martedì 14 aprile 2015

Concetto Marchesi, "Tacito". seconda parte della conferenza

Tacito

Continua l’esposizione della conferenza che terrò a Catania il 17 aprile

Concetto Marchesi
Tacito
(Terza edizione riveduta, Milano Messina, 1944)

L’avvertenza dell’autore dice che ha voluto presentare organicamente la figura di Tacito esaminandone “le basi del pensiero politico e i caratteri dell’opera storica”


Marchesi p. 33 Nerva. Il consolato di Tacito. L’elogio di Virginio Rufo.
“Domiziano non era stato inviso alla popolazione urbana: i suoi nemici erano nell’aristocrazia” (p. 33)
Con Nerva i pretoriani, in attesa di un aumento di soldo “mormoravano”. Nerva “fu un imperatore senatorio: vecchio, accomodante, bonario” (p. 34). Non colpì nemmeno i delatori istigatori dei crimini
Nel terzo capitolo dell’Agricola si legge: Nunc demum redit animus, In quanto Nerva Caesar res olim dissociabilis miscuerit , principatum et libertatem. Però naturā tamen infirmitatis humanae tardiora sunt rimedia quam mala, per natura della debolezza umana, i rimedi sono più lenti dei mali
e come i nostri corpi crescono lentamente e rapidamente si estinguono, così le attività dell'ingegno si possono più facilmente opprimere che risvegliare"ut corpora nostra lente augescunt, cito extinguuntur, sic ingenia studiaque, oppresseris facilius quam revocaveris".
L'ozio si insinua con dolcezza negli animi, e l'inerzia, dapprima odiosa finisce con il farsi amare: "subit quippe (infatti) etiam ipsius inertiae dulcedo, et invisa primo desidia (la pigrizia), postremo amatur " (Agricola, 3).
“E desidiosa era la politica interna del nuovo governo” (p. 36)
“Nerva mostrò a Tacito come sia possibile conciliare libertà e monarchia: mostrò pure come sia facile nelle vicende delle successioni politiche dimenticare le colpe e-quel ch’è peggio-i colpevoli” .

Probabilmente Marchesi pensava ai fascisti impuniti.

“Basta col sangue” era dunque la parola d’ordine senatoria” (p. 37)
Cfr, Ecuba di Euripide
Marchesi deplora l’amnistia per gli assassini.
Però riconosce che era naturale: “Ché non un regime era mutato in Roma ma solo un imperatore”
La classe dominante rimaneva la stessa con una vita più tranquilla
Per la politica estera, per l’imperialismo, ci voleva Traiano cui Nerva pensò subito
L’unica vittima vendicata fu Domiziano: un prefetto del pretorio chiese la morte degli uccisori di Domiziano per rispetto, diceva del giuramento prestato ai figli di Vespasiano. Nerva impaurito lo accontentò.
“Nessuna persecuzione politica è mai interamente imputabile a un principe” (p. 38).
“Il senato che, sotto Nerva, insorgeva a difesa di Publicio Certo” (che si era coperto d’ignominia nel processo contro Elvidio Prisco), “valeva quanto quello stesso senato che quattro anni prima aveva condannato a morte e lasciato maltrattare con vivissima violenza Elvidio Prisco” (p. 38). Insomma non ci fu una Norimberga.
Nel 97 (o nel 98, dilemma che divide gli eruditi in oziose discussioni) Tacito era consul suffectus. Pronunciò l’orazione funebre per Virginio Rufo morto quell’anno (Plinio. Ep II, 1)
Tacito lo ricorda nelle Storie (I e II). Virginio Rufo teneva alla reputazione di avere rifiutato l’impero offertogli e lo fece scrivere nell’epigrafe tombale: hic situs est Rufus, pulso qui Vindice quondam (nel 68)/imperium asseruit, non sibi sed patriae” in Plinio, Ep. 6, 10) attribuì.
Ebbene, Tacito scrive: “an imperare voluisset dubium ((Hist, I, 8), anche se è certo che i soldati glielo avessero offerto.
Comunque Tacito “non esaltò né glorificò quell’impero rifiutato (da Virginio Rufo) presso il cadavere di Vindice –che in Gallia si era rivoltato contro Nerone poi si era suicidato- e presso il rogo di Ottone” (p. 43)

