venerdì 5 gennaio 2018

Lucrezio, "De rerum natura". IV libro. parte 11

The Manuscript Tradition of Ovid's Amores
PER VISUALIZZARE IL GRECO CLICCA QUI E SCARICA IL FONT HELLENIKA

Platone nella Repubblica (474 e) scrive per l’amatore professionista il simovς (camuso) è ejpivcariς (carino), to; grupovn, l’incurvatura del naso è basilikovn, regale, e chiama ajndrikouvς, virili, i bruni mevlanaς, i bianchi figli degli dèi.
L’amante vezzeggiatore (ejrasth;ς ujpokorizovmenoς) tira fuori tutti i pretesti per non rifiutare nessuno di quelli che sono nel fiore dell’età (w[ste mhdevna ajpobavllein tw̃n ajnqouvntwn ejn w[ra/). Il termine melivclwroς è povihma di un amante vezzeggiatore.

Ancora un paio di versi poi vediamo quali parole ci appulcrano Orazio e Ovidio.
"At tumida et mammosa Ceres est ipsa ab Iaccho,/simula Silena ac Saturast, labeosa philema " (vv. 1168-1169), ma la turgida e pocciona è Cerere stessa sgravata da Iacco, la camusa una Silena o una Satira, la labbrona un bel bacio.
-tumida: questa, che è gonfia (tumet) e con tette enormi viene interpretata come un'incarnazione della magna mater dopo che ha partorito Iacco "divinità associata ai culti eleusini di Demetra; è probabile che Lucrezio identifichi Iacco con Liber (divinità italica corrispondente al greco Dioniso), nato da Cerere (Cicerone, De natura deorum II, 24, 62). "Ab Iaccho è espressione molto densa con ab causale ("a causa di Iacco", appena partorito) o temporale ("subito dopo" aver partorito)"[1].
-simula: diminutivo di sima ricavato dal greco simov", camuso.
-Silena: ai sileni rappresentati con zampogna o flauto viene assimilato Socrate, che infatti aveva il naso camuso, dal bell'Alcibiade il quale era affascinato dal maestro nonostante la bruttezza, nel Simposio platonico (215). Simula Silena costituiscono " una iunctura non solo allitterante ma anche omeoptotica, isosillabica e parafonica"[2].
-labeosa: formato da labea, labbro, + il suffisso
-osus che, presente pure in mammosa, significa grandezza.
-philema: traslitterazione di fivlhma, bacio.
Dicevamo che pure Orazio e Ovidio si sono espressi in questo tovpo" il quale effettivamente può trovare risonanze in tutti gli uomini di tutti i tempi.
Il Venosino nella Satira I 3 afferma che le brutture e i difetti dell'amante ingannano l'innamorato cieco e addirittura proprio quelle imperfezioni gli piacciono (vv. 38-40). Si deve porre mente a questo per imparare un poco di indulgenza verso le manchevolezze del prossimo. Il locus è utilizzato come exemplum di tolleranza. La conclusione della satira è che se compatiremo, verremo compatiti. Si vede come un argomento può essere impiegato per dare insegnamenti opposti.
Lo stesso poeta può usare il medesimo tovpo" in libri diversi per sostenere una tesi e quella contraria.

Vediamo i particolari
Orazio Satira I, 3
I turpia vitia amicae decipiunt il caecum amatorem (vv. 37-38), aut etiam ipsa haec delectant (39-40). Questa cecità del resto può essere una onesta indulgenza nell’amicizia o nei confronti di un figlio.
Strabonem appellat paetum pater (45-46), il padre chiama il figlio strabico, sbircino (cfr. Ovidio: si paeta est, Veneris similis (ars, 2, 659), se è leggermente strabica è molto simile a Venere.
Si male parvus, ut abortivus fuit olim Sisyphus (45-46) lo chiama pullum (45), pulcino; se è varus distortis cruribus, se ha le gambe storte ed è male fultus pravis talis, mal piantato su talloni informi, gli balbetta anatroccolo scaurum.
Parcius hic vivit: frugi dicatur (49)
L’ineptus et iactatior, l’importuno e troppo invadente venga chiamato concinnus amicis, ben disposto verso gli amici.
Quello truculentior, brutale e plus aequo liber, simplex fortisque habeatur (51-52) e sfrenato, lo si consideri semplice e coraggioso
Caldior est: acris inter numeretur (53), se è scatenato lo si conti tra I vigorosi.
Haec res et iungit iunctos et servat amicos (54), stringe le amicizie e le conserva.
Noi facciamo il contrario ma è una legge che stabiliamo contro noi stessi.
At nos virtutes ipsas invertimus, rovesciamo le virtù
Se con noi vive probus quis multum demissus homo, uno onesto, molto modesto, lo qualifichiamo come ottuso, grossolano “tardo cognomen, pingui, damus (56-58)
Chiamiamo fictum astutumque (62), finto e astuto, quello che fugit omnis insidias, nullique malo latus obdit apertum (58-59) non espone
Se uno è simplicior, schietto (63) come vorrei essere io con te, Mecenate, noi diciamo “communi sensu plane caret” (66) non ha perniente il buon senso. Ma noi decretiamo avventatamente leggi inique contro noi stessi: “quam temere in nosmet legem sancimus iniquam!” (67)
Nam vitiis nemo sine nascitur: optimus ille est qui minimis urgetur (68-69)
L’amico dolce deve contrappesare i miei difetti con i miei pregi amicus dulcis ut aequum est-cum mea compenset vitiis bona (69-70) e se prevalgono i beni la bilancia si inclinerà verso questi. Aequum est peccatis veniam poscentem reddere rursus (74-75) è giusto che chi chiede venia la renda a sua volta.


