NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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giovedì 31 ottobre 2013

Sazia di Luce, di Adriana Pedicini


Adriana Pedicini, Sazia di Luce, Edizioni Il Foglio

E’ un libro di poesie: liriche belle, piene di amore per la vita, un amore sicuro, anche se non privo di note dolorose.
Il titolo, Sazia di luce, può trarre in inganno: di fatto l’autrice non è sazia di quella che la più rallegrante delle cose1, simbolo di salvezza e di beatitudine, ma è piuttosto alla ricerca di una luce che prosegua anche dopo la vita e ci accompagni quale yucagwgov~ verso benefiche immensità.
Questo amore e desiderio di vita, terrena ed eterna, dilaga dall’anima di Adriana e si espande sull’umanità, sugli animali, sulle piante, sulla natura intera osservata con l’acume di un’intelligenza emotiva che ne riconosce aspetti topici, già cantati dalla poesia, e ne scopre altri nuovi con una sensibilità vivace .
Il lettore fin dai primi versi si sente incoraggiato ad amare la vita assimilandosi alla poetessa la cui forte vena ha l’effetto di una corrente che trascina con sé. Questa immersione dionisiaca nei flutti del gran “mare dell’essere” è un naufragio dolce. Le barriere elevate dall’egoismo, dai luoghi comuni volgari, cadono; le separazioni tra uomo e uomo dovute all’egoismo sono abbattute; anche i confini tra gli esseri umani, gli animali, i fiori e le piante, insomma tutte le creature di Dio, vengono cancellati da questo amore che comprende ogni aspeto della vita in una comunione amorosa e mistica.
Vediamo allora, per cominciare, una di queste poesie.
Ancora un minuto (p. 14)
Adriana chiede un poco di tempo, appena un minuto, ma una frazione di vita così piccina può essere densa di significato, può rappresentare un momento epifanico, avere il valore e la forza di una rivelazione, l’intensità di un’apocalissi.
L’autrice, come Penelope, chiede questa dilazione “per rifinire la mia parte di tela”. Adriana è una studiosa, una finissima grecista e latinista: di certo la sua tela allude al sudario di Laerte mai finito dalla saggia moglie di Odisseo. Questa tessitura dunque non verrà ma portata a termine: è come la vita che non può terminare ma continuerà sempre, indistruttibilmente viva.
In quel minuto eterno l’autrice vuole rivedere e ripensare a tutto : “rimestare ancora una volta/ i colori dell’iride/nel mastello dei giorni ”. L’iride è anche la parte pigmentata degli occhi che sono le porte e le guide dell’amore2, e il mastello dei giorni contiene l’impasto delle azioni e degli eventi della nostra vita con le tante prove che abbiamo dovuto affrontare, ora superandole, ora cadendo sugli ostacoli, ora facendoli cadere.
Poi: “Cicala d’estate/saranno miei rami /le braccia dei figli/ove d’amore/ assidue melodie canterò”. La cicala “pazza di sole”, come la chiama Aristofane3, può essere un alter ego del poeta che canta, pazzo di amore per la vita del mondo di cui sa cogliere la bellezza. I figli sono il proseguimento dell’esistenza della madre che continua ad avere una presenza anche terrena nella prole, poi nei nipoti e così via.
Infatti “i piccoli bimbi” che “molceranno il mio cuore di nonna” sono nominati subito dopo. Questi figli dei figli e poi i loro figli dovranno scovare l’ava “tra le tremule foglie dei mesi”. Le foglie vengono e vanno come le generazioni di noi mortali. Quelli della nostra generazione lo leggevano fin da bambini nel poeta sovrano con ammirazione pensosa:
“Tidide magnanimo, perché mi domandi la stirpe?”.
Domanda Glauco a Diomede.
Poi il figlio di Ippoloco continua:
“quale è la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini.
Le foglie alcune ne sparge il vento a terra, altre la selva
fiorente genera quando arriva il tempo di primavera;
così le stirpi degli uomini: una nasce, un'altra finisce”4.

Ebbene, noi educatori, amantissimi della vita e della cultura come conoscenza e come paideia, non saremo annientati quando usciremo da questo vestito che è il corpo, ma continueremo a vivere nell’eredità di affetti, di cultura di educazione che lasciamo su questa terra ai nostri figli, carnali e spirituali, ai figli dei nostri figli e così via

“Tu mi sorriderai.
E socchiuderai gli occhi
Gonfi di noi”.
Con questa immagine si chiude la poesia Ancora un minuto della collega e amica Adriana Pedicini.
Più avanti ne commenterò altre, e l’amicizia non toglierà rigore alla mia critica.

giovanni ghiselli

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1 "La luce è la più rallegrante delle cose: è divenuta simbolo di tutto ciò ch'è buono e salutare. In tutte le religioni indica la eterna salvezza, mentre l'oscurità indica dannazione" (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, p. 274).
2 Gli occhi, sostiene Properzio, sono, per chi ancora non l'avesse capito, comandanti nella guerra amorosa: "Si nescis, oculi sunt in amore duces" (II, 15, 12). Adriana l’ha capito di sicuro.
3 hJliomanhv~, Uccelli, 1096.
4 Iliade (VI, vv. 145-149)

mercoledì 30 ottobre 2013

Le ragazze "Supplici" di Eschilo



Martin Voss - Il rapimento di Europa


Quarta parte della conferenza che terrò venerdì  22 novembre 2013 nella Mediateca di San Lazzaro di Savena. Inizierò alle 20, 30. Parlerò per un’ora abbondante. Seguirà dibattito.

Il tema è la donna, non poche volte esposta e soggetta a violenza.