Attività letteraria. Il Dialogus de oratoribus. La Germania. L’Agricola.
Il Dialogus è “il trattato retorico più agile e fresco che, dopo il Bruto di Cicerone, l’antichità ci abbia tramandato” (p. 45). La maniera è ciceroniana e la paternità tacitiana ha aperto una questione “sulla quale forse gli eruditi non finiranno mai di discutere”
Beato Renano la contestò nel 1519; Giusto Lipsio, il filologo belga del secolo decimosesto, la negò recisamente nel 1574.
Lipsio ammette che lo stile possa variare con l’età ma non in modo da svanire del tutto (sed numquam ut abeat prorsus a se).
Invero se il Dialogus fu scritto verso il principio del regno di Domiziano (81) “l’argomento stilistico perde il suo peso” (p. 46)
I quindici anni di quel regno furono un tempo di esperienze esasperate che possono cambiare un uomo. Tacito stesso nell’Agricola annuncia la sua incondita ac rudis vox (3) e Plinio il Giovane in VIII, 3 scrive ad Aristone: “reducta libertas rudes nos et imperitos deprehendit ”.

Il Dialogo si immagina avvenuto nel sesto anno del principato di Traiano tra il luglio del 74 e il luglio del 75, quando l’autore era iuvenis admodum (circa 20 anni). Nell’Agricola (9) Tacito dice che era iuvenis quando sposò la figlia di Agricola e allora, (nel 78) aveva 23 o 24 anni.
Probabilmente lo scrisse verso l’81 l’anno della morte di Tito
Portavoce di Tacito è Materno, forse quello di cui Cassio Dione dice che fu fatto uccidere da Domiziano nel 91.
“Il discorso finale di Materno-che è la voce stessa dell’autore- contiene un proclama di fede monarchica e un annunzio di morte della grande eloquenza” (p. 47)
Senza la “licenza” della libertà civile non può esistere grande oratoria
La licenza produsse una poderosa eloquenza (37-38)
La grande e sublime eloquenza è alunna della licenza (sed est illa magna et notabilis eloquentia alumna licentiae, quam stulti libertatem vocant , Dialogus, 40). Una licenza che non alligna negli Stati bene ordinati. A Sparta, a Creta, tra i Macedoni e i Persiani non ci fu licenza né eloquenza. Atene ebbe molti oratori “apud quos omnia populus, omnia imperiti, omnia, ut sic dixerim, omnes poterant” . Anche a Roma l’eloquenza fiorì nel disordine “sicut indomitus ager habet quasdam herbas laetiores” (40)
 Ma l’oratoria dei Gracchi non era così preziosa da sopportarne le leggi eversive.

“Questa pagina del dialogo non ha nulla che contraddica al pensiero di Tacito” (p. 49)
L’autore del dialogo dice di avere avuto come maestri Marco Apro e Giulio Secondo e cerca le cause del decadere dell’oratoria.
Apro sostiene l’eloquenza moderna e Vipstano Messala quella ciceroniana, Prevale la sua tesi e si cercano le cause della decadenza
L’autore, come Quintiliano, cerca un temperamento tra le due tendenze. La conclusione è che la grande eloquenza per prosperare “ha bisogno della tumultuosa libertà delle lotte civili”.
Cfr. però la stasis di Tucidide.

