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George Romney, Lady Hamilton as Medea |
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Terza parte della conferenza che terrò
venerdì 22 novembre 2013 nella Mediateca
di San Lazzaro di Savena.
Il tema è la donna, non poche volte
esposta e soggetta a violenza.
L’orario è ancora da definire.
Calipso la mite. Medea la furente e i
suoi favrmaka. Ecate e le
streghe del Macbeth. Erichto effera
Abbiamo detto che Calipso prende il
rifiuto di Odisseo assai meno male e soprattutto in modo molto meno deleterio
di quanto faccia la Medea di Euripide abbandonata da Giasone.
L’allieva di Ecate, la donna esperta di favrmaka, afferma la naturalezza e, quindi la
legittimità della sua furia distruttiva di femmina umana offesa nel letto (ej" eujnh;n
hjdikhmevnh, Euripde,
Medea, v. 265), un oltraggio che la indurrà a uccidere i figli avuti
dall'ex amante suscitandone l'orrore .
Giasone
la apostrofa chiamandola leonessa, non donna, con l'indole più feroce
della Tirrenia Scilla: "levainan, ouj gunai'ka, th'"
Turshnivdo"-Skuvllh" e[cousan ajgriwtevran fuvsin" (vv.
1342-1343). Costei è un mostro, una satanessa o pitonessa primordiale, con sei
teste da fare spavento e tre file di denti in ogni bocca con i quali ghermisce
sei compagni di Ulisse (Odissea, XII,
vv. 85 e sgg.)
Medea è una maga nipote del Sole, una
creatura in parte soprannaturale, ma, come Euripide, anche Seneca trae dal suo comportamento una legge valida
pure per le femmine umane: "Nulla vis flammae tumidique venti/tanta, nec
teli metuenda torti,/quanta, cum coniux viduata taedis/ardet et odit" (Medea , vv. 580-583), non c'è forza di
fiamma e di vento impetuoso tanto violenta, e non è così tremenda quella di un
dardo scagliato, quanto allorché brucia e odia una moglie privata dell'amore.
Seneca, con il suo gusto del macabro, mette
in rilievo lo speciale talento della donna nel preparare intrugli malefici
mescolando un elementi diversi in un
guazzabuglio infernale.
La nutrice di Medea racconta come la
nipote del Sole sia solita preparare i veleni: "Mortifera carpit gramina ac serpentium/saniem
exprĭmit miscetque et obscenas aves/maestique cor bubonis et raucae
strigis/exsecta vivae viscera… Addit venenis verba non illis minus/metuenda.
Sonuit ecce vesano gradu/canitque. Mundus vocibus primis tremit" (Medea,
vv. 731-734 e 737-740), sminuzza le erbe micidiali e spreme la bava dei
serpenti e mescola anche uccelli di cattivo augurio e il cuore di un lugubre
gufo e le viscere strappate da stridula strige ancora viva… Ai veleni aggiunge
parole non meno tremende di quelle. Eccola che ha fatto risuonare il suo passo
furioso e canta. Il mondo trema solo a udirne la voce.
"In verità è difficile leggere il
resoconto dei preparativi di Medea (670-739) senza riandare con la mente agli
incantesimi del Macbeth".
Si tratta della prima scena del quarto
atto della tragedia di Shakespeare. Le streghe mettono vari ingredienti in una
caldaia bollente. Vediamone alcuni: filetto di una biscia di pantano (Fillet of a fenny snake), pelo di pipistrello e lingua di cane (wool of bat, and tongue of dog), zampa di lucertola e ala d’allocco
(lizard’s leg, and howlet’s wing),
fegato di giudeo bestemmiatore (liver of
blaspheming jew), dita di un bambino strangolato al suo nascere, appena
messo al mondo in una fossa da una sgualdrina (finger of birth-strangled babe-ditch-delivered by a drab), viscere
di una tigre (a tiger’s chaudron),
tutto da raffreddare con il sangue di un babbuino (with a baboon’s blood).
Il tragico e il macabro qui, a dire il vero, confinano con il comico.
Anche le streghe del Macbeth
sono seguaci di Ecate che si rivolge
loro, alle fatali donne, fatali sorelle (the weird women, the weird
sisters,) rimproverandole di non averla consultata, dato il suo ruolo: "And I, the mistress of your charms,/the
close contriver of all harms,/was never called to bear my part,/or show the
glory of our art?" (III, 5), e io, la signora dei vostri
incantesimi, la segreta progettatrice di tutti i mali, non sono mai stata
chiamata a fare la mia parte, o a mostrare la gloria dell'arte nostra?
