglia, ai rapporti con i fratelli, assai differenti ovviamente da quelli con i genitori, con i nonni e magari, dato l’allungamento della vita, con i bisnonni.
L’autore quindi si chiede quali esperienze fondino una generazione. I grandi eventi epocali certamente, ma anche “le vicende private” (p. 50) e, tra quelle pubbliche, pure le mode: “una generazione è rappresentata non solo da coloro che, entro una certa fascia di età, hanno vissuto una guerra, una rivoluzione, la nascita o il crollo di un regime, determinati eventi traumatici o gioiosi, ma anche da quanti hanno in comune gli anni in cui campeggiavano personaggi famosi e in cui erano in voga determinate canzoni e particolari modi di dire.” (p. 51).

Su quanto influiscano le mode sui mores sentiamo anche Musil:"se Arnheim avesse potuto figger lo sguardo negli anni futuri, avrebbe visto che millenovecentovent'anni di morale cristiana, milioni di morti in una guerra sconvolgente e una selva poetica tedesca che aveva cantato il pudore della donna non aveva potuto ritardare di un'ora il momento in cui gli abiti femminili si erano accorciati e le fanciulle d'Europa per un certo tempo s'erano sbucciate nude come banane da millenari divieti. Anche altri cambiamenti avrebbe veduto, che mai gli sarebbero parsi possibili, e non importa sapere che cosa rimarrà e che cosa tornerà a sparire, quando si pensa agli sforzi enormi e probabilmente vani che sarebbero occorsi a promuovere un simile rivolgimento delle condizioni di vita scegliendo la via cosciente e responsabile del progresso spirituale attraverso i filosofi, i pittori e i poeti, invece di quella che passa attraverso gli avvenimenti della moda, i grandi sarti e il caso; perché se ne può dedurre quanto sia grande la forza creativa della superficie, paragonata alla sterile pervicacia del cervello"[5].

Riprendo in mano Tacito il quale fa notare che il costume prevalente non è modificabile con le leggi, nemmeno da quelle di un autocrate
La lex Papia Poppaea (del 9 d. C.) comminava pene e sanzioni ai renitenti alle nozze, mentre  concedeva agevolazioni fiscali e legali a chi avesse almeno tre figli (ius trium liberorum). Lo storiografo latino ci fa sapere che Augusto già piuttosto vecchio (senior) l’aveva ratificata dopo le leggi Giulie[6] incitandis caelibum poenis et augendo aerario (Annales III, 25), per aggravare le pene contro i celibi e per impinguare l’erario.
Non per questo i matrimoni e le nascite dei figli divenivano più frequenti, praevalida orbitate, tanto si era affermato il costume di non avere famiglia.
Cassio Dione[7] racconta che Augusto nel 18 a. C. sottopose a punizioni fiscali le categorie dei celibi e delle nubili, mentre istituì dei premi (a\qla e[qhken)  per il matrimonio e la procreazione (54, 16).
E siccome nella nobiltà c'erano più maschi che femmine, consentì a chi lo desiderava, tranne che ai senatori, di sposare delle liberte con nozze legittime.
Più avanti lo storiografo racconta che l'imperatore nel 9 d. C. parlò agli sposati e ai celibi. Elogiò i primi, meno numerosi, dicendo che erano cittadini benemeriti e fortunati: infatti ottima cosa è una donna temperante, casalinga, buona amministratrice e nutrice dei figli ("a[riston gunh; swvfrwn oijkouro;" oijkovnomo" paidotrovfo" "(LVI, 3, 3) ed è una grande felicità lasciare il proprio patrimonio ai propri figli; inoltre anche la comunità riceve vantaggi dal grande numero (poluplhqiva, 3, 7) di lavoratori e di soldati.
Quindi Augusto parlò con parole di biasimo ai non sposati che erano molto più numerosi. Voi, disse in sostanza, siete gli assassini delle vostre stirpi e del vostro Stato. Voi tradite la patria rendendo deserte le case e la radete al suolo dalle fondamenta:"a[nqrwpoi gavr pou povli" ejstivn, ajll' oujk oijkivai oujde; stoai; oujd j ajgorai; ajndrw'n kenaiv" (LVI, 4, 1), gli uomini infatti in qualche modo costituiscono la città, non le case né i portici né le piazze vuote di uomini.
Augusto seguita il suo discorso ricordando le leggi moralizzatrici, o presunte tali, da lui volute, quindi accusa i celibi di essere simili ai briganti e alle fiere selvatiche: voi, dice, non è che volete vivere senza donne, visto che nessuno di voi mangia o dorme solo:"ajll' ejxousivan kai; uJbrivzein kai; ajselgaivnein e[cein ejqevlete" (LVI, 4, 6-7), ma volete avere la facoltà della dismisura e dell'impudenza.
Poi il Princeps ammette che nel matrimonio e nella procreazione ci sono aspetti sgradevoli (ajniarav tina), ma, aggiunge, non  mancano i vantaggi. Ci sono i premi promessi dalle leggi:"kai; ta; para; tw'n novmwn a\j'qla", 8, 4).