Nel 98 Tacito inizia la sua opera storica. “Egli è storico per indole e per passione” (p. 51)
La Germania “opuscolo di prezioso valore” è stato variamente interpretato. (cfr. Mazzarino: imperialismo rinunciatario qui, velleitario negli Annales)
Intento morale di ammonimento e mortificazione dei Romani i cui costumi corrotti sono confrontati con quelli semplici e onesti dei barbari? O vuole incoraggiare Traiano ad attaccarli mostrandone l’intima debolezza? O suggerisce una condotta prudente? O voleva approvare Traiano che indugiava sulla frontiera del Reno?
Comunque Tacito sentiva “la gravità dell’argomento e la parte che quella regione d’Europa avrebbe avuto nei destini dell’impero” (p. 52)
Affermava il geografo Strabone che “gli scrittori romani, incuranti di scienza “prendono ciò che dicono dai Greci e dove questi si arrestano, mancano altre fonti a colmarne la mancanza” (Geografia, III, 166).
La propaganda augustea pare confermare questo con il principio “la scienza ai Greci, lo Stato ai Romani” (Eneide VI, 147 sgg.).
Ma la Germania di Tacito smentisce questa affermazione in quanto diretta alla ricerca etnografica innestata nell’opera storica. Non deriva da fonti greche “di cui non abbiamo conoscenza” ma da Cesare che egli considera summus auctorum (28), poi da Livio e da Plinio il Vecchio che aveva scritto un’opera di 20 libri sulle guerre germaniche. Tacito negli Annali (I, 69) lo chiama Germanicorum bellorum scriptor.
Plinio il Giovane nell’Epistola III, 5 elenca le opere dello zio in ordine cronologico . Tra queste Bellorum Germaniae viginti dove ha raccolto tutte le guerre combattute con i Germani.
Poi la continuazione delle Storie di Aufidio Basso, oltre la Storia naturale e altro.
Inoltre Tacito con accenni generici tipo quidam adfirmant o memoriae proditur ci fa sapere che il suo racconto si avvale anche di informazioni orali
“Di suo Tacito aggiunse la visione e la spiegazione psicologica dei costumi e la maniera di organizzare le notizie” (p. 53)
La Vita di Agricola è il preludio delle Historiae.
“Voleva salvare dalla morte un morto, cui doveva un tributo di profonda riverenza e pietà” (p. 53)
Nel primo capitolo dell’Agricola, Tacito denuncia i tam saeva et infesta virtutibus tempora. tempi selvaggi, e parla del tempo in cui si mette a scrivere la biografia del suocero (98)
Ma “la parola tempora riguarda la società romana, non il principe” (p. 55).
Sotto Nerva e Traiano, Tacito poteva scrivere “ma sentiva ugualmente la minaccia di un’opinione pubblica abituata al dispetto e alla calunnia” (p. 55).
Non era il principe bensì il pubblico dei suoi lettori che lo preoccupava. Erano stati delatori e giudici sotto Domiziano, e lo erano ancora. Il beatissimun saeculum del terzo capitolo riguarda il principe, non la società ancora saeva et infesta virtutibus. La felicitas temporum sotto Nerva e Traiano era il buon governo che permetteva di sentire liberamente e liberamente parlare come si legge nel proemio delle Historiae le quali cominciano (1) con l'esaltazione del tempo di questi imperatori. Egli potrà scrivere: "rara temporum felicitate, ubi sentire quae velis et quae sentias dicere licet ".
Marchesi
L'età che si accinge a raccontare nelle Historiae (69-96) è invece dipinta a fosche tinte: "Pollutae caerimoniae, magna adulteria, plenum exiliis mare, infecti caedibus scopuli …nobilitas pro crimine"(2). Racconterà un opus opīmum casibus, atrox proeliis, discors seditionibus, ipsā etiam pace saevom, quattuor principes ferro interempti, trina bella civilia”.

 L’Agricola dunque è il preludio delle Historiae.
Mentre “La Germania è fuori dal suo tribunale di storico imperiale” (p. 56 n. 23)
L’Agricola è opera biografica, storica, etnografica.
“Tacito presenta Agricola come conquistatore e come vittima di Domiziano” (p. 57). “E’ singolare il vaniloquio filologico che si è fatto per definire il carattere letterario di questo opuscolo tacitiano”: laudatio funebris, opera storica ridotta a biografia, biografia encomiastica, giustificazione della remissività, propria e del suocero, di fronte a Domiziano, Si è pure pensato che Tacito abbia scritto l’Agricola per giustificare la condotta remissiva del suocero e anche la propria, sotto Domiziano. I due principali sostenitori G. Boissier e E. Hoffmann (p. 57 n. 24).