Torniamo alla furibonda creatura di
Seneca, una vera e propria incarnazione del furor.
La mano insanguinata di Medea intreccia per Ecate le scorie di molti
crimini e diversi mostri del mito: le membra del gigante Tifeo schiacciato
dall'Etna, il sangue di Nesso, le ceneri tolte al rogo dell'Eta che evocano la
figura di Deianira ossessionata dai mostri
,
e altra spazzatura criminale
(
Medea, vv. 782ss.).
Infine Ecate,
la dea triforme
invocata già nella preghiera nera iniziale
,
voce non faustā (v. 12),
appare a Medea quale luna, una luna orrida: "
Video Triviae
currus agiles,/non quos pleno lucida vultu/pernox agitat, sed quos facie/lurida
maesta, cum Thessalicis/vexata minis caelum freno/propiore legit" (vv.787-792)
, vedo
il carro veloce di Trivia, non quello che guida luminosa attraverso la notte
nel plenilunio, ma quello che conduce con aspetto squallido, triste, quando
travagliata dalle minacce delle maghe tessale costeggia il cielo con morso più
stretto.
Le maghe tessale sono colleghe di Medea
in stregonerie: la più famosa è Erictho:
secondo Lucano aveva rinunciato alle cerimonie criminali della scellerata gente
di Tessaglia, troppo pii per lei, e aveva portato a nuovi riti l'arte depravata
("inque novos ritus pollutam
duxerat artem" Pharsalia, VI, 509).
Questa strega era congiurata con il Caos "innumeros avidum confundere mundos"
(v. 696), avido di confondere innumerevoli mondi.
Favorita dagli dèi dell’Erebo, costei
occupava i sepolcri dopo averne scacciato i morti.
Calipso diversamente da queste donne furenti è assai moderata,
poiché, quando riceve la notizia che deve lasciar partire l'amante scontento,
si limita a rabbrividire ("rJivghsen", Odissea,
V, 116) e ad accusare gli dèi, ma senza dare in escandescenze; anzi, nei
confronti di Odisseo, cui non piaceva più
(v. 153), è benefica e generosa.
I favrmaka di Elena
Nel IV canto dell’Odissea, Telemaco e Pisistrato, figlio di Nestore, partiti da Pilo,
arrivano a Sparta.
Breve
digressione
Confronto tra il cocchio tirato da due
cavalli e la bicicletta spinta da gambe di donne e di uomini.
Il viaggio da Pilo a Fere e da Fere
(l'odierna Calamata) a Sparta (III libro dell’Odissea ).
Dopo il banchetto a Pilo, Telemaco e Pisistrato salirono sul cocchio preparato dai
fratelli e fornito di cibo dalle ancelle. Il Nestorìde guidava i cavalli che volavano verso la pianura lasciando
l'alta rocca di Nestore. Al tramonto del sole giunsero a Fere (Odissea, III, 488), l'odierna Calamata,
posta a circa metà strada tra Pilo e Sparta. La mattina seguente ripartirono,
all’alba, e al tramonto giunsero a Lacedemone.
Ho notato questo particolare poiché il
percorso Sparta-Calamata e pure Calamata-Sparta l'ho fatto in bicicletta, in
meno di una giornata, e in compagnia di altre persone, donne comprese, anche loro in bicicletta, e passando per il
Taigeto. Perciò il velocipede può sostituire degnamente cocchio e cavalli senza
allungare i tempi del viaggio e senza togliere niente al contatto con la
natura, anzi aggiungendo una bella dose di impiego della fisicità la quale
viene potenziata mentre si smaltiscono banchetti che impinguano i sedentari obesi. A Fere-Calamata i due
ragazzi antichi andarono a dormire da un ospite (noi ci dovemmo accontentare di
un alberghetto da pochi soldi) e ripartirono all'alba.
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da sinistra: io, Alessandro, Fulvio
e Maddalena sui monti greci |
I cavalli di
nuovo volavano volentieri e giunsero alla pianura ricca di messi. Omero non
menziona il Taigeto, che, soprattutto da quella parte, la parte del mare, è un
osso duro anche perché la strada prima sale rapidamente, poi scende
precipitosamente, poi sale di nuovo poi scende ancora. Comunque i due ragazzi
antichi ci misero più tempo del mio gruppetto di ciclist
i
non tutti giovanissimi:
noi ci muovemmo
alle dieci di mattina e giungemmo a metà pomeriggio, in piena luce, mentre
Telemaco e Pisistrato, partiti all'alba, arrivarono quando "
duvsetov t j hjevlio" skiovwntov te pa'sai
ajguiai" (v. 497), il sole si immerse e si oscuravano tutte le vie.