Per quanto riguarda la sezione Donne nella tragedia greca partiamo dalle Supplici di Eschilo. Queste giovani che formano il Coro del dramma[1] sono le Danaidi, cioè cinquanta figlie di Danao le quali, aujtogenei' fuxanoriva/ (v.8), per connaturata avversione all'uomo, fuggono accompagnate dal padre, volendo evitare le aborrite nozze con i cinquanta cugini figli di Egitto i quali le inseguono. Le fanciulle, giunte ad Argo, invocano la protezione del re del luogo Pelasgo, siccome  sono di origine argiva: discendono infatti da quella Io, figlia del re di Argo, Inaco, che era stata resa pazza e trasfigurata in una mucca[2]  assillata da un tafano in conseguenza dell'amore di Zeus e della gelosia di Era. Una storia raccontata nel Prometeo incatenato altra tragedia attribuita, con alta probabilità, a Eschilo.
Tali fanciulle hanno nel sangue l’ibrido caratteristico dei primordi[3]. 
Queste odiatrici delle nozze vedono nei cugini pretendenti uno sciame, denso di maschi, violento (ajrsenoplhqh' d j-eJsmo;n uJbristhvn, vv. 30-31) e lanciato al  loro inseguimento.
Le cinquanta femmine costituiscono una folla impaurita, giunta dall’Egitto con rami avvolti in bende di lana[4] (ejriostevptoisi klavdoisin, v. 23).
Esse chiedono con preghiere l'aiuto dell’ antenato, Epafo, il divino torello oltremarino (Supplici, vv.43-44) nato in Egitto dal tocco[5] di Zeus alla giovenca. Un semidio teriomorfo, identificabile, forse, con il dio-toro egiziano Api.
Il matrimonio per le Danaidi è sinonimo di orrori: le fanciulle in preda al terrore assimilano la loro voce a quella di Procne, la sposa di Tereo (v. 61)  trasformata in usignolo dopo che ebbe ucciso il figlio Iti per punire il marito il quale le aveva violentato la sorella Filomela. Tereo fu a sua volta mutato in upupa, e la cognata, così barbaramente stuprata, in rondine. Questo mito raccapricciante, raccontato o richiamato da diversi autori in varie altre versioni[6]  è emblematico per significare l'orrore di un matrimonio andato a male. Oggi ce ne sono tanti, la maggior parte, credo.
Sono ricorrenti i paragoni con gli uccelli: nel primo episodio Danao assimila i maschi inseguitori a falchi, "stirpi di nemici consanguinei e profanatori" (vv. 225), mentre le ragazze fuggiasche sembrano colombe atterrite.
Ora questi termini di paragone sono diventate categorie politiche.
Viene ripetuto il motivo dell'inimicizia mortale tra gli uomini e le donne che pure appartengono alla stessa specie.
Un odio empio, nota subito Eschilo: "come può restare puro l'uccello che divora l'uccello?" (o[rniqo~ o[rni~ pw`~ a}n aJgneuvoi fagwvn; v. 226) .

Nel Prometeo incatenato,  l'aborrimento delle Danaidi per gli sposi è profetizzato dal Titano in ceppi che prevede all’antenata delle Danaidi  Io, la ragazza-giovenca demente, l'assassinio di quarantanove dei mariti da parte di quarantanove sorelle sue discendenti e la lodevole eccezione di Ipermestra la quale risparmierà Linceo: "Una delle fanciulle il desiderio sedurrà a non ammazzare lo sposo, e  le si smusserà il proposito: tra i due mali preferirà avere fama di debole che di assassina".
(Prometeo Incatenato[7], vv. 865-868). 
Le Supplici di Eschilo[8] hanno pure una parte politica che attualizza il mito facendovi entrare la democrazia
Nel primo episodio entra in scena Pelasgo che si presenta come "capo di quella terra" (v. 251) e avverte che la città non ama i discorsi lunghi (makravn ge me;n dh; rh'sin ouj stevrgei povli", v. 273). E' l'affermazione della giusta misura che non può essere ipertrofica[9]. 
Le Danaidi quindi raccontano in breve la loro storia e chiedono al sovrano protezione dai tracotanti cugini che vorrebbero ghermirle. A questo punto Eschilo adatta il mito alla Costituzione ateniese, pur se il dramma è ambientato ad Argo dove Pelasgo, sebbene re, rende omaggio alla democrazia affermando solennemente: "Io non posso fare promesse prima di avere reso questo problema comune a tutti i cittadini"(vv. 368-369).
E quando  Danaidi ribattono:"tu sei la città, tu incarni il potere del popolo, signore che non subisce giudizi"(vv. 370-371), il monarca ribadisce: "Te l'ho detto anche prima: senza il popolo non posso agire neppure con il potere che ho" (vv. 398-399).
Il mito dunque viene attualizzato, come, vedremo, anche nelle successive Eumenidi (del 458)
Poi  Pelasgo aggiunge che occorre un pensiero denso, in grado di dare salvezza[10] (dei' toi baqeiva" frontivdo" swthrivou), e capace di scendere nel profondo, simile a un palombaro, con occhio vigile e non ebbro (vv. 407-409).
Queste parole si addicono allo stile e ai contenuti della tragedia greca, di questa e di altre.
L'ebbrezza peggiore, da sempre, è quella dei luoghi comuni che offuscano e restringono la visione mentale. Le metafore, di cui Eschilo fa ampio uso, allargano la mente, la aiutano a cogliere somiglianze e relazioni tra cose lontane.
Carattere distintivo del potere tirannico è, viceversa, il fatto di tagliare le teste[11] o per lo meno di chiudere la mente dei sudditi non tollerando alcuna critica e  non accettando di subire controlli da nessuno. Si pensi alla tirannide della televisione o a quella della pubblicità che non ammettono confutazione, come il despota orientale Serse nella tragedia i Persiani[12].

