lunedì 20 aprile 2015

Concetto Marchesi, "Tacito". Quarta parte della conferenza


Quarta sezione della conferenza tenuta a Catania il 17 aprile.
Grande soddisfazione mi ha dato la richiesta fattami da numerosissimi giovani dell’intero percorso che ho potuto presentare solo in parte.
Il percorso è ancora lungo e non potrò metterlo tutto nel blog perché altre conferenze premono (la prossima sul Satyricon il 21 aprile)
Manderò l’intero - Tacito Marchesi - a tutti quelli che me lo chiederanno scrivendomi a g.ghiselli@tin.it


Tacito e le leggi

La persecuzione dell’età imperiale è una specie di duello mortale tra il principe e i pochi cittadini che pubblicamente lo avversano. Ed è un fenomeno urbano. (p. 81).
Domiziano ritenne il senato inetto e malfido e volle esercitare un’autorità diretta in tutti gli affari. Amava i poeti e li onorava senza arricchirli
(Domiziano, esecrato da Tacito, viene viceversa elogiato da Stazio che nella Tebaide (I, 18) ne celebra i trionfi sui popoli nordici derisi da Tacito nella Germania.)
Quintiliano ebbe da lui ornamenti consolari. Il popolo soddisfece con feste e largizioni e speciali cure rivolse all’esercito che voleva sostegno del principato contro la nobiltà. Bramoso di gloria militare, trionfò tre volte. I senatori gareggiavano in adulazioni e onoranze. Ma ebbe nemici acerrimi nell’aristocrazia. L’imperatore si sentiva circondato da insidie e si circondava pazzamente di martiri e fu l’ultima vittima (p. 83)
Alleati dei nobili erano i filosofi che guardavano al suicida Catone come modello, ma “gli uomini fortemente operosi non possono mettersi al seguito di chi si uccide” (p. 84)
Con Tiberio abbiamo i catoniani che non sapendo più vivere utilmente, morivano come Catone per amore della libertà.
Cfr. Cremuzio Cordo e Trasea Peto
Anche del senatore Cremuzio Cordo furono bruciati i libri, per ordine di Seiano, il celebre prefetto del pretorio di Tiberio; ed egli, accusato, s'era lasciato morire di fame. (La sua autodifesa fu un'esaltazione della libertà di pensiero storico)... Caligola fece tornare alla luce gli scritti di Labieno e di Cremuzio: "è nel mio interesse" diceva "che la storia sia conosciuta" (ut facta quaeque posteris tradantur: Suet. Cal. 16, 1): un punto di vista che entra nella tendenza antitiberiana, e nella ricerca della popularitas , con cui Caligola, ai suoi inizi, si presentò come un monarca, a suo modo, costituzionale… Sotto Nerone, il padovano Trasea Peto "la virtù in persona[1]", come lo definì Tacito, si uccise[2] accusato di lesa maestà: aveva scritto una monografia su Catone Uticense. Questi storici capaci di eroismo sapevano benissimo che le loro opere, seppur con varie gradazioni, non solo difendevano l'antico regime, ma in realtà ponevano in questione lo stesso principato"[3].
Cremuzio Cordo che negli Annales aveva chiamato Cassio l’ultimo dei Romani, si difese dicendo che Tito Livio aveva celebratp Pompeo, Catullo aveva infamato Cesare, Asinio Pollione aveva celebrato Bruto e i Greci lasciavano impunita non solo la libertà, ma anche la licenza. Tiberio assisteva truci vultu (Annales, IV, 34) Siamo nel 25 d. C.