Tacito dichiara la propria fedeltà storica (10): la sua voce non sarà quella dell’eloquenza ma della realtà. Scriverà rerum fide, con fedeltà storica.
Ricorda con onore gli storici Livio, antico, e Fabio Rustico, moderno.
Ma il suo informatore principale deve essere stato Agricola

Governo di Traiano. Il processo contro Mario Prisco (p. 58)
Traiano fece il suo solenne ingresso a Roma nell’autunno del 99 . Lo attendeva un enorme concorso di popolo tripudiante.
 “Il popolo è solitamente una comparsa storica: esso accorre sempre dove c’è da festeggiare il padrone”.
Traiano consolidò la politica senatoria iniziata da Nerva: egli dalle frontiere annunciò che garantiva la vita e la dignità del ceto senatorio (Dione, 68, 5).
Volle conciliare l’aristocrazia con il principato e molti favori accordò ai giovani nobili. Rispettò le forme repubblicane “ lasciando ai magistrati e ai consoli la libertà di compiere le funzioni ormai innocentissime delle loro cariche ridotte nell’Urbe a onorificenze esecutive della volontà imperiale.
Invece i proconsoli e i propretori nelle province avevano funzioni quasi regie.
Per le elezioni dei magistrati aveva stabilito lo scrutinio segreto che Plinio approvava e temeva.
 Il voto dato ad alta voce “aveva bandito ogni ritegno per l’aperta sfacciataggine degli intrighi” (p. 59) ma Plinio il Giovane scrive vereor ne ex ipso rimedio vitia nascantur. Est enim periculum ne tacitis suffragiis impudentia irrēpat, si insinui. Multi famam, conscientiam pauci verentur (III, 20).
Ma la restaurazione del potere senatorio è solo apparente. “In realtà il principato è già divenuto monarchia” (p. 59). Traiano è il monarca assoluto.
Plinio scrive sunt quidem cuncta sub unius arbitrio, qui pro utilitate communi solus omnium curas laboresque suscepit (III, 20, 12)
Nel Panegirico, Plinio fa di Traiano “una specie di proprietario universale “che può disporre a suo piacere di tutto quanto gli altri possiedono” (p. 60)
La nuova politica imperiale rifuggiva dalle prodigalità di Nerone e Domiziano e le finanze pubbliche migliorarono. Sotto Nerva, nel 97, lo Stato aveva cominciato a provvedere all’assistenza dei bambini poveri. Traiano ingrandì il disegno di Nerva e nel 100 “ricevevano in Roma l’assistenza dello Stato circa cinquemila bambini” (p. 60). “La legge alimentaria di Traiano riprendeva con intendimenti più diretti e positivi la legge di Augusto de prole augenda: e mirava all’incremento della popolazione in Italia, di cui Tacito, negli Annali, riferendosi all’epoca di Tiberio, lamenterà la progressiva diminuzione rispetto al numero sempre crescente della popolazione servile IV , 27: trepidam (urbem) ob multitudinem familiarum quae gliscebat immensum, minore in dies plebe ingenua.
Plinio nel Panegirico (28) scrive che poco meno di cinquemila bambini sono stati aiutati dalla liberalità del principe e allevati a spese pubbliche come subsidium bellorum, ornamentum pacis. E la patria è la loro nutrice.

Il problema della popolazione libera era un problema agricolo e militare. Anche la schiavitù da Tiberio in avanti si era rarefatta. I piccoli affittuari si allontanavano dalle campagne dove la loro condizione era troppo dura e vessata (p. 61). Traiano poi aveva bisogno di soldati per le sue campagne: infatti i nove decimi dei bambini aiutati erano maschi. Si trattava dunque di allevare contadini e soldati, e non era un ornamentum pacis come sostiene enfaticamente Plinio in Panegirico 28.