Ad Argo, e in Grecia, dunque, spiega Pelago, il re democratico delle Supplici :  “la gente tende ad accusare (filaivtio~ lewv~)  il potere[13]" (v.485), e la moltitudine probabilmente commisererà le Danaidi supplici:"e infatti qualcuno vedendo questi rami, e provando compassione, potrebbe sentire avversione per la prepotenza del maschio stuolo, e il popolo sarebbe più benevolo verso di voi: infatti ciascuno ha simpatia per i più deboli" (vv. 486-489).
Questa di proteggere i supplici  è una virtù che gli Ateniesi attribuivano a se stessi[14], ed Eschilo la riconosce pure agli Argivi dei quali in quegli anni il governo di Atene cercava l'alleanza in prospettiva antispartana.

In effetti, al momento della votazione, "tutto il popolo votò alzando la mano favorevole"(Eschilo, Supplici, v. 607) alla proposta presentata dallo stesso  Pelasgo di aiutare le  ragazze vessate, non solo per pietà verso di loro, ma anche per schivare l'ira di "Zeus che protegge i supplici"(v. 616) ed evitare "la doppia contaminazione" (diplou'n mivasma, v.619) che sarebbe derivata dal respingere giovani donne bisognose di  protezione, straniere, quindi ospiti, e, al tempo stesso, concittadine per la loro origine.
Si pensi all’infamia della legge Bossi-Fini.
J.W. Waterhouse, Le Danaidi
L'aiuto alle fanciulle raccomandato dal re con un breve discorso, venne dunque approvato dal popolo cersivn (v. 621), con alzata di mani, senza bisogno dell’araldo (a[neu klhth'ro~, v. 622) che chiamasse per nome.
Del resto fu Zeus stesso a portare a termine l’operazione (v.624).
Qui vediamo la fede nella democrazia, in Zeus, e la volontà di osservare le  regole avite che prescrivevano di onorare e riverire  i numi, i genitori, e gli stranieri non ostili.
Tale codice tripartito viene ricordato dal coro delle Danaidi: gli ospiti, gli dèi, il padre e la madre devono essere almeno rispettati: "Infatti il rispetto dei genitori[15]  (tokevwn sevba~) è la terza tra le leggi scritte  della Giustizia venerandissima"(vv. 707-709).

Il coro delle Danaidi  minaccia il suicidio per impiccagione prima che un uomo esecrato si avvicini al suo corpo (vv. 788-790). Pelasgo "è mosso anzitutto dal timore religioso di Zeus che protegge le Supplici"[16]. Infatti  il re di Argo avverte l'araldo degli Egizi che potrà portare via le donne solo se un discorso pio riuscirà a persuaderle (ei[per eujsebh;" pivqoi lovgo" , v. 941). L'intelligenza e la moralità devono succedere alla violenza nel rapporto tra i sessi.
Ora viene continuamente stimolata una cattiva rivalità, il risentimento e perfino l’odio tra maschi e femmine,  per il semplice motivo che le persone sessualmente insoddisfatte sono più facilmente manipolabili[17].

Nelle Supplici si tratta di evitare una sorta di endogamia, uno dei tabù della razza umana, ma la lotta tra maschi e femmine è un tema caro ad Eschilo: lo svilupperà compiutamente nell'Orestea dove vi prenderanno parte anche gli dèi facendo trionfare il patriarcato.
Alla fine del dramma le Danaidi pregano la casta Artemide di guardarle con compassione salvandole dalle nozze, ma le loro ancelle affermano e consigliano di non trascurare Cipride. Anche Afrodite è una dea venerata per le sue opere. Del suo corteggio fanno parte Desiderio, Persuasione seducente, e Armonia. Il pensiero di Zeus è imperscrutabile e il matrimonio potrebbe essere la realizzazione delle figlie di Danao come di molte donne prima di loro (Supplici, vv. 1049-1052).
La tragedia si conclude con le minacce dell'arrogante araldo egiziano contro gli Argivi difensori delle Danaidi le quali oppongono resistenza a ogni tentativo di aggiogarle a uomini aborriti. Esse pregano Zeus "di liberarle da nozze rovinose con sposi malvagi"(v. 1064) e che "conceda la vittoria alle donne"(kai; kravto" nevmoi gunaixivn, v. 1069).
Eschilo tende ai compromessi e nelle sue tragedie non c'è mai un vincitore assoluto. Alla fine della trilogia, Afrodite stessa compariva sulla scena celebrando la necessità cosmica di Eros. Non possiedo queste parole, tramandate dalla tradizione indiretta, e mi affido al già citato testo di Pohlenz: "Mia opera è quando il cielo e la terra si congiungono in un ardente amplesso, quando l'umore del cielo feconda la terra, sì ch'essa in pascoli, in campi, in selve, genera ciò di cui l'uomo abbisogna per vivere".

L'eros , il desiderio d'amore non è solo un istinto individuale dell'uomo; è una potenza cosmica primigenia che suscita ogni vita. Questo pensiero, che Platone svilupperà nel Convito, vien qui già intuitivamente adombrato. Risparmiando il marito, anche Ipermestra ha reso omaggio alla dea dell'amore"[18].