Ma torniamo alla Sparta di Elena e Menelao
Siamo
all’inizio del IV canto dell’Odissea.
Nel palazzo dell’Atride c’è un banchetto di nozze con i
convitati allietati (terpovmenoi) dall’aedo, divino cantore (qei`o~ ajoidov~, v. 17). C’erano anche due acrobati che
roteavano in mezzo (ejdivneuon kata; mevssou~, v. 19).
Telemaco e
Pisistrato, appena giunti vengono, annunciati quali “stranieri” e Menelao ordina che siano
accolti subito, come capitava a lui quando era un errante sulla lunga e
difficile via del ritorno.
Quindi il
figlio di Odisseo e quello di Nestore vengono fatti lavare, e condotti a tavola
perché si ristorino; solo quando si saranno saziati, i due ospiti dovranno dire chi sono. Intanto l’Atride
racconta che aveva vagato per otto anni
prima di raggiungere Sparta. Nel suo peregrinare ha raccolto sì grandi
ricchezze, ma nel frattempo ha perso diversi compagni e amici, a partire dal fratello
assassinato, e da Odisseo del quale nemmeno conosce la sorte. Telemaco a queste parole si commuove e versa
lacrime, cercando di non darlo a vedere con il rialzare il mantello purpureo
davanti agli occhi.
In questo momento
arriva Elena, simile ad Artemide, la dea vergine.
L’adultera,
tornata a casa, si era rifatta una verginità.
La figlia di
Zeus riconosce Telemaco dalla somiglianza con il padre e Pisistrato conferma l’
identità del suo compagno di viaggio.
Il Nestoride
rivela anche le difficoltà nelle quali si trova
l’amico.
Il re di Sparta
risponde con parole di affetto e gratitudine per Odisseo compianto come eroe
"ajnovstimon"(v. 182),
senza ritorno. Quindi tutti piansero: Elena, Telemaco, Menelao e Pisistrato che
ricordava il fratello Antiloco (v. 187) caduto a Troia. Poi il figlio di Nestore
parlò, e pur accorato al pensiero del congiunto morto, invitò a non piangere
dopo la cena.
Il convito deve
essere qualche cosa di festivo e piacevole, altrimenti è un festino guasto e
degenerato. Menelao approva la saggezza di Pisistrato nel quale si riconosce il
vero figlio di Nestore. Quindi riprendono tutti a mangiare.
A questo punto Elena getta nel vino un
farmaco quale antidoto al dolore,
all'ira, e oblio di tutti i mali (vv. 220-221). L'aveva avuto in Egitto nella
terra che produce farmaci, molti buoni e molti tristi mescolati ("favrmaka, polla; me;n
ejsqla; memigmevna, polla; de; lugrav", v. 230).
Qui la droga
non sembra creare effetti permanenti
poiché chi la prende si anestetizza per un giorno ("ejfhmevrio"", v.
223).
Teocrito e Apuleio
Quali sono
allora i “farmaci” buoni?
Buoni sono i favrmaka che Medea promette a Egeo
contro la sterilità. Ma la nipote del
Sole era pure nipote e allieva di
Circe, la terribile maga esperta di "kaka; favrmak j e favrmaka luvgr j"
, farmachi cattivi e tristi, anche questi forieri di oblio.
Infatti Medea
conosce anche “farmaci” e intrugli cattivi, molto cattivi.
Fa morire
Glauce, la nuova fidanzata di Giasone e suo padre Creonte con doni avvelenati.
Nelle
Incantatrici (Farmakeuvtriai), l’Idillio II di Teocrito, Simeta vorrebbe tenere avvinto l'uomo che la sta
lasciando (v. 3). La donna abbandonata chiede l’aiuto di Ecate nel preparare favrmaka degni di
Circe di Medea e di Perimeda
(vv. 14 ss,).