Con Tiberio è già iniziata “la voluttà quasi teatrale della morte” (p. 85)
Veramente già Tito Labieno con Augusto.
Esempio tipico il suicidio di Cocceio Nerva, il grande giurista che volle morire pur essendo in buoni rapporti con Tiberio
“Tacito che annerì di tanta tetraggine la figura di Tiberio, non potè trovare nella crudeltà del principe la ragione di quella ostinatezza funesta (Ann. VI, 26)” (p. 85)
Tacito disapprova il suicidio ostentato per avere rinomanza. Sembra che non lo disapprovi quando può salvare dalla degradazione. Marbod re degli Svevi relegato a Ravenna dopo la caduta visse 18 anni ob nimiam cupidinem vivendi (Ann. II, 63). Però lo storiografo condanna i provocatori della morte e della gloria (Agricola, 42)
Agricola non provocava la fama e il destino né con l'arroganza, né con vuota ostentazione di indipendenza: "non contumacia neque inani iactatione libertatis, famam fatumque provocabat"(42). Dunque anche sotto i cattivi principi, l'obbedienza e la moderazione, "si industria ac vigor adsint" se ci sono l'energia e l'operosità, possono innalzarsi a quella lode che molti raggiunsero "ambitiosa morte" senza giovare allo stato. Una morte “spettacolosa” p. 86.
Dunque né abrupta contumacia né deforme obsequium ma un iter ambitione ac periculis vacuum (Ann. IV, 23)
Marziale scrive che non vuole un uomo il quale incorona la fama con un facile sangue, ma quello che può essere celebrato senza la morte: “hunc volo, laudari qui sine morte potest ” (I, 8, 6)
Tacito non è un rivoluzionario (p. 87) Egli pone l’obsequium come un dovere politico. Egli detesta i turbidos eoque nova cupientis (Ann. II, 39) bramosi di rivoluzione e questa avversione fa parte del suo sentimento aristocratico e conservatore. A sommuovere le turbe e agitare lo Stato, i peggiori hanno maggior potere, ma la pace e l’ordine hanno bisogno di buone arti” (p. 87)
In turbas et discordias pessimo cuique plurima vis: pax et quies bonis artibus indigent” (Hist. IV, 1). Consiglia comunque di non provocare il tiranno, nemmeno con l’esibizione di qualità buone (Agr. 4 - 5)
Il volgo è meno esposto all’invidia: “vulgum, cui minor sapientia et ex mediocritate fortunae pauciora pericola sunt” (Ann. XV.60)
Fedro aveva ricavato la stessa moralità dalle vicissitudini politiche dell’età sua (Augusto - Tiberio) minuta plebes facili presidio latet (IV, 6, 13 battaglia dei sorci e delle donnole)
Tacito considera deplorevole il sacrificio personale che non serve a nessuno.
 Nel IV degli Annali Tacito ricorda il processo contro Cremuzio Cordo che nel 25 venne accusato poiché aveva chiamato Cassio “l’ultimo dei Romani”.
Si lasciò morire di fame e la sua opera venne data alle fiamme.
Cfr. Giulio Cesare di Shakespeare: Bruto dopo la sconfitta di Filippi vede il cadavere di Cassio suicida e dice: “The last of all the Romans, fare thee well! (V, 39
Tacito scrive che perseguitare il pensiero significa accrescerne l’autorità (Ann., IV. 35 punitis ingeniis, gliscit auctoritas).
Cfr. Seneca La Consolatio ad Marciam parte dal ricordo del padre riabilitato: era stato gettato nell'oblio con il calpestamento di due valori forti, l'eloquenza e la libertà, ma ora: “legitur, floret: in manus hominum, in pectora receptus, vetustatem nullam timet” (1, 4), viene letto, fiorisce: accolto tra le mani degli uomini e nei loro petti, non teme nessuna forma di invecchiamento.
Nel secondo capitolo dell’Agricola Tacito aveva scritto contro le vane crudeltà delle condanne capitali di Aruleno Rustico ed Erennio Senecione.

Concezione etico - giuridica di Tacito (p. 89)
Platone.
Lo Stato della Repubblica è lo Stato ideale, non quello empirico. L’individuo è zero di fronte all’idea universale; la famiglia sparisce davanti alla forza impersonale dello stato.
Tuttavia Platone considera lo sviluppo delle varie forme di governo
Nell’ottavo libro scrive che ogni governo decade quando si genera la discordia: dalla oligarchia che non fa partecipare i poveri al governo si passa per la cupidità dei molti alla democrazia e dalla democrazia alla tirannide.
La Politica di Aristotele ha una concretezza maggiore
Lo Stato deve avere un fine etico e perseguire il bene
La Politeia è l’ordinamento di quelli che abitano la polis (1284a).
Platone aveva messo la classe dei guerrieri tra i filosofi e il popolo.
Aritotele vorrebbe che predominasse la classe media (Politica 1295a, 35)
Tirannide è la degenerazione (parevkbasi") della monarchia, l’oligarchia della aristocrazia; la democrazia della politeiva, cioè del governo che si propone il pubblico bene.