Ovidio
Così fa Ovidio che nei Remedia amoris apre gli occhi sui difetti delle donne suggerendo perfino di accentuarli con il pensiero, mentre nell'Ars amatoria consiglia di guardarsi bene dal rinfacciare alle ragazze le loro imperfezioni (parcite praecipue vitia exprobrare puellis, II, 640): a molti fu utile avere fatto finta di non vedere. Questo vale per non disgustare le donne le quali anzi vanno adulate. Del resto chiunque chieda qualche cosa deve essere un adulatore, come dice il cuoco Sicone nel Duvskolo" di Menandro, preparandosi a chiedere un lebete al vecchio scorbutico " dei' ga;r ei\nai kolakiko;n-to;n deovmenon tou" (vv. 492-493), deve infatti essere un adulatore chi ha bisogno di qualche cosa.

Con l'adulazione si può sedurre persino una vestale.
L'adulazione funziona sempre quando si vuole compiacere una donna. Sentiamo Svidrigàilov il "vecchio libertino incancrenito" di Delitto e castigo che ha "una specie di scintilla sempre accesa nel sangue": "...finalmente feci ricorso al mezzo supremo e infallibile per soggiogare il cuore femminile, il mezzo che non fallisce mai e che agisce decisamente su tutte le donne, senza eccezione. Niente al mondo è più difficile della sincerità e più facile dell'adulazione... per quanto infantilmente grossolana possa essere l'adulazione, almeno per metà essa sembra senz'altro vera. E questo vale per gente di ogni livello e di ogni ceto sociale. Con l'adulazione si può sedurre perfino una vestale"[3].

Non è difficile essere creduti quando si adula, suggerisce Ovidio nel primo libro dell'Ars amatoria: "Nec credi labor est: sibi quaeque videtur amanda/pessima sit, nulli non sua forma placet" (vv. 611-612) e non è difficile essere creduto: a ognuna sembra di essere degna di amore, sia pure pessima, a nessuna dispiace il suo aspetto.
Sentiamo il seduttore di Madame Bovary: "Finalmente lo hai davanti, il tesoro tanto cercato: risplende, scintilla. Eppure dubiti ancora, non osi crederci: ne resti abbagliato come all'uscita dalle tenebre alla luce" (p. 118).

Restiamo ancora un poco sull'argomento trattato da Ovidio prima di tornare a Lucrezio.
Il poeta nel II libro dell'Ars amatoria afferma che chiudere un occhio sui difetti dell'amante è utile non solo alla conquista ma anche al mantenimento del rapporto il quale riceve lunga vita dalla transigenza fondata a sua volta sull'abitudine:"Quod male fers, adsuesce: feres bene: multa vetustas/leniet; incipiens omnia sentit amor " (vv.647-648), a quello che sopporti male, abituati: sopporterai bene: la lunga durata allevierà molte cose difficili; l'amore all'inizio fa caso a tutto.
 Lo stesso passare del tempo toglie tutte le pecche del corpo, e quello che era un difetto smette di esserlo con la dilazione. Sapere aspettare serve, ma anche l'uso intelligente delle parole è funzionale a questo scopo.
Ovidio dunque nell' Ars amatoria presenta come astuzia da usare quello che Lucrezio considera un errore da evitare: "Nominibus mollire licet mala:"Fusca" vocetur,/nigrior Illyrica cui pice sanguis erit;/si paeta est, "Veneri similis"; si rava, "Minervae";/sit "gracilis", macie quae male viva sua est;/dic "habilem", quaecumque brevis, quae turgida, "plenam";/et lateat vitium proximitate boni " (II, vv. 657-662), i difetti si possono attenuare con le parole: "scura" si chiami quella che avrà vene più nere della pece illirica; se è un pò strabica, "simile a Venere"; se è glauca, "a Minerva"; sia "gracile" quella che, del tutto esaurita, è viva per poco, chiama "maneggevole" chiunque sia corta; quella gonfia, "piena", e si nasconda il difetto con il pregio più vicino.


CONTINUA




[1]G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 5, p. 59.
[2]I. Dionigi, op. cit., p. 415.
[3]F. Dostoevskij, Delitto e castigo, pp. 531 e sgg.

1 commento:

Conferenza di domani

  Ricordo ai miei tanti lettori che domani 6 maggio dalle 17 alle 18, 30   terrò una conferenza sul Tramonto dell’umanesimo nella bib...