Strega o maga
del è una denominazione non
necessariamente vituperosa: "Persarum lingua magus est qui nostra
sacerdos" , nella lingua dei Persiani è mago quello che nella nostra il
sacerdote. Con queste parole Apuleio si
difende dall'accusa di essere un fattucchiere nel De Magia (25). Nel romanzo
dello stesso autore, del resto ci sono maghe terribili come quella ostessa
anziana ma alquanto graziosa che mutò un suo amante fedifrago in un castoro "quod
ea bestia captivitati metuens ab insequentibus se praecisione genitalium
liberat"
, poiché questo animale, temendo di essere preso, si libera dagli inseguitori
con il recidersi i testicoli.
Senza contare
Panfile che diventa un uccello e il protagonista Lucio che, ricevuto da Fotide
l’unguento sbagliato, diventa asino.
Siamo infatti in Tessaglia, la terra delle streghe.
Concludo con Circe e
Odisseo
Queste donne,
maghe o streghe o sacerdotesse, o addirittura mezze dèe, propinano spesso
droghe le quali portano dimenticanza all'uomo che per un motivo o per l'altro
non deve ricordare. Ma Odisseo il quale sa bene che, se ricordare è dolore,
pure dimenticare è dolore,
evita le droghe e costruisce la sua identità sulla pienezza della coscienza.
Sentiamo P.
Citati a proposito di Circe e di altre maghe: “Questa dea che tesse e canta con
grazia è figlia del Sole e di Perse: due divinità preolimpiche. Immaginiamo che
la luce del sole si intrecci nella sua figura, risuoni nella sua voce,
colmi la sua casa, come illumina il paesaggio boscoso e marino che Ulisse
scorge dalla collina. Ma il Sole, nella mitologia greca, è una figura ambigua:
sebbene dia luce e veda nitidamente le cose dall’alto, un rapporto segreto lo
lega con tutto ciò che, nell’universo, è tenebroso, infernale, stregonesco. Inoltre,
con ogni probabilità, mentre narra la storia di Circe, il “secondo Omero”
ricorda un’altra figura: Ištar, la grande dea babilonese, il demone erotico, la regina
delle prostitute, posseduta da una furia vendicatrice verso gli uomini che ama
e trasforma in animali. Tutte le dee-streghe della letteratura occidentale
discendono da Ištar e Circe:
Medea e Circe in Apollonio Rodio, Circe in Ovidio, Erittone in Lucano, Armida
in Tasso; con il loro dono dei filtri, l’arte di domare il fuoco, fermare
l’acqua dei fiumi, incantare la luna e gli astri, spargere veleni, chiamare a
raccolta gli dèi della tenebra, far svolazzare le anime dei morti, cambiare gli
uomini in bestie, avviano la natura animata verso la notte e il caos. Così, fin
dalla prima parola, il “secondo Omero” ci dice che Circe è una “dea terribile”
e che il fratello, Aiete, signore del pericolosissimo Oriente, è “funesto”
come un altro Titano, Atlante, padre di Calipso. Il mondo dell’ombra si apre
davanti alla mente di Circe. Come Ištar, è una strega: conosce le droghe che trasformano gli
uomini in animali, quelle che cambiano la natura degli animali…Senza muoversi
dall’isola di Eea conosce l’Ade: la sapienza, i segreti, le rive, le selve, i
fiumi, i sacrifici infernali; guida nell’Ade chi debba compiere il più
pericoloso tra i viaggi. Congiungersi con lei è pericoloso, perché una parte
della furia erotica di Ištar è passata nelle sue membra. Come Calipso, appartiene a
un tempo antichissimo: perché dietro le amabili parole umane che noi
ascoltiamo, nasconde forse la voce umana e terrificante degli dèi titanici…La
dea più prossima a Circe è Calipso. Con scrupolosa attenzione, il “secondo
Omero” ne elenca le somiglianze: indossano la stessa veste; sono “terribili”,
“ingannatrici”, e hanno quella strana voce. Ma questo gioco di somiglianze
mette in luce la differenza che le divide. Circe non vive nell’irraggiungibile
centro: non concede la vita immortale. E, soprattutto, Calipso appartiene al
regno del malakós, come i prati
del suo giardino: dolce, morbida, umida, voluttuosa, affettuosa; mentre Circe
non è morbida né possiede la parola di miele. Forse Ulisse ama la sua eleganza:
fredda, distante, cristallina, senza pathos; mai sentimentale”.
Circe droga i
compagni di Ulisse mischiando favrmak j lugrav al cibo e alla bevanda (Odissea, X, 136).