Infatti la tirannide è fatta pro;" to; sumfevron tou' monarcou'nto"; l’oligarchia pro;" to; tw'n eujpovrwn dei ricchi, la democrazia pro;" to; sumfevron to; tw'n ajpovrwn, dei poveri, e nessuna per il vantaggio di tutti (Politica 1279b, 4)

Tacito non sentì lo stato come una idealità ma come realtà concreta e come una necessità o piuttosto come una servitù politica (p. 91)
Del resto Roma non è una polis ma la capitale di un impero.
Per Tacito lo Stato migliore è quello in cui il contrasto delle passioni si acqueta nel dominio di uno solo, possibilmente il capo di una pacifica signoria
Cicerone nel primo libro della Repubblica (I, 30) faceva dire a Scipione che la migliore forma di governo era il genus moderatum et permixtum tribus ossia monarchia, aristocrazia e democrazia. E’ la mikth; politeiva di Polibio: consoli, senato, popolo.
Tacito afferma che una costituzione mista non può durare a lungo: cunctas nationes et urbes populus aut primores aut singuli regunt: delecta ex iis et consociata rei publicae forma laudari facilius quam evenire, vel si evenit, haud diuturna esse potest (Ann. IV, 33).
A Roma “monarcato repubblica e principato sono tre fasi della evoluzione storica, non tre facce di un medesimo organismo politico” (p. 94)
Tacito è ostile alle res novae cui tendono le forze popolari
Il principato è lo sbocco fatale delle lotte civili e Tacito lo accetta come fine delle lotte civili (p.95). “Ma vuole un principato che concilii, come quello di Nerva, la monarchia e la libertà” Agr. 3 (p. 95)
E’ anche sua la sentenza messa in bocca a Galba il quale disse dei Romani qui nec totam servitutem pati possunt nec totam libertatem (Hist, I, 16).
La diarchia principe senato era un sogno di Tacito e di Seneca.
“Seneca vuole, come Tacito, il rex iustus (p. 95). Anche Seneca capisce la necessità storica del principato.
Nel De beneficiis scrive che Bruto non aveva capito quella necessità (II, 20)
Non aveva compreso che “la moltitudine non ha bisogno di libertà ma di padrone”.
Relativamente al buon governo, Seneca la pensa come Tacito: l’optimus civitatis status è sun rege iusto” (De Beneficiis, II, 20)
La summa libertas ha in sé il germe della morte la licentia pereundi (p. 97)
Tacito non trova un principe buono fino a Nerva; di Vespasiano scrive che fu il solo tra gli imperatori reso migliore dal trono” (Hist, I, 50)
Seneca elogia solo Nerone “che fu il suo discepolo e il suo carnefice” (p. 97)
Il rex iustus dunque “o è uno stupefacente dono della fortuna o un vaneggiamento di filosofale o teologale utopia”
Per Platone hJ tou' ajgaqou' ijdeva mevgiston mavqhma (Rp. VI, 16)
Nelle Leggi il sistema trascendente delle idee è mitigato dall’interresse empirico. Le leggi umane comunque devono essere conformate alla giustizia divina, altrimenti sono ridicole e vane come l’uomo che non si cura di rendersi propizi gli dèi (Leggi 662c sgg: 803 - 804). E rendersi propizi gli dei è vivere secondo le leggi non scritte esaltate da Antigone (Sofocle, Antigone, 454 - 455) p. 98
Per Aristotele le leggi sono necessarie in quanto assuefanno al pubblico bene, e il maestro della legislazione non deve essere il sofista, privo di esperienza politica, né il politico privo di scienza teoretica, ma il filosofo che dal fatto sa risalire alle leggi regolatrici dei fatti (p. 99)
Per Cicerone la legge coincide con la diritta ragione (De legibus I, 7, 22 - 23)
Essa è eterna, antica quanto dio. Per lui le dodici Tavole sono il tipo della buona legge, come la costituzione romana è la miglior forma di repubblica (II, 24 - 61 - 62).

Tacito afferma che la legge non vale di fronte alla consuetudine (p. 99)
Tacito contrappone spesso illic a ibi o ad alibi. Nemo illic vitia ridet, plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges (Germania, 19)
I Romani preferivano interpretare e integrare le antiche leggi che emanarne di nuove. “Dalle Tavole decemvirali si passa al codice di Teodosio” (p. 100).
Negli Annali Tacito scrive che le leggi sono impotenti contro la forza, l’intrigo, il denaro leges quae vi ambitu postremo pecunia turbabantur (I, 2).

Cfr. Anacarsi Scita a Solone
Solone, ammirata la prontezza di spirito dell’uomo, lo accolse amichevolmente e lo trattenne per qualche tempo presso di sé, quando già si occupava degli affari pubblici e stabiliva le leggi. Anacarsi dunque, venutolo a sapere, derideva l’opera di Solone che pensava di fermare le ingiustizie e le pretese dei cittadini con norme scritte, le quali non differiscono per niente dalle ragnatele, ma, come quelle, trattengono i deboli e i piccoli tra gli irretiti, mentre dai potenti e ricchi verranno lacerate. Plutarco Vita di Solone, 5, 2 - 4.