Giovanni Ghiselli

P. S. Il blog http://giovannighiselli.blogspot.it/  è arrivato a 113080


[1] Databile tra il 463 e il 461,
[2] Cfr. Io…Iam satis obsita, iam bos (Eneide, VII; 789-790), Io già coperta di peli, già vacca. 
[3] "Nella mitologia greca la figura ibrida è, in generale, un contrassegno di appartenenza a un mondo primitivo” K. Kerényi, Miti e misteri ,  p. 45.
[4] Questo è il segno dei supplici anche nell’incipit dell’Edipo re che comincia con queste parole del figlio di Laio: “ O figli, nuova stirpe dell'antico Cadmo/quali seggi mai sono questi dove state seduti/con i supplici rami incoronati?" (vv. 1-3).
[5] Cfr. ejfavptw, "metto la mano sopra".
[6] Ne fa un lungo racconto in esametri Ovidio nelle Metamorfosi (VI, 426-674) cui allude Eliot per significare la decadenza del mito nella ricezione degli uomini moderni: "The change of Philomel, by the barbarous king/So rudely forced; yet there the nightingale/Filled all the desert with inviolable voice/And still she cried, and still the world pursues,/'Jug Jug' to dirty ears" (The Waste Land, vv. 99-103), la metamorfosi di Filomela, dal barbaro re così brutalmente forzata; eppure là l'usignolo riempiva tutto il deserto con voce inviolabile, e ancora ella piangeva e ancora il mondo continua 'Giag Giag' a orecchie sporche. Il canto della voce inviolabile di Filomela è degradato e dissacrato, poiché suona oramai solo naturalisticamente come un "giag giag" per le orecchie inquinate del mondo contemporaneo.
[7] Di data incerta. Non è sicura nemmeno la paternità eschilea, per la quale comunque io propendo.
[8] Le Supplici di Euripide (del 422) contengono una parte politica più ampia in difesa della democrazia e delle leggi scritte. 
[9] Si pensi alla chiacchiera di tanti dei politici attuali vaghi di ciance e privi di idèe
[10] Servirebbe anche oggi, 30 ottobre 2013.
[11] Ricordo la storia di Trasibulo di Mileto e di Periandro di Corinto in Erodoto o quella di Tarquinio il Superbo in Tito Livio.
[12] Tragedia di contenuto storico, del 472. Racconta la sconfitta dei Persiani a Salamina. Breve digressione sulla tragedia di Eschilo i Persiani. Nel primo episodio, la regina madre Atossa racconta una sua visione notturna: le appariva in sogno il figlio Serse, il grande re, che, ponendo le cinghie sotto il collo a due donne (vv. 190-191), le aggiogava al carro: di queste una era vestita con pepli dorici, l'altra abbigliata alla persiana. Simboleggino la Grecia e la Persia. La seconda si sottomette, mentre la prima recalcitra, spezza il giogo e travolge il carro. Serse, anche se sconfitto non perderà il potere, siccome non è "uJpeuvquno" povlei" (Persiani, v. 213), tenuto a rendere conto alla città, come  uno stratego eletto dal popolo. Eschilo contrappone di nuovo al potere assoluto, cui sottostanno i Persiani, il sistema democratico di Atene, quando la regina Atossa, dopo avere raccontato il sogno, domanda ai vecchi dignitari chi sia il pastore e il padrone dell'armata di Salamina. Allora il corifeo risponde: "ou[tino" dou'loi kevklhntai fwto;" oujd  j uJphvkooi"  (Persiani, v. 242), di nessun uomo sono chiamati servi né sudditi.
[13] Grazie alla parrhsiva, la libertà di parola.
[14] Per quanto riguarda la difesa dei più deboli all’interno della povli~, il Pericle di Tucidide  menziona le leggi che ad Atene, la scuola dell’Ellade  (Cfr. Tucidide, Storie, II, 41) non devono essere trasgredite, né quelle scritte, né quelle non scritte: "o{soi te ejp j wjfeliva tw'n ajdikoumevnwn kei'ntai kai;   o{soi a[grafoi o[nte" aijscuvnhn oJmologoumevnhn fevrousin" (Storie, II, 37, 3) quante sono poste a tutela di chi subisce ingiustizia, e quante, sebbene non scritte, sanciscono un disonore riconosciuto da tutti. Gli o{soi a[grafoi  corrispondono agli "a[grapta kajsfalh' qew'n-novmima" (Antigone, vv. 454-455), i diritti non scritti e non cancellabili degli dèi anteposti da Antigone all’empio editto di Creonte che ordina di lasciare insepolto un morto.
[15] “Nell’ordine dei valori morali proposti dalla società greca arcaica e classica l’onore reso ai genitori viene subito dopo quello prestato agli dèi: ved. p. es. Pindaro, Pyth. 6-26-7 (e scolio ad. loc.); Euripide, Tr. GF V, fr. 853 Kannicht; Senofonte, Mem. IV 4, 19. Le colpe contro i genitori nella mentalità religiosa del tempo erano considerate inespiabili anche dopo la morte: Eschilo, Eum. 721; Platone, Phd. 114 a, Resp. 615 c(….) Invece, nel comico “mondo alla rovescia” degli uccelli, battere il padre è considerato un atto onorevole (p. es. Aristofane, Au. 755-9)”
Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 356 e p. 357.
[16]M. Pohlenz, La tragedia greca , p. 21.
[17] Nel romanzo 1984 di Orwell, c’è una ragazza, Jiulia, che si ribella al dispotismo facendo l'amore con gioia, poi spiega: "Quando fai all'amore, spendi energia; e dopo ti senti felice e non te ne frega più di niente. Loro non possono tollerare che ci si senta in questo modo... Tutto questo marciare su e giù, questo sventolio di bandiere, queste grida di giubilo non sono altro che sesso che se ne va a male, che diventa acido. Se sei felice e soddisfatto dentro di te, che te ne frega del Grande Fratello e del Piano Triennale, e dei Due Minuti di Odio, e di tutto il resto di quelle loro porcate?" (p. 142). Spogliandosi questa ragazza bruna "faceva un gesto magnifico, proprio quello stesso magnifico gesto dal quale sembra che venga distrutta tutta intera una civiltà" (p.133). Il protagonista del romanzo vede nell'istinto della donna sensuale "un colpo inferto al Partito... Un atto politico". Quando la sua giovane amante si spoglia infatti la osserva pieno di ammirazione, quindi le dice: "Sta' a sentire. Con più uomini sei stata e più ti voglio bene. Hai capito?" (p. 134).
[18]M. Pohlenz, La tragedia greca, p. 61.

martedì 29 ottobre 2013

Donne e maghe. Calipso la mite. Medea la furente. Ecate e le streghe del Macbeth

George Romney, Lady Hamilton as Medea
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Terza parte della conferenza che terrò venerdì  22 novembre 2013 nella Mediateca di San Lazzaro di Savena.

