sabato 13 gennaio 2018

Lucrezio, "De rerum natura". IV libro. parte 13

Ritratto romano, presso El Fayyum

Torniamo a Lucrezio che, consapevole di non poter esaurire l'argomento, ne prende un altro, sempre però con lo scopo di fornire all'innamorato accecato i mezzi per recuperare la vista mentale e liberarsi dalla schiavitù.
"Cetera de genere hoc longum est si dicere coner./Sed tamen esto iam quantovis oris honore,/cui Veneris membris vis omnibus exoriatur:/nempe aliae quoque sunt; nempe hac sine viximus ante;/nempe eadem facit, et scimus facere, omnia turpi,/ et miseram taetris se suffit odoribus ipsa/quam famulae longe fugitant furtimque cachinnant " (IV, 1170-1176), sarebbe troppo lungo se cercassi di dire gli altri travisamenti del genere. Ma tuttavia sia pure di bellezza quanto vuoi sublime nel volto, una alla quale da tutte le membra venga fuori la potenza di Venere: certo ce ne sono anche altre; certo abbiamo vissuto senza questa in precedenza; certo fa tutte le medesime cose, e sappiamo che le fa, di una brutta, e si affumica la disgraziata, con ributtanti suffumigi, proprio lei, da cui le serve scappano lontano e sghignazzano di nascosto.
-oris: la bellezza (honor ) del volto è quella che si nota per prima, soprattutto da quando si è adulti.

Cfr. il viso della Chauchat in La montagna incantataMynheer Peeperkorn (conclusione) p. 912
Wehsal notò il sorriso beffardo di Claudia che era in una carrozza con Peeperkorn e Ferge.
Wehsal, innamorato senza speranza, invidia Hans che ce l’aveva fatta
“Io non desidero solo quella bambola di carne che è il suo corpo, anzi se il suo viso fosse un poco diverso, non desidererei nemmeno il suo corpo, dal che si capisce che amo la sua anima e amo con l’anima. L’amore per il viso è amore per l’anima. Sono un uomo ripugnante ma pur sempre un uomo. Sarei capace di prodezze mai viste se lei mi schiudesse quel giardino di delizie che sono le sue braccia, braccia così belle perché appartengono al viso della sua anima. Ogni notte la sogno e finisce sempre che mi dà un ceffone e mi sputa addosso con il viso dell’anima contratto dal ribrezzo e io mi sveglio coperto di sudore e di vergogna”.

aliae quoque sunt: non è un buon argomento per l'uomo che ha concentrato tutti i suoi desideri e le sue speranze in quella forma e tutte le altre non hanno significato per lui. Catullo nel carme 86 già menzionato nega che Quinzia sia "formosa " nonostante abbia un fisico a posto. L'unica bella per lui è Lesbia: "Lesbia formosa est, quae cum pulcerrima tota est,/tum omnibus una omnis subripuit veneres" (vv. 5-6), Lesbia sì che è bella, lei che è splendidissima integralmente, e da sola ha sottratto a tutte tutte le grazie.

B. Shaw denuncia l’illusione dell’uomo giovane che esagera la differenza tra una giovane donna e le altre: “Like all young men, you greatly exaggerate the difference between one young woman and another[1].

hac sine: anastrofe.
-turpi: dativo di comunanza retto da eadem. E' una costruzione frequente nella lingua greca dove il dativo sociativo è retto da oJJ aujtov", idem appunto.
- famulae... fugitant furtimque: triplice allitterazione. Nessuna donna, per quanto sia bella, è di uno splendore integrale per le sue cameriere che ne conoscono gli arcana venustatis, i segreti della bellezza si potrebbe dire utilizzando l'espressione tacitiana imperii arcanum (Historiae I, 4), il segreto del potere.
-cachinnant: la bellezza, che toglie il fiato e il sonno all'innamorato, fa sghignazzare le serve.

"At lacrimans exclusus amator limina saepe/floribus et sertis operit postisque superbos/unguit amaracino et foribus miser oscula figit " (De rerum natura, IV, vv. 1177-1179), ma l'innamorato, versando lacrime per essere stato messo alla porta, spesso copre di fiori e di ghirlande la soglia e unge gli stipiti superbi di maggiorana e, disgraziato, imprime baci sui battenti.
-lacrimans exclusus: questo è un paraklausivquron.
il lamento davanti alla porta chiusa.
I più antichi, che io sappia, si trovano nell'Antologia Palatina. Tra i più noti quello di Callimaco a Conòpio (Zanzaretta) alla quale il poeta, costretto a passare la notte sotto un freddo portico, augura la medesima sofferenza e ricorda che i colori della giovinezza durano poco: "hJ polih; de;-aujtivk j ajnamnhvsei tau'tav se pavnta kovmh " (A. P. V, 23, vv. 5-6), la chioma canuta fra poco ti farà ricordare tutto questo.