Nel III degli Annali, Tacito scrive alcuni capitolo sull’ordinamento sociale e giuridico dei romani. Nei primi tempi c’era l’aequalitas e non c’era bisogno di leggi. Poi irruppero ambizione e violenza e si stabilirono signorie o leggi come quelle cretesi di Minosse, quelle di Solone, e a Roma Romolo e Numa che impose al popolo il freno della religione, poi Tullo e Anco. Il primo ordinatore delle leggi fu Servio Tullio (III, 26). Leggi semplici in origine.
Servius Tullius sanctor legum fuit quis etiam reges obtemperarent
Nel capitolo seguente (III, 27) Tacito scrive che le 12 tavole segnarono finis aequi iuris, furono le ultime giuste.
 In seguito le leggi per vim latae sunt, quindi vennero i Gracchi e i Saturnini (Saturnino, tribuno della plebe, propose una legge agraria nel 101 e fu ucciso), turbatores plebis, turbatori della plebe poi Silla che impose un freno alle novità, ma i tribuni ebbero di nuovo licenza di agitare il popolo, et corruptissima repubblica plurimae leges (III, 27) (p. 103).
In questo capitolo si vede lo spirito reazionario di Tacito. E’ una serrata e dura requisitoria contro i populares e i tribuni della plebe.
Coi Gracchi e con le vittorie del secondo Scipione dunque comincia il rovinoso decadere del costume romano.
Come aveva scritto anche Sallustio nel Bellum Catilinae 9, 10.
“Al tempo di Tiberio era questa una data già costituita per una tale divisione dei mores romani, e Velleio Patercolo dando principio al secondo libro delle Storie, quasi epigraficamente sentenziava: “Potentiae Romanorum prior Scipio viam aperuerat, luxuriae posterior aperuit”, il primo Scipione aveva aperto la strada alla potenza romana, il secondo l’aprì alla mollezza, remoto Carthaginis metu…ad vitia transcursum; vetus disciplina deserta, nova inducta: in somnum a vigiliis, ab armis ad voluptates, a negotiis in otium conversa civitas” Velleio, II, 1)
Con Scipione Emiliano e la caduta di Cartagine, 146, inizia la decadenza (Sallustio, B. C.9 - 10 ubi Carthago aemuls imperii Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit)
Dunque il codice delle dodici Tavole è per lui finis aequi iuris, l’estremo limite, e le troppe leggi sono in gran parte suggerite da interessi personali
“Nel suo spirito di “vecchio Romano” Tacito esigerebbe il rispetto assoluto alla tradizione, al mos maiorum” p. 104
Il pensiero di Tacito può essere assimilato a quello di Gaio Cassio che nel 61 d. C. chiese l’applicazione di una vecchia legge per cui 400 schiavi dovevano essere uccisi per la colpa di uno solo
Il prefetto Pedanio Secondo era stato ucciso da uno schiavo
E Gaio Cassio disse che si potevano mandare a morte degli schiavi innocenti come si fanno le decimazioni negli eserciti “Habet aliquid ex iniquo omne magnum exemplum quod contra singulos utilitate publica rependiturAnn. XIV, 44) è riscattato dall’interesse generale (p. 105)
Nelle Historiae Tacito scrive che alla grandezza delle nazioni segue la rovina è “lo strumento della rovina è la passione del potere” (105)
La aequalitas si manteneva facilmente finché lo Stato fu modesto, ma con l’abbattimento dei nemici si accese la discordia tra il senato e la plebe con tribuni turbolenti e consoli prepotenti. Mario venuto su dall’infima plebe e Silla, il più crudele dei tiranni volsero in tirannia la libertà, poi Pompeo, più cauto ma non migliore, poi ogni lotta ebbe per bersaglio il principato ( Hist.II, 38)
Negli Annales Tacito scrive che comunque il principato diede ordine a pace alla società romana dove continua per vigenti annos discordia, non mos non ius; deterrima queque impune ac multa honesta exitio fuere (III, 28), la morte era spesso il premio della virtù.

giovanni ghiselli
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[1] "Nero virtutem ipsam excindere concupivit interfecto Thrasea Paeto", Annales, XVI, 21, Nerone volle uccidere la virtù in persona con l'ammazzare Trasea Peto.
[2] Nel 66 d. C.
[3]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 3, p. 64. 

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