Il tema è la donna, non poche volte esposta e soggetta a violenza.

L’orario è ancora da definire.

Calipso la mite. Medea la furente e i suoi favrmaka. Ecate e le streghe del Macbeth. Erichto effera
Abbiamo detto che Calipso prende il rifiuto di Odisseo assai meno male e soprattutto in modo molto meno deleterio di quanto faccia la  Medea di Euripide abbandonata da Giasone.
L’allieva di Ecate, la donna esperta di favrmaka[1],  afferma la naturalezza e, quindi la legittimità della sua furia distruttiva di femmina umana offesa nel letto (ej" eujnh;n hjdikhmevnh, Euripde, Medea, v. 265), un oltraggio  che la indurrà a uccidere i figli avuti dall'ex amante suscitandone l'orrore .
Giasone  la apostrofa chiamandola leonessa, non donna, con l'indole più feroce della Tirrenia Scilla: "levainan, ouj gunai'ka, th'" Turshnivdo"-Skuvllh" e[cousan ajgriwtevran fuvsin" (vv. 1342-1343). Costei è un mostro, una satanessa o pitonessa primordiale, con sei teste da fare spavento e tre file di denti in ogni bocca con i quali ghermisce sei compagni di Ulisse (Odissea, XII, vv. 85 e sgg.)

Medea è una maga nipote del Sole, una creatura in parte soprannaturale, ma, come Euripide, anche Seneca  trae dal suo comportamento una legge valida pure per le femmine umane: "Nulla vis flammae tumidique venti/tanta, nec teli metuenda torti,/quanta, cum coniux viduata taedis/ardet et odit" (Medea , vv. 580-583), non c'è forza di fiamma e di vento impetuoso tanto violenta, e non è così tremenda quella di un dardo scagliato, quanto allorché brucia e odia una moglie privata dell'amore.
Seneca, con il suo gusto del macabro, mette in rilievo lo speciale talento della donna nel preparare intrugli malefici mescolando un  elementi diversi in un guazzabuglio infernale.   
La nutrice di Medea racconta come la nipote del Sole sia solita preparare i veleni: "Mortifera carpit gramina ac serpentium/saniem exprĭmit miscetque et obscenas aves/maestique cor bubonis et raucae strigis/exsecta vivae viscera… Addit venenis verba non illis minus/metuenda. Sonuit ecce vesano gradu/canitque. Mundus vocibus primis tremit" (Medea, vv. 731-734 e 737-740), sminuzza le erbe micidiali e spreme la bava dei serpenti e mescola anche uccelli di cattivo augurio e il cuore di un lugubre gufo e le viscere strappate da stridula strige ancora viva… Ai veleni aggiunge parole non meno tremende di quelle. Eccola che ha fatto risuonare il suo passo furioso e canta. Il mondo trema solo a udirne la voce. 
"In verità è difficile leggere il resoconto dei preparativi di Medea (670-739) senza riandare con la mente agli incantesimi del Macbeth"[2].
Si tratta della prima scena del quarto atto della tragedia di Shakespeare. Le streghe mettono vari ingredienti in una caldaia bollente. Vediamone alcuni: filetto di una biscia di pantano (Fillet of a fenny snake), pelo di pipistrello e lingua di cane (wool of bat, and tongue of dog), zampa di lucertola e ala d’allocco (lizard’s leg, and howlet’s wing), fegato di giudeo bestemmiatore (liver of blaspheming jew), dita di un bambino strangolato al suo nascere, appena messo al mondo in una fossa da una sgualdrina (finger of birth-strangled babe-ditch-delivered by a drab), viscere di una tigre (a tiger’s chaudron), tutto da raffreddare con il sangue di un babbuino (with a baboon’s blood).
Il tragico e il macabro qui,  a dire il vero, confinano con il comico.
Anche le streghe del Macbeth sono seguaci di Ecate che  si rivolge loro, alle fatali donne, fatali sorelle (the weird women, the weird sisters,) rimproverandole di non averla consultata, dato il suo ruolo: "And I, the mistress of your charms,/the close contriver of all harms,/was never called to bear my part,/or show the glory of our art?" (III, 5), e io, la signora dei vostri incantesimi, la segreta progettatrice di tutti i mali, non sono mai stata chiamata a fare la mia parte, o a mostrare la gloria dell'arte nostra?  

Torniamo alla furibonda creatura di Seneca, una vera e propria incarnazione del furor. La mano insanguinata di Medea intreccia per Ecate le scorie di molti crimini e diversi mostri del mito: le membra del gigante Tifeo schiacciato dall'Etna, il sangue di Nesso, le ceneri tolte al rogo dell'Eta che evocano la figura di Deianira ossessionata dai mostri[3], e altra spazzatura criminale[4] (Medea, vv. 782ss.).
Infine Ecate, la dea triforme [5] invocata già nella preghiera nera iniziale[6], voce non faustā (v. 12),  appare a Medea quale luna, una luna orrida: "Video Triviae currus agiles,/non quos pleno lucida vultu/pernox agitat, sed quos facie/lurida maesta, cum Thessalicis/vexata minis caelum freno/propiore legit" (vv.787-792), vedo il carro veloce di Trivia, non quello che guida luminosa attraverso la notte nel plenilunio, ma quello che conduce con aspetto squallido, triste, quando travagliata dalle minacce delle maghe tessale costeggia il cielo con morso più stretto.
Le maghe tessale sono colleghe di Medea in stregonerie: la più famosa è Erictho: secondo Lucano aveva rinunciato alle cerimonie criminali della scellerata gente di Tessaglia, troppo pii per lei, e aveva portato a nuovi riti l'arte depravata ("inque novos ritus pollutam duxerat artem" Pharsalia, VI, 509).
Questa strega era  congiurata con il Caos "innumeros avidum confundere mundos" (v. 696), avido di confondere innumerevoli mondi.
Favorita dagli dèi dell’Erebo, costei occupava i sepolcri dopo averne scacciato i morti.

