martedì 2 luglio 2024

Ifigenia CXXXI La gara veramente olimpica.


 

L’ultimo giorno dovevo affrontare una gara allo stadio

Volevo vincerla e in ogni caso sentivo la necessità dell’ascesi somatica, di quell’esercizio sportivo senza il quale si rimane, o si diventa, “più molli del necessario”[1].

L’agone era quello dei 1500 metri per i quali non avevo allenamento né talento specifico. La mia distanza infatti era, ed è, quella dei 5000, 12 giri e mezzo di pista. Eravamo otto agonisti. Il più vecchio ero io. Il più temibile era un francese ventiduenne allenato a quel percorso, tre giri e trecento metri, troppo breve  per le mie caratteristiche fisiche e per quelle mentali, che poi sono connesse. Io ho bisogno di tempi e distanze lunghe. Mi manca lo scatto, fisico e psichico. Tra gli altri c’era un centometrista napoletano, Diego, che se avesse resistito alle mie spalle fino all’ultimo rettilineo, mi avrebbe stracciato. Dovevo imporre un ritmo elevato sin dall’inizio, senza però arrivare sfiancato nella parte finale. Nonostante il mio allenamento negli stadi, dove gareggia velocità di piedi e vincono vertici ardimentosi di forza[2] intelligente, non ero sicuro di me: troppo breve era quella competizione  rispetto ai miei mezzi, ai miei ritmi, perfino ai miei gusti. Nello sport e nella vita ho bisogno del beneficio del tempo per utilizzare la mia tenacia e la mia resistenza alla fatica e al dolore. Anche per questo prego, oltrepassando Solone[3], che il destino di morte mi colga per lo meno novantanovenne, come la zia Giorgia.

Ifigenia faceva il tifo per me, mi incoraggiava: diceva che avrei vinto di sicuro, e quando quella donna mi dava fiducia, preferivo morire che demeritarla.

Al momento della partenza ero nervoso: andavo nel bagno degli spogliatoi a orinare ogni cinque minuti, tutte le volte volta nella speranza di perdere qualche grammo aggravante di peso superfluo la mia gara. Lo sforzo mi provocò perfino una goccia di sangue, con terrore e presagi di qualche sfacelo forse nemmeno abbastanza remoto[4].

Ma oramai ero quasi in ballo, ossia in corsa e dovevo correre.

Sul traguardo, con  Ifigenia, c’era Fulvio, l’amico più caro, e una ventina di conoscenti, persone assai meno importanti. Anche con loro però avrei fatto una  figura bella oppure porca, da senescente fallito. Indossavo una maglietta gialla con il nome del nostro liceo dove avrei trionfato anche sui malevoli, vecchicolleghi [5] se avessi vinto quell’agone latore di auspici. Sotto la maglia avevo un paio di calzoncini rossi, aderenti, leggeri, regalo ben augurante della mia bella compagna. Partii dunque in testa imponendo un’andatura veloce per stancare subito Diego, il ragazzo napoletano dal temibile scatto finale. Invero dopo solo trecento metri, ossia all’inizio del terz’ultimo giro, avevano perso terreno tutti, tranne l’antagonista francese che mi restava attaccato alle spalle, e, a giudicare dal respiro,  sembrava più sciolto e meno affaticato di me. Ifigenia intanto, al primo passaggio sul traguardo, saltava e gridava incoraggiandomi . Procedemmo nella stessa maniera per tutto il giro seguente: io davanti, sperando di sentire affannata la  lena del transalpino, lui dietro, continuando a tallonarmi e a respirare senza fretta, quasi senza fatica. Dal suo fiato più lento e disteso del mio, capivo che, se voleva, poteva imporre un ritmo più alto. Infatti, all’inizio del penultimo giro mi superò.

Ifigenia non smetteva di incoraggiarmi, fiduciosa nella mia, nella nostra vittoria.

Tutti gli altri, distanziati parecchio, erano ormai fuori gioco.