Tale tovpo" ha una larga presenza nella letteratura latina: dalla commedia all'elegia.
 Si ricordi come Properzio nell'ultima elegia del terzo libro rinfaccia a Cinzia i prossimi capelli bianchi con le rughe, quindi le augura di soffrire le medesime pene che sta infliggendo a lui con il lasciarlo fuori dalla porta (exclusa inque vicem fastus patiare superbos, tenuta fuori a tua volta, possa soffrire la superba alterigia, III, 25, 15) poiché la bellezza è, si potrebbe dire, un'arma che dopo una certa età si rivolge contro chi la impugna.
Properzio, lo schiavo d'amore per liberarsi dal servitium si aiuta con il ricordo (di ascendenza catulliana[2]) dell'iniuria: "Flebo ego discedens, sed fletum iniuria vincit " (III, 25, 7), piangerò nel lasciarti ma l'offesa vince il pianto, e si consola con la previsione dell'invecchiamento della sua domina :"At te celatis aetas gravis urgeat annis,/et veniat formae ruga sinistra tuae./Vellere tum cupias albos a stirpe capillos/ah speculo rugas increpitante tibi,/ exclusa inque vicem fastus patiare superbos,/ et quae fecisti facta queraris anus./ Has tibi fatalis cecinit mea pagina diras./Eventum formae disce timere tuae " (III, 25, 11-18), ma l'età greve incomba sugli anni dissimulati e vengano rughe sinistre sulla tua immagine bella. Che allora tu voglia strappare dalla radice i capelli bianchi, quando lo specchio ti rinfaccerà le rughe, e a tua volta respinta possa tu sopportare la sprezzante alterigia, e lamentarti ormai vecchia del male che hai fatto. Questi cattivi presagi ti ha cantato la mia pagina fatale, impara a temere la fine della tua bellezza.
Questa dunque è ingannevole come l'amore ed effimera come mutevoli sono le donne.
 In conclusione:"Giovane: un antro arabescato di fiori. Vecchia: un drago che esce fuori"[3].
E' l'eterna consolazione del maschio: l'età si abbatte sulla donna come una mannaia. E sull'uomo no?

Rimaniamo ancora sul paraklausivquron. Nel Processo di Kafka ce n'è uno molto particolare, quasi rovesciato: è infatti un'attesa ansiosa e querula davanti a una porta aperta proprio per colui che attende senza avere il coraggio di entrare. E' la parabola che il cappellano delle carceri racconta a K. nel Duomo: "Davanti alla legge c'è un guardiano. A lui viene un uomo di campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano dice che ora non gli può concedere di entrare. L'uomo riflette e chiede se almeno potrà entrare più tardi. "Può darsi" risponde il guardiano, "ma per ora no". Siccome la porta che conduce alla legge è aperta come sempre e il custode si fa da parte, l'uomo si china per dare un'occhiata, dalla porta, nell'interno. Quando se ne accorge, il guardiano si mette a ridere:"Se ne hai tanta voglia, prova pure a entrare nonostante la mia proibizione. Bada, però: io sono potente, e sono soltanto l'infimo dei guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardiano, uno più potente dell'altro. Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno io". L'uomo di campagna non aspettava tali difficoltà; la legge, pensa, dovrebbe pur essere accessibile a tutti e sempre, ma a guardar bene il guardiano avvolto nel cappotto di pelliccia, il suo lungo naso a punta, la lunga barba tartara, nera e rada, decide di attendere piuttosto finché non abbia ottenuto il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni. Fa numerosi tentativi per passare e stanca il guardiano con le sue richieste. Il guardiano istituisce più volte brevi interrogatori, gli chiede notizie della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande prive di interesse come le fanno i gran signori, e alla fine gli ripete sempre che non lo può far entrare. L'uomo, che per il viaggio si è provveduto di molte cose, dà fondo a tutto per quanto prezioso sia, tentando di corrompere il guardiano. Questi accetta ogni cosa, ma osserva:"Lo accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa". Durante tutti quegli anni l'uomo osserva il guardiano quasi senza interruzione. Dimentica gli altri guardiani e solo il primo gli sembra l'unico ostacolo all'ingresso nella legge. Egli maledice il caso disgraziato, nei primi anni ad alta voce, poi quando invecchia si limita a brontolare tra sé. Rimbambisce e, siccome studiando per anni il guardiano, conosce ormai anche le pulci nel suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell'oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. Ormai non vive più a lungo. Prima di morire, tutte le esperienze di quel tempo si condensano nella sua testa in una domanda che finora non ha rivolto al guardiano. Gli fa un cenno poiché non può più ergere il corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano è costretto a piegarsi profondamente verso di lui, poiché la differenza di statura è mutata molto a sfavore dell'uomo di campagna. "Che cosa vuoi sapere ancora?" chiede il guardiano, "sei insaziabile". L'uomo risponde:"Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?". Il guardiano si rende conto che l'uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che stanno per diventare insensibili, grida:"Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo"[4].
"Nell'apologo, la Legge nascosta dietro la porta, la Legge che l'uomo di campagna ricerca e che K. ignora di ricercare, rivela di attendere tutti gli uomini e soprattutto Josef K. Così, nel processo dove finora avevamo visto solo persecuzione e arbitrio, dobbiamo scorgere una specie di invito, che Qualcuno gli aveva rivolto. Il peccato senza nome, il senso di colpa di cui Josef K. e gli altri imputati sono colpevoli, è in realtà un'elezione divina: questo peccato li rende "belli"; mentre tutti gli altri uomini, che non vivono sotto quest'ombra, non esistono agli occhi di Dio... Il sacerdote propone a K. di entrare nell'edificio della Legge, come fa l'uomo di campagna inebetito e quasi cieco... La categoria dell'attesa è il cuore del mondo di Kafka: attesa di Dio, attesa degli uomini"[5].


CONTINUA



[1] Major Barbara, Act III.
[2] Cfr. 72, 7-8.
[3]Nietzsche, Di là dal bene e dal male, Le nostre virtù, 237
[4]F. Kafka, Il processo , IX capitolo, pp. 220-221.
[5]P. Citati, Kafka , pp. 157-158.

1 commento:

Conferenza di domani

  Ricordo ai miei tanti lettori che domani 6 maggio dalle 17 alle 18, 30   terrò una conferenza sul Tramonto dell’umanesimo nella bib...