Processo di concussione (concussio, scossa, estorsione) contro Mario Prisco proconsole d’Africa. 100 d. C, accusato dagli Africani.
Plinio in II 11 racconta il processo. Plinio, che era praefectus aerarii, e Tacito furono incaricati di proteggere i provinciali. Il difensore Cazio Frontone chiese che l’accusa fosse contenuta nel peculato (appropriazione di denaro appartenente alla pubblica amministrazione). Frontone era vir movendarum lacrimarum peritissimus (II, 11, 3). Giulio Feroce console designato era uomo retto e propose che Prisco venisse deferito ai giudici per il peculato, e al senato per la concussione. Quindi il favor e la misericordia cedettero il passo al consilium e alla ratio (II, 11, 6). Per il peculato Prisco venne condannato.
Per la concussione la condanna usuale era il risarcimento del quadruplo della somma estorta e all’infamia.
Plinio era emozionato nel parlare davanti al senato presieduto dall’imperatore come console. Ma poi raccolse il coraggio, parlò per cinque ore e venne applaudito. L’imperatore fu premuroso con lui: fece avvertire il liberto di Plinio che dicesse all’oratore di regolare la voce e le forze, “data la debolezza della mia complessione”.
Al difensore Salvio Liberale rispose Tacito “Respondit Cornelius Tacitus eloquentissime et quod eximium orationi eius inest, semnw'", (II, 11, 17) “con sovrana nobiltà” (p. 65)
“La semnovth" è l’autorità che impone rispetto: cioè, nei riguardi stilistici, la mancanza di lusinghevoli e usate armonie”
Alla fine Prisco fu condannato a restituire i 700 mila sesterzi estorti e al bando dall’Italia. Plinio enfatizza la propria parte con gli elogi ricevuti. Solo Tacito riceve nella lettera un rilievo deciso, gli altri sono rimpiccioliti di fronte all’avvocato che racconta. L’imputato è un fantoccio, l’imperatore un brav’uomo preoccupato della salute degli amici, i senatori alla fine salvano la vita e gran parte delle sostanze a uno “tra i più ribaldi e scellerati governatori dell’impero” (p. 68).
Mostrarono quello che può la difesa della casta e la tutela del privilegio. “Di semnovn, di venerabile e di augusto, in quel triduo senatorio presieduto dall’imperatore non ci fu che la parola di Tacito” (p. 68)
Il merito di Plinio è avere rivelato quella maestà in dieci parole latine e una greca, mentre del resto ne impiega 35 nel dire che l’imperatore aveva ogni premura per lui.
 I senatori stavano addirittura per assolvere il farabutto, poi per imitazione votarono come i consoli.
Giovenale deride quel vano giudizio (inane iudicium) e chiama lacrimevole la vittoria della provincia derubata. Prisco in esilio bevevo e scialava con i denari rubati e non si curava dell’infamia: “quid enim salvis infamia nummis?” (I, 48), che cos’è l’infamia quando i quattrini sono salvi?
Nella satira ottava (vv. 119-120) Giovenale ricorda ancora il malgoverno di Mario Prisco in Africa. Plinio sei anni dopo il processo ricorda la clementia legis accordata A Prisco: “Accusavi Marium Priscum, qui, lege repetundarum damnatus, utebatur clementia legis, cuius severitatem immanitate criminum excesserat” (VI, 29, 9), della quale aveva superato i limiti con l’enormità delle sue colpe
Relegatus est.
A Traiano Plinio dice: iubes esse liberos: erimus (Paneg. 66), ma al senato della libertà non importava.
Traiano è l’imperatore delle grandi conquiste sanguinose: il gigantesco ponte militare sul Danubio e la Dacia.

giovanni ghiselli

continua

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