L’unico antagonista dunque, agli ottocento metri dalla linea d’arrivo mi superò, poi proseguì nel suo attacco: come il fiato, anche il passo aveva agile e sciolto, e io stentavo a rimanergli dietro. Mi sembrava di ciabattare rigido, contratto, appesantito; mi sentivo pure macchiato di sangue appiccicoso e oneroso nelle mutande , mentre il rivale  pareva divinamente a suo agio: come se si allenasse per gioco, in tranquilla attesa di darmi la botta finale, l’implacabile colpo di grazia. Pensavo alla sconfitta come a un presagio sinistro, un triste preannunzio di danni futuri[6].

 Ai cinquecento metri dall’arrivo, poco prima di passare per la terza volta davanti a Ifigenia che mi incitava a gran voce e mostrava di credere in me, nella mia vittoria, nonostante fossi già prossimo allo stremo, volli fare la prova dello sprint che avrebbe risolto la gara dopo un altro giro, in fondo agli ultimi 400 metri. Per non correre il rischio di restare chiuso all’interno, mi spostai all’esterno, raccolsi buona parte delle forze residue e feci uno scatto con il quale oltrepassai il rivale e, per la penultima volta, il traguardo.

Ifigenia gridò: “bravo, bravo!” e fece due salti battendo freneticamente le mani. Mancavano ancora quattrocento metri però, e io avevo dato quasi tutto. Meta erat longe[7] rispetto a quanto mi restava di forza e di fiato.

Dopo una trentina di metri infatti il rivale tornò a superarmi, e non con uno  scatto repentino e inopinato, come avevo fatto io prima impiegando una dose spropositata di energie, ma con l’alzare progressivamente il ritmo delle sue  lunghe, potenti falcate. Aveva quattordici anni meno di me ed era una decina di centimetri più alto. Ali sembravan le sue gambe snelle[8].

Ali del divino uccello di Zeus[9].

Parevano sollevarsi e distendersi senza troppa fatica, quasi con negligenza sovrana, mentre le mie, per reggere il nuovo ritmo, arrancavano rigidamente con rabbia pesante, con stento, fatica, dolore, umiliazione.

Secco usciva l’affanno dalla mia bocca aperta e stremata[10].

Per non rimanere turpemente staccato, dovevo adoperare tutta quanta la forza che potevo trovare frugando a fondo nella mia persona, tutte le energie positive accumulate in trentacinque anni e mezzo di vita.

Pensai a Ifigenia che mi aveva sempre apprezzato anche per come correvo i 5000 metri. Poi mi feci venire in mente che in luglio avevo scalato il Pordoi con una bici pesante, vecchia, arrugginita, eppure a una media di 18 chilometri all’ora,  che con tre anni di studio intelligente ero diventato un professore egregio e avevo fatto innamorare di me, non bellissimo, non ricco, del tutto privo di ogni potere, la più bella, giovane e corteggiata supplente del liceo classico più frequentato della dotta città di Bologna. Ebbene quella ragazza sarebbe rimasta delusa se fossi arrivato secondo. Probabilmente mi avrebbe disprezzato e lasciato. Infatti la donna che può scegliere in un mazzo di pretendenti, non perdona l’insuccesso[11] al prescelto per sbaglio , ed è giusto così. Dopo tanta prosopopea, debole e  imbecille mi sarei rivelato arrivando secondo.

Me lo dicva la zia Rina quando non prendevo il voto più alto con la prova più egregia di tutta la classe. Non me lo perdonava finché non tornavo a primeggiare e le sono grato di questo.

Non mi voltai, poiché non sentivo nessuno dietro di me: il secondo posto era assicurato, per carità, ma cosa me ne facevo? Non potevo rassegnarmi a non vincere senza avere spremuto me stesso fino all’ultima goccia di forza, di sangue, di vita, di tutto. Ifigenia da me si aspettava almeno il primo posto. Meglio ancora, del tutto degno di tanta amante sarebbe stato che io vincessi con cento metri di vantaggio. Ma questo non era possibile. Mentre pensavo e mi spronavo come potevo, dovevo usare tutte le energie rimaste per non perdere metri preziosi. Ho scritto sopra che mi manca lo scatto in partenza, però quando arrivo in fondo a un percorso meno stanco degli altri, posso avvalermi di questa relativa freschezza negli ultimi metri. Quindi, se riuscivo a rimanergli dietro fino all’ultima curva, sfruttando oltretutto la scia, nel rettilineo finale potevo cercare di superarlo mettendo in lizza tutto quanto di vivo poteva esserci ancora in me. “Oh mia bella mora, no, non mi lasciare, non mi devi abbandonare, no, no, no, no, no, no!”, canticchiai mentalmente, per sdrammatizzare, il ritornello di una canzoncina della mia prima adolescenza.