“Questa droga
fa dimenticare Itaca e il ritorno: come i Lotofagi, le Sirene, Calipso (e
Elena), Circe incarna la forza della dimenticanza, il veleno dell’oblio che
attraversa l’Odissea, e contro il
quale Ulisse lotta con la sua memoria vigilissima”.
Odisseo va al
grande palazzo di Circe per liberare i compagni trasformati in porci dei quali
ha avuto notizia da Euriloco che non si è fidato di entrare e ha visto da fuori
la brutta metamorfosi dei compagni. Quando Ulisse sta per giungere, gli va
incontro Ermes e gli dà un favrmakon ejsqlovn (X, 287, 292), come antidoto alla droga di
Circe.
Si tratta
dell’erba che gli dèi chiamano mw'lu: ha la radice nera e il fiore simile al latte
(vv. 304-305).
“La pianta più
famosa della farmacopea magica d’Occidente, che ha suscitato moltissime
interpretazioni, pagane, cristiane ed alchemiche. Quest’erba non appartiene al
mondo degli uomini: solo gli dèi la conoscono e possono strapparla dal suolo:
il nome appartiene alla lingua divina e non viene trascritto, come di solito
accade nei testi epici, in quella umana. Il “secondo Omero” si rifiuta di
violare il segreto che l’avvolge, lasciando un velo attorno a lei. Noi possiamo
soltanto immaginare che contenga in sé stessa, equamente divisi, l’elemento
tenebroso della terra e di Circe (la radice nera) e l’elemento luminoso, che
distingue il sole e gli dèi olimpici (il fiore bianco)”.
Medea non dubita dell'efficacia dei suoi
favrmaka, di quelli favorevoli alla vita che
promette a Egeo
(oi\da favrmaka, v. 718), e di quelli letali con i quali
intende distruggere i suoi nemici (v. 385, v. 789).
Tali mezzi la maga ha usato
pure per aiutare Giasone a superare le prove impostegli dal re Eeta e le
insidie
del viaggio di ritorno.
"Deianira appartiene ancora, in qualche modo, al regno dei mostri: è stata
richiesta in sposa da uno di essi (Acheloo), desiderata da un altro (Il
centauro Nesso) che l'ha toccata, che si confida con lei e ne fa una sua
complice. E nella lotta contro Acheloo, Eracle ha fattezze ferine. Da questo
bestiario, che ha conservato in sé come orrore e come fremito, Deianira non
potrà uscire". U. Albini,
Interpretazioni teatrali , p. 59.
Si può pensare all'uranio impoverito.
Era il 1984 e il sottoscritto aveva cinquant'anni meno qualche mese, Fulvio
Molinari
cinquantadue già suonati,
un'amica di Pesaro, Serafina in odore di stregoneria, quarantatré, e un altro
pesarese, Valerio,
una quarantina. Nel
tragitto inverso, compiuto in un successivo giro del Peloponneso (1996), oltre
Serafina, c'erano due ex allievi di Bologna, Maddalena e Alessandro, sui
venticinque anni
.
La sera prima la padrona, Panfile,
minacciava il sole perché non tramontava in fretta. Aveva visto un bel giovane
dal barbiere e aveva chiesto a Fotide di raccoglierne i capelli ma il tonsor l’aveva cacciata. Quindi Fotide
aveva raccolto dei peli biondi tosati da otri caprini. Panfile con quei peli e
gli strumenti della sua feralis officina
aveva infuso spirito umano in quegli otri (3, 17). La feralis officina è la solita delle streghe: pezzi di cadaveri e
altri ingredienti.
Cfr. Prometeo Incatenato di Eschilo: "Doloroso è per me raccontare queste cose,/ma
doloroso è anche tacere, e dappertutto sono le sventure" (ajlgeina; me;n moi kai;
levgein ejsti;n tavde, a[lgo" de; siga'n vv. 197-198). Due versi questi, usati come epigrafe da
Giuseppe Berto per il suo Il male oscuro
(1964) che racconta la terapia di una nevrosi: “Il racconto è dolore, ma anche
il silenzio è dolore”. Il racconto infatti è doloroso e pure terapeutico.
Nel quarto libro delle Argonautiche (vv. 727-729) Apollonio
Rodio racconta della visita che Giasone e Medea fanno a Circe per purificarsi dell’assassinio di Assirto:
ebbene zia e nipote hanno qualcosa in comune nello sguardo: tutta la stirpe del
sole infatti era ben riconoscibile poiché con il bagliore degli occhi
lanciavano lontano come un raggio d’oro guardando di fronte. Ndr.