Ma torniamo a Generazioni e vediamo la conclusione di questo capitolo. Bodei segnala i mutamenti del linguaggio con il succedersi delle generazioni. “Come esiste un lessico familiare, così esiste uno specifico lessico generazionale” (p. 51). Condivido con l’autore il ricordo dell’espressione “nella misura in cui” ripetuta a proposito e a sproposito,  negli anni Sessanta e Settanta.

E’ possibile notare anche vere e proprie transvalutazioni lessicali come fa Tucidide raccontando la guerra civile di Corcira[8],  e Sallustio nella monografia sulla congiura di Catilina[9].
Personalmente ho notato e segnalo il capovolgimento di valore della parola “moderato” che alla fine degli anni Sessanta aveva un significato del tutto negativo, mentre ora non c’è chi non si dichiari tale

Bodei conclude il capitolo citando Orazio: “Per l’Orazio dell’Ars poetica, nella stessa maniera in cui esistono generazioni di uomini, esistono anche generazioni di parole: “come i boschi mutano le loro foglie, con l’avvicendarsi degli anni, e cadono le foglie precedenti, così muore la generazione di parole più vecchia, mentre le parole appena nate fioriscono come giovani corpi, e crescono[10]” .(Generazioni, p. 51).

Giovanni Ghiselli

P. S,
Questo libro verrà presentato a Bologna nella  libreria Feltrinelli di piazza di Porta Ravegnana, alle 18 del 17 settembre
Ecco l’annuncio
Dialogo con Remo Bodei .
Intervengono Walter Tega e Francesca Emiliani
Presiede Gianni Ghiselli
Di R.Bodei: “Generazioni. Età della vita, età delle cose”.



[1] Cfr. Agostino, De civitate Dei, XII, 2, 4: “initium ergo ut esset creatus est homo”. Si veda anche R. Bodei, Immaginare altre vite, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 10-11.
[2] Tacito, De vita Agricolae, III, quindecim annos, grande mortalis aevi spatium.
[3]  "natura tamen infirmitatis humanae, tardiora sunt remedia quam mala; et ut corpora nostra lente augescunt, cito extinguuntur, sic ingenia studiaque, oppresseris facilius quam revocaveris" ( Tacito, Agricola, 3), Per  natura della debolezza umana, i rimedi sono più lenti dei mali, e come i nostri corpi crescono lentamente e rapidamente si estinguono, così le attività dell'ingegno si possono più facilmente opprimere che risvegliare.
[4] Nelle Historiae  Tacito aveva scritto: “"prorsus, si avaritia abesset, antiquis ducibus par "( II, 5), addirittura simile  ai comandanti antichi se non ci fosse stata l'avarizia
[5] R. Musil, L'uomo senza qualità , trad. it. Einaudi, Torino, 1972, p. 395.
[6] De maritandis ordinibus e De adulteriis coërcendis del 18 a. C.
[7] Vissuto tra il II e il III sec. d. C. , scrisse una Storia Romana in greco. Constava di ottanta libri che andavano dalle origini al 229 d. C. Ne restano 25 (dal 36 al 60) oltre alle epitomi di età bizantina.
[8]  427-425 a. C. quando ci fu una  tranvalutazione generale e le stesse parole cambiarono il loro significato originario:"Kai; th;n eijwqui'an ajxivwsin   tw`n ojnomavtwn ej" ta; e[rga ajnthvllaxan th'/ dikaiwvsei. Tovlma me;n ga;r ajlovgisto" ajndreiva filevtairo" ejnomivsqh" (III, 82, 4), e cambiarono arbitrariamente l'usuale valore delle parole in rapporto ai fatti. Infatti l'audacia irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni di partito.
[9] Nel De coniuratione Catilinae di Sallustio, Catone , parlando in senato dopo e contro Cesare, il quale aveva chiesto di punire i congiurati "solo" confiscando i loro beni e tenendoli prigionieri in catene nei municipi, denuncia questo cambiamento del valore delle parole:"iam pridem equidem nos vera vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur, eo res publica in extremo sita est " (52, 11), già da tempo veramente abbiamo perduto la verità nel nominare le cose: poiché essere prodighi dei beni altrui si chiama liberalità, l'audacia nel male, coraggio, perciò la repubblica è ridotta allo stremo 
[10] Ut silvae foliis pronos mutantur in annos, /Prima cadunt, ita verborum vetus interit aetas /Et iuvenum ritu florent modo nata vigentque” (Orazio, Ars poetica, vv. 60-62)

4 commenti:

  1. Condivido e ammiro il termine generazioni di parole ,sono d'accordo anche sul lasso di 15 anni ...da quando la comunicazione usa internet tutto corre più veloce , ammetto..per me , un poco troppo veloce .... anche , per me , troppo globale. A me piacciono le distanze fisiche e temporali . Caro Gianni leggo volentieri i tuoii saggi dove imparo sempre pensieri nuovi.E leggo volentieri gli autori che proponi, Mai banali , mai superficiali. Giovanna Tocco

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