Calipso diversamente da  queste donne furenti è assai moderata, poiché, quando riceve la notizia che deve lasciar partire l'amante scontento, si limita a rabbrividire ("rJivghsen", Odissea, V, 116) e ad accusare gli dèi, ma senza dare in escandescenze; anzi, nei confronti di Odisseo, cui non piaceva più[7] (v. 153), è benefica e generosa.
I favrmaka di Elena
Nel IV canto dell’Odissea, Telemaco e Pisistrato, figlio di Nestore, partiti da Pilo, arrivano a Sparta.

Breve digressione
Confronto tra il cocchio tirato da due cavalli e la bicicletta spinta da gambe di donne e di uomini.
Il viaggio da Pilo a Fere e da Fere (l'odierna Calamata) a Sparta (III libro dell’Odissea ).
Dopo il banchetto a Pilo, Telemaco e  Pisistrato salirono sul cocchio preparato dai fratelli e fornito di cibo dalle ancelle. Il Nestorìde guidava i cavalli  che volavano verso la pianura lasciando l'alta rocca di Nestore. Al tramonto del sole giunsero a Fere (Odissea, III, 488), l'odierna Calamata, posta a circa metà strada tra Pilo e Sparta. La mattina seguente ripartirono, all’alba, e al tramonto giunsero a Lacedemone.
Ho notato questo particolare poiché il percorso Sparta-Calamata e pure Calamata-Sparta l'ho fatto in bicicletta, in meno di una giornata, e in compagnia di altre persone, donne comprese, anche loro in bicicletta, e passando per il Taigeto. Perciò il velocipede può sostituire degnamente cocchio e cavalli senza allungare i tempi del viaggio e senza togliere niente al contatto con la natura, anzi aggiungendo una bella dose di impiego della fisicità la quale viene potenziata mentre si smaltiscono banchetti che impinguano i sedentari obesi. A Fere-Calamata i due ragazzi antichi andarono a dormire da un ospite (noi ci dovemmo accontentare di un alberghetto da pochi soldi) e ripartirono all'alba.
da sinistra: io, Alessandro, Fulvio
e Maddalena sui monti greci
I cavalli di nuovo volavano volentieri e giunsero alla pianura ricca di messi. Omero non menziona il Taigeto, che, soprattutto da quella parte, la parte del mare, è un osso duro anche perché la strada prima sale rapidamente, poi scende precipitosamente, poi sale di nuovo poi scende ancora. Comunque i due ragazzi antichi ci misero più tempo del mio gruppetto di ciclisti[8] non tutti giovanissimi:  noi ci muovemmo alle dieci di mattina e giungemmo a metà pomeriggio, in piena luce, mentre Telemaco e Pisistrato, partiti all'alba, arrivarono quando "duvsetov t j hjevlio" skiovwntov te pa'sai ajguiai" (v. 497), il sole si immerse e si oscuravano tutte le vie. 

Ma torniamo alla Sparta di Elena e Menelao
Siamo all’inizio del IV canto dell’Odissea.
Nel palazzo  dell’Atride c’è un banchetto di nozze con i convitati allietati (terpovmenoi) dall’aedo, divino cantore (qei`o~ ajoidov~, v. 17). C’erano anche due acrobati che roteavano in mezzo (ejdivneuon kata; mevssou~, v. 19).
Telemaco e Pisistrato, appena giunti vengono, annunciati  quali “stranieri” e Menelao ordina che siano accolti subito, come capitava a lui quando era un errante sulla lunga e difficile via del ritorno. 
Quindi il figlio di Odisseo e quello di Nestore vengono fatti lavare, e condotti a tavola perché si ristorino; solo quando si saranno  saziati, i due ospiti  dovranno dire chi sono. Intanto l’Atride racconta che  aveva vagato per otto anni prima di raggiungere Sparta. Nel suo peregrinare ha raccolto sì grandi ricchezze, ma nel frattempo ha perso diversi  compagni e amici, a partire dal fratello assassinato, e da Odisseo del quale nemmeno conosce la sorte.  Telemaco a queste parole si commuove e versa lacrime, cercando di non darlo a vedere con il rialzare il mantello purpureo davanti agli occhi.
In questo momento arriva Elena, simile ad Artemide, la dea vergine.
L’adultera, tornata a casa, si era rifatta una verginità.
La figlia di Zeus riconosce Telemaco dalla somiglianza con il padre e Pisistrato conferma l’ identità del  suo compagno di viaggio.
Il Nestoride rivela anche le difficoltà nelle quali si trova  l’amico.
Il re di Sparta risponde con parole di affetto e gratitudine per Odisseo compianto come eroe "ajnovstimon"(v. 182), senza ritorno. Quindi tutti piansero: Elena, Telemaco, Menelao e Pisistrato che ricordava il fratello Antiloco (v. 187) caduto a Troia. Poi il figlio di Nestore parlò, e pur accorato al pensiero del congiunto morto, invitò a non piangere dopo la cena[9].
Il convito deve essere qualche cosa di festivo e piacevole, altrimenti è un festino guasto e degenerato. Menelao approva la saggezza di Pisistrato nel quale si riconosce il vero figlio di Nestore. Quindi riprendono tutti a mangiare.
 A questo punto Elena getta nel vino un farmaco  quale antidoto al dolore, all'ira, e oblio di tutti i mali (vv. 220-221). L'aveva avuto in Egitto nella terra che produce farmaci, molti buoni e molti tristi mescolati ("favrmaka, polla; me;n ejsqla; memigmevna, polla; de; lugrav", v. 230).
Qui la droga non sembra  creare effetti permanenti poiché chi la prende si anestetizza per un giorno ("ejfhmevrio"", v. 223).

Teocrito e Apuleio
Quali sono allora i “farmaci” buoni?
Buoni sono i favrmaka  che Medea promette a Egeo[10]  contro la sterilità. Ma la nipote del Sole  era pure nipote e allieva   di Circe, la terribile maga esperta di "kaka; favrmak j e favrmaka luvgr j"[11] , farmachi cattivi e tristi, anche questi forieri di oblio.
Infatti Medea conosce anche “farmaci” e intrugli cattivi, molto cattivi.
Fa morire Glauce, la nuova fidanzata di Giasone e suo padre Creonte con doni avvelenati.
 Nelle Incantatrici (Farmakeuvtriai), l’Idillio II di Teocrito, Simeta  vorrebbe tenere avvinto l'uomo che la sta lasciando (v. 3). La donna abbandonata chiede l’aiuto di Ecate nel preparare favrmaka degni di Circe  di Medea e di Perimeda[12] (vv. 14 ss,).

Strega o maga del  è una denominazione non necessariamente vituperosa: "Persarum lingua magus est qui nostra sacerdos" , nella lingua dei Persiani è mago quello che nella nostra il sacerdote. Con queste parole Apuleio  si difende dall'accusa di essere un fattucchiere nel De Magia  (25). Nel romanzo dello stesso autore, del resto ci sono maghe terribili come quella ostessa anziana ma alquanto graziosa che mutò un suo amante fedifrago in un castoro "quod ea bestia captivitati metuens ab insequentibus se praecisione genitalium liberat"[13] , poiché questo animale, temendo di essere preso, si libera dagli inseguitori con il recidersi i testicoli.
Senza contare Panfile che diventa un uccello e il protagonista Lucio che, ricevuto da Fotide l’unguento sbagliato, diventa asino[14]. Siamo infatti in Tessaglia, la terra delle streghe.

Concludo con  Circe  e Odisseo
Queste donne, maghe o streghe o sacerdotesse, o addirittura mezze dèe, propinano spesso droghe le quali portano dimenticanza all'uomo che per un motivo o per l'altro non deve ricordare. Ma Odisseo il quale sa bene che, se ricordare è dolore, pure dimenticare è dolore[15], evita le droghe e costruisce la sua identità sulla pienezza della coscienza.

Sentiamo P. Citati a proposito di Circe e di altre maghe: “Questa dea che tesse e canta con grazia è figlia del Sole e di Perse: due divinità preolimpiche. Immaginiamo che la luce del sole si intrecci nella sua figura, risuoni nella sua voce[16], colmi la sua casa, come illumina il paesaggio boscoso e marino che Ulisse scorge dalla collina. Ma il Sole, nella mitologia greca, è una figura ambigua: sebbene dia luce e veda nitidamente le cose dall’alto, un rapporto segreto lo lega con tutto ciò che, nell’universo, è tenebroso, infernale, stregonesco. Inoltre, con ogni probabilità, mentre narra la storia di Circe, il “secondo Omero” ricorda un’altra figura: Ištar, la grande dea babilonese, il demone erotico, la regina delle prostitute, posseduta da una furia vendicatrice verso gli uomini che ama e trasforma in animali. Tutte le dee-streghe della letteratura occidentale discendono da Ištar e Circe: Medea e Circe in Apollonio Rodio, Circe in Ovidio, Erittone in Lucano, Armida in Tasso; con il loro dono dei filtri, l’arte di domare il fuoco, fermare l’acqua dei fiumi, incantare la luna e gli astri, spargere veleni, chiamare a raccolta gli dèi della tenebra, far svolazzare le anime dei morti, cambiare gli uomini in bestie, avviano la natura animata verso la notte e il caos. Così, fin dalla prima parola, il “secondo Omero” ci dice che Circe è una “dea terribile”[17] e che il fratello, Aiete, signore del pericolosissimo Oriente, è “funesto”[18] come un altro Titano, Atlante, padre di Calipso. Il mondo dell’ombra si apre davanti alla mente di Circe. Come Ištar, è una strega: conosce le droghe che trasformano gli uomini in animali, quelle che cambiano la natura degli animali…Senza muoversi dall’isola di Eea conosce l’Ade: la sapienza, i segreti, le rive, le selve, i fiumi, i sacrifici infernali; guida nell’Ade chi debba compiere il più pericoloso tra i viaggi. Congiungersi con lei è pericoloso, perché una parte della furia erotica di Ištar è passata nelle sue membra. Come Calipso, appartiene a un tempo antichissimo: perché dietro le amabili parole umane che noi ascoltiamo, nasconde forse la voce umana e terrificante degli dèi titanici…La dea più prossima a Circe è Calipso. Con scrupolosa attenzione, il “secondo Omero” ne elenca le somiglianze: indossano la stessa veste; sono “terribili”, “ingannatrici”, e hanno quella strana voce. Ma questo gioco di somiglianze mette in luce la differenza che le divide. Circe non vive nell’irraggiungibile centro: non concede la vita immortale. E, soprattutto, Calipso appartiene al regno del malakós, come i prati del suo giardino: dolce, morbida, umida, voluttuosa, affettuosa; mentre Circe non è morbida né possiede la parola di miele. Forse Ulisse ama la sua eleganza: fredda, distante, cristallina, senza pathos; mai sentimentale”[19].

Circe droga i compagni di Ulisse mischiando favrmak j lugrav al cibo e alla bevanda (Odissea, X, 136).
“Questa droga fa dimenticare Itaca e il ritorno: come i Lotofagi, le Sirene, Calipso (e Elena), Circe incarna la forza della dimenticanza, il veleno dell’oblio che attraversa l’Odissea, e contro il quale Ulisse lotta con la sua memoria vigilissima”[20].
Odisseo va al grande palazzo di Circe per liberare i compagni trasformati in porci dei quali ha avuto notizia da Euriloco che non si è fidato di entrare e ha visto da fuori la brutta metamorfosi dei compagni. Quando Ulisse sta per giungere, gli va incontro Ermes e gli dà un favrmakon ejsqlovn (X, 287, 292), come antidoto alla droga di Circe.
Si tratta dell’erba che gli dèi chiamano mw'lu: ha la radice nera e il fiore simile al latte (vv. 304-305).
“La pianta più famosa della farmacopea magica d’Occidente, che ha suscitato moltissime interpretazioni, pagane, cristiane ed alchemiche. Quest’erba non appartiene al mondo degli uomini: solo gli dèi la conoscono e possono strapparla dal suolo: il nome appartiene alla lingua divina e non viene trascritto, come di solito accade nei testi epici, in quella umana. Il “secondo Omero” si rifiuta di violare il segreto che l’avvolge, lasciando un velo attorno a lei. Noi possiamo soltanto immaginare che contenga in sé stessa, equamente divisi, l’elemento tenebroso della terra e di Circe (la radice nera) e l’elemento luminoso, che distingue il sole e gli dèi olimpici (il fiore bianco)”[21].   

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it
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[1] Medea non dubita dell'efficacia dei suoi favrmaka, di quelli favorevoli alla vita che promette a Egeo
(
oi\da favrmaka, v. 718), e di quelli letali con i quali intende distruggere i suoi nemici (v. 385, v. 789).
Tali mezzi la maga ha usato pure per aiutare Giasone a superare le prove impostegli dal re Eeta e le insidie

del viaggio di ritorno.
[2] Bradley, La tragedia di Shakespeare, p. 418.
[3] "Deianira appartiene ancora, in qualche modo, al regno dei mostri: è stata richiesta in sposa da uno di essi (Acheloo), desiderata da un altro (Il centauro Nesso) che l'ha toccata, che si confida con lei e ne fa una sua complice. E nella lotta contro Acheloo, Eracle ha fattezze ferine. Da questo bestiario, che ha conservato in sé come orrore e come fremito, Deianira non potrà uscire". U. Albini, Interpretazioni teatrali , p. 59.
[4] Si può pensare all'uranio impoverito.
[5] "Divinità primitiva e trina (triformis ), essendo associata a divinità appartenenti ai tre regni: la luna (il cielo), Diana (la terra) e Proserpina (gli inferi)". (G. G. Biondi, op. cit., p. 91, n. 5.)
[6] Hecate triformis, v. 7
[7] E  non c’è forse offesa più grande per una donna da parte dell’uomo che le piace
[8] Era il 1984 e il sottoscritto aveva cinquant'anni meno qualche mese, Fulvio Molinari  cinquantadue già suonati, un'amica di Pesaro, Serafina in odore di stregoneria, quarantatré, e un altro pesarese, Valerio,  una quarantina. Nel tragitto inverso, compiuto in un successivo giro del Peloponneso (1996), oltre Serafina, c'erano due ex allievi di Bologna, Maddalena e Alessandro, sui venticinque anni.
[9] Il dolore dell'anima infelice infatti se coltivato troppo a lungo e fuori luogo diventa,  un piacere depravato: "Fit infelicis animi prava voluptas dolor” Seneca, Ad Marciam de consolatione, 1, 7.
[10] Medea di Euripide, v,. 718.
[11]Odissea , X, 213 e 236.
[12] Che non conosco.
[13]Metamorfosi, I, 9.
[14] La sera prima la padrona, Panfile, minacciava il sole perché non tramontava in fretta. Aveva visto un bel giovane dal barbiere e aveva chiesto a Fotide di raccoglierne i capelli ma il tonsor l’aveva cacciata. Quindi Fotide aveva raccolto dei peli biondi tosati da otri caprini. Panfile con quei peli e gli strumenti della sua feralis officina aveva infuso spirito umano in quegli otri (3, 17). La feralis officina è la solita delle streghe: pezzi di cadaveri e altri ingredienti.
[15] Cfr. Prometeo Incatenato di Eschilo: "Doloroso è per me raccontare queste cose,/ma doloroso è anche tacere, e dappertutto sono le sventure" (ajlgeina; me;n moi kai; levgein ejsti;n tavde, a[lgo" de; siga'n vv. 197-198). Due versi questi, usati come epigrafe da Giuseppe Berto per il suo Il male oscuro (1964) che racconta la terapia di una nevrosi: “Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore”. Il racconto infatti è doloroso e pure terapeutico.
[16] Nel quarto libro delle Argonautiche (vv. 727-729) Apollonio Rodio racconta della visita che Giasone e Medea fanno a Circe per  purificarsi dell’assassinio di Assirto: ebbene zia e nipote hanno qualcosa in comune nello sguardo: tutta la stirpe del sole infatti era ben riconoscibile poiché con il bagliore degli occhi lanciavano lontano come un raggio d’oro guardando di fronte. Ndr.
[17] Deinh; qeov~ aujdhvessa, terribile dea con voce umana Odissea, X, 136. Ndr.
[18] aujtokasignhvth ojloovfrono~ Aijhvtao (X, 137), sorella germana di Eèta funesto. Ndr.
[19] P. Citati, La mente colorata, pp. 182-183.
[20] P. Citati, La mente colorata, p. 183.
[21] P. Citati, La mente colorata, p. 185.