lunedì 7 settembre 2015

L'inizio del lavoro di insegnante. X parte

La rocca di Imola

Gli inizi dell’insegnamento di greco e latino nei Licei


Salto gli anni dal 71 al 74 con gli amori estivi che ho già raccontato in storie epiche. Durante i mesi di scuola continuai a insegnare alle scuole media di Carmignano. In mezzo ci furono anche i cento giorni[1] del servizio militare. Amanti poche e di scarsa levatura: dileguarono senza lasciare vestigia.
Nell’ottobre del 75, ebbi l’incarico di greco e latino nel Liceo Rambaldi di Imola diretto dal preside gentiluomo Davide Ciotti.

Fino a tutto maggio furono mesi di studio matto ma non disperatissimo. I primi giorni avevo sacro terrore degli studenti maturandi: un terrore tutt’altro che irrazionale siccome quelli bravi all’inizio ne sapevano più di me, almeno su come si dovesse insegnare, un terrore sano poiché un poco per volta, via via che studiavo e imparavo, si ridusse a timore e poi ad apprensione, un terrore tuttavia immotivato per quanto concerne le intenzioni di quei ragazzi che erano buoni e mi aiutarono indicandomi la via dell’impegno serio in favore dei giovani. Da loro trassi fiducia nell’umanità e nelle mie capacità di insegnante. Durante quell’anno riversavo tutte le forze, il tempo e la libido che avevo a disposizione nello studiare per fare belle lezioni: constatata la mia insufficienza professionale davanti a ragazzi che in quel tempo erano ancora studiosi ed erano giustamente esigenti, leggevo, prendevo appunti, imparavo, sottoponendomi a una disciplina feroce e rinunciando a tutto il resto, o quasi. Arrivai perfino a ingrassare sei chili, cercando una gratificazione peggio che bestiale nel cibo di cui non avevo bisogno, tanto più per il fatto che non mi rimaneva tempo per correre in bicicletta né a piedi. Tornavo a casa, mangiavo, studiavo, mangiavo di nuovo, ripassavo, poi andavo a dormire.
Quei giovani di buona natura mi dissero che non aveva senso che io, un uomo che aveva alle spalle studi universitari, snocciolassi i paradigmi verbali già presenti nel vocabolario, né che mi limitassi a tradurre, quando di traduzioni stampate ce n’erano tante. Dovevano portare all’esame l’Edipo re di Sofocle come pezzo forte. Quando ebbi capito qual era il compito e il ruolo mio, per ogni lezione mi preparavo una ventina di versi di traduzione e, per commentarli non banalmente, leggevo, e imparavo almeno un saggio di critica. Da Aristotele, a Nietzsche, a Jaeger, a Freud. Altrettanto facevo con altri testi, come il Satyricon o il V libro delle Historiae di Tacito.

Nessuno al Liceo di Pesaro o all’Università di Bologna mi aveva insegnato tanto quanto imparai da quei ragazzi e dovetti imparare per loro. I primi tempi, pur trattandomi con affetto, mi ascoltavano poco, alcuni addirittura leggevano il giornale; ma dopo Natale cominciarono a prendere appunti e in maggio erano tutti attentissimi. E’ stata una grande sfida vinta, tra le più grandi della mia vita. Ogni lezione era stata una prova di capacità, un esame dove gli esaminatori erano gli allievi, più o meno attenti secondo il valore del mio lavoro, e l’esaminato ero io. Ogni giorno, al termine delle mie lezioni, mi davo un voto e ne ero più o meno soddisfatto.
Ricordo che l’otto marzo quando uscii, nevicava. Sorridevo felice a quei fiocchi fuori stagioni poiché, dopo una bella lezione su La nascita della tragedia di Nietzsche, la classe mi aveva applaudito.
Non ero indulgente con me stesso, per niente. Pretendevo molto. I ragazzi dovevano arrivare a dire tra loro, spontaneamente, che ero bravo, il più bravo di tutti. Due anni e mezzo più tardi, potenziato da questa fama avrei attirato la splendida Ifigenia. Il greco e il latino erano diventati concreti, oltre che belli. Il sumfevron, oltre che il kalovn. Non è vero che non servivano a niente, come dicevano gli stolti. Servivano a raggiungere le mete più nobili e alte, e pure a centrare i bersagli più desiderati.
Ricordo che la sera del 28 maggio, una sera estiva, piena di voli, ripresi la bicicletta e pedalando mi dissi a più riprese: ¨ce l’ho fatta, mio Dio, ce l’ho fatta!”. Piangevo di gioia.
Come quando ottenni l’amore di Helena Sarjantola nel luglio del ’71[2], la prima delle donne belle e fini che mi spettavano.
Mi ero aperto una strada nuova, più seria più impegnativa, più adatta a me. Cominciai a fare la vita che era davvero la mia.

giovanni ghiselli

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[1] Potei uscire anzi tempo grazie al raffreddore da fieno patrocinato da una raccomandazione.
[2] Ma questo l’ho già raccontato.

1 commento:

  1. Finalmente ritrovo internet e torno a leggerti.....questo brano è struggente. Spero che sia di esempio per tanti insegnanti,il nostro lavoro non può ridursi ad una fonte di sostentamento economico. Vorrei che tutti i maestri amassero l'infanzia,la scuola,lo studio come te. Giovanna Tocco

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