 

Marisa era la bella mora di allora. Bella, mora e brava a scuola. Si faceva a chi era più bravo gareggiando nel tradurre il latino alle scuole medie Lucio Accio noi due, pur in sezioni diverse.

“Perché ne sei innamorato? Mi domandava Piero, un compagno di scuola mattacchione: “tanto non ti sposa”. Andavo la sera a trovarlo a casa sua, in viale Trento, per insegnargli a leggere i distici di Ovidio, in metrica.

“Pyramus et Thisbè, iuvenùm pulcherrimus alter

altera, quas Orièns, habuìt, praelata puellis,

contiguàs tenuère domòs, ubi dicitur altam

coctilibùs murìs cinxisse Semiramis urbem”.

 Piero continuava a leggere Thìsbe e lo bocciarono in quinta ginnasio.

E’ ancora un caro amico

Tanto latino si faceva allora al Lucio Accio con la professoressa Giulia Gattoni e al ginnasio con il professor vincenzo Tamino che ricordo con gratitudine

 

L’ultima curva fu atroce. Il rivale mi attaccò ancora, scattando a ripetizione. Prese un vantaggio di tre-quattro metri. Quando sbucai sul rettilineo dell’arrivo, vidi Ifigenia. Agitava le braccia alzate sopra la testa e gridava: “Dai Gianni, non cedere amore, non cedere!”

Mi vennero in mente le tante volte che avevo corso gli stadi: prima per meritarmi l’amore di donne giovani e belle, poi per conservarlo. La più bella, la vera borsa di studio e di ogni erculea fatica era lì, e mi incitava con tutta la forza, e pretendeva che il suo uomo non fosse soltanto il secondo.

“Non cederò”[12] pensai, “prima crepo. Senza l’aurea Afrodite non potrei vivere più”.

Richiamai alla memoria i faticosi successi della mia travagliosa esistenza per ottenere il consenso, l’ammirazione e l’amore delle femmine umane: dagli ottimi voti scolastici con i quali volevo conquistare la mamma, la nonna, le zie, la bruna Marisa,  alle citazioni di Leopardi o di Dante, di Petronio, di Eliot, di Pavese per colpire Helena, alle conversazioni intelligenti, con Päivi, al matto, eppure non disperatissimo impegno nelle materie di insegnamento che mi avrebbe procurato l’agognata borsa di studio umana incarnata nella splendidissima supplente Ifigenia che era lì a Debrecen con me, presente e viva.

Poi pensai di nuovo alle fatiche fisiche: gli allenamenti a piedi e in bicicletta, le nuotate nel mare di Pesaro; ricordai l’impiego faticoso, anche tribolato del mio tempo: le ore passate in solitudine a prendere il sole, disidratato sulla sabbia rovente, o scorticato dal freddo sulla neve delle montagne battute da soffi acuti di vento ghiacciato, rabbrividendo fino alle viscere, in solitudine immobile per ricavarne l’abbronzatura che mi rendesse più piacente e  gradito alle femmine umane.

Poi i digiuni, la fame a volta crudele, talora insonne,  per conquistare, o recuperare, o mantenere la linea da asceta, la vita da torero, la forma stilizzata che mi soddisfaceva e mi rendeva beato in termini di rapporti umani. Nell’itinerario lungo e difficile c’erano molti sacrifici, fino alla spietatezza verso me stesso, c’era del dolore, c’era qualche frustrazione, ma c’erano anche diversi successi.

Potevo vincere ancora.

Feci uno scatto a novanta metri dall’arrivo: ai settanta avevo raggiunto la schiena dell’antagonista. Temporeggiai per dieci metri, onde lenire per un momento l’affanno, quindi mi portai sulla destra e scattai di nuovo: lo superai, poi vidi che guadagnavo terreno; allora, con gli occhi chiusi e il collo tutto teso all’indietro, senza pensare più a niente, quasi non respirando, mi scagliai sul traguardo impiegando e impegnando allo spasimo tutto quanto di vivo mi restava dentro.

Superata la meta, respirai e riaprii gli occhi. Ifigenia esultava. Mi buttai boccheggiante sul prato interno alla pista. Il francese arrivò distanziato di cinque o sei metri. Diego di un centinaio. Gli altri dopo di lui.

Quando ebbi ripreso fiato e piena coscienza, Ifigenia venne a dirmi: “ bravo, non mi aspettavo meno da te”.

Fulvio disse che avevo fatto un figurone con quei ventenni. Ero felice.

Quella sera io e la mia donna capimmo che il nostro rapporto aveva valore finché l’uno dava all’altro la spinta verso le cose egregie. La gara vinta era un segno, un gran buon segno. La sera, non avendo in collegio una stanza comune,  facemmo l’amore diverse volte nella nera Volkswagen tra gli alberi antichi dell’antica foresta incantata. Non sentivo il desiderio né il rimpianto di donne migliori. “Finché mi fa vincere-pensai-l’ottima è lei”.

Naturalmente dovevo, e volevo, a mia volta incoraggiarla a primeggiare  sempre, a essere egregia tra tutte le altre[13].

Ma questo non mi fu consentito da lei stessa e non mi fu possibile.

 

Bologna 2 luglio 2024 ore 19, 53 giovanni ghiselli.

 

p. s

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[1] Nella Repubblica (410d), Platone rappresenta suo fratello Glaucone che conversa co Socrate e sostiene che coloro i quali praticano la sola e pura ginnastica sono ajgriwvteroi tou` devonto~, più rozzi del necessario, ma quelli che non praticano l’esercizio fisico sono malavkwteroi, più molli del necessario. Parole sante. Si può pensare da una parte a tanti sportivi professionisti, dall’altra agli umbratici doctores  alle talpe che si acciecano nel buio e nella polvere delle biblioteche.

[2] Cfr. Pindaro, Olimpica I, vv.95-96

[3] ojgdwkontaevth moi`ra kivcoi qanavtou, (fr. 22D, v. 4),  il  destino di morte mi colga ottantenne.

[4] “Essi fuggono via/da qualche remoto sfacelo;/ma quale, ma dove egli sia,/non sa né la terra né il cielo” (Giovanni Pascoli, Myricae, Scalpitìo,  vv. 9-12)

Nel 2017 dovrò sottopormi a un intervento di riduzione della prostata.

[5] Cfr. Terenzio, Andria, 6-7.

[6] Cfr. Dante, Inferno, XIII, 10-12: “Quivi le brutte Arpìe lor nidi fanno,/che cacciar delle Strofade i Troiani/con tristo annunzio di futuro danno”.

[7] Cfr. Ovidio, Metamorfosi, X, 665, la meta era lontana. Il poeta peligno racconta la gara  tra Atalanta e  Ippomene che vince la corsa grazie all’astuzia dei pomi d’oro.

[8] Cfr. Dante, Inferno, XVI, 87.

[9] Cfr. Pindaro, Olimpica II, 88.

[10] Cfr. Ovidio, Metamorfosi, X, 663: “aridus e lasso veniebat anhelitus ore”. Ippomene non ce l’avrebbe fatta senza l’aiuto di Venere che gli aveva dato le mele d’oro. Né io senza l’incoraggiamento, l’aiuto mentale di Ifigenia.

[11] Cfr. Čechov, Il gabbiano, II. “Le donne non perdonano l’insuccesso”, dice Kostantin che poi si uccide.

[12] Cfr.  Iliade, XIX, 423 ouj lhvxw. E’ Achille che risponde a Xanto, il cavallo fatato che, abbassato il capo e tutta la chioma, gli ha predetto la morte vicina.

[13] Cfr. Iliade,  VI, 208  "aije;n ajristeuvein kai; uJpeivrocon e[mmenai a[